Don Carlo Missionario (parte seconda)

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Nell’Ellisse la Foresta amazzonica dell’Oriente ecuadoriano

Sebbene si possa affermare che Carlo Crespi fu certamente un esploratore intelligente dell’Oriente ecuadoriano (foresta amazzonica dell’Ecuador), tuttavia, per temperamento e per la sua formazione umana e cristiana, gli va rivendicato il raggiungimento di traguardi ben più significativi con le sue ricerche, i suoi studi, i suoi interventi ambientali e sociali. L’uomo era prima di tutto un missionario e, più della “scoperta”, lo interessava la salvezza dell’uomo integrale e, solo come corollario a questo obiettivo primario, studi e collezioni. Le strade e le mete potevano anche essere condivise con altri pionieri, come di fatto le condivise unendosi, fin dal 1923, ai primi esploratori che lo Smithsonian Institute di Chicago inviò precisamente nell’oriente ecuadoriano. Quest’appoggio non ne sminuì comunque il coraggio ed il merito, sia scientifico che missionario; al contrario, eleva la sua impresa a livelli di intelligente e buona organizzazione, ben superiore all’imprudente temerarietà. L’istituzione americana veniva anzi ad attestare la stima di cui godette il Crespi fin dagli inizi e che gli venne in seguito confermata da inviti ufficiali presso i circoli scientifici degli Stati Uniti.
Ma l’indole autonoma ed estrosa dell’uomo, come si legge nelle sue relazioni ai superiori, lo portò ad agire più volte in assoluta indipendenza, con l’unica garanzia di malsicure guide indigene, come quando si spinse verso l’alto Rio Santiago, affluente diretto del Rio delle Amazzoni, in compagnia di quattro selvaggi e tre semiselvaggi. L’obiettivo di Crespi era di raggiungere le origini del famoso fiume, dove, nessuno dei civilizzati conosceva i sentieri ed era giocoforza ricorrerete alla guida dei Kivari. Nei suoi scritti traspare sempre con grande evidenza lo sguardo acuto e l’intelligenza pronta dello scienziato, ma ad un lettore attento non può sfuggire che nel petto di questo scienziato batte il cuore del missionario attento all’uomo integrale, proprio perché il suo cuore è innamorato di Dio e della Vergine Ausiliatrice. Dalla relazione che segue, richiestagli dal Rettore Maggiore e da lui scritta nel 1929, dopo aver compiuto un viaggio apostolico alla Missione della Regione dell’Indanza, emerge con chiarezza il suo cuore pulsante di missionario.
“Rev.mo Sig. D. Rinaldi,
da alcuni giorni sono ritornato dalla visita compiuta alla Missione d’Indanza e seguendo le sue paterne insinuazioni mi affretto a mandarle alcune notizie. Il viaggio riuscì come al solito pieno di avventure. Dopo aver fatto alcune conferenze cinematografiche nella borgata di Gualaceo, terminati i preparativi ci slanciammo per la valle del fiume S. Francisco fino alle altissime sorgenti: la mulattiera aperta sull’orlo del fiume presenta qua e là bellissimi paesaggi con rapide cascate, burroni enormi sui cui cigli è dato scorgere qualche indigena della Sierra che con l’aratro completamente di legno sta rubando alla scoscesa natura qualche fertile zolla per le sue coltivazioni di mais.

Tra i campi di fragole silvestri. Man mano che la mulattiera s’innalza cessano le vestigia dell’umana civiltà, incominciano i boschi cedui, le praterie abbandonate e, ciò che più rallegra l’osservatore, macchie enormi di fragole silvestri contemporaneamente in fiore ed in frutto. Ho voluto accennarle questo fatto, perché sopratutto nei viaggi di ritorno dalla Missione, dopo aver passata l’altissima Cordigliera flagellata dai venti e dal nevischio, con un freddo da morire, con una fatue implacabile e con una debolezza enorme, questa è l’unica frutta che il buon Dio ha posto in questa zona deserta per salvare la vita di viaggiatori sperduti nel labirinto delle valli andine.

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Valle di Culebrilla

La valle del mistero. Facemmo quindi onore al piatto presentatoci dalla prodiga natura, e ripreso il viaggio entrammo nella valle di Culebrilla, imponente nella sua mesta solitudine per i fantastici picchi grigio-neri che ovunque la circondano, e spaventosa sopratutto nelle ore in cui colossali cavalloni di nubi nere rincorrentisi nella sovrastante atmosfera, riflettono nei frequenti laghetti scene di alto mistero. Valle della desolazione ricoperta qua e là di una monotona graminea che attira qualche mandria di bestiame semi-selvatico, e di alcuni ceppi di una specie di cicoria, cibo prediletto degli orsi e dei tapiri che vi scorrazzano liberamente ed indisturbati. Per buona fortuna non ci colse la tormenta sull’alta cima, e dopo sei ore di un penosissimo viaggio incominciammo la ripidissima discesa. Il cielo fino allora imbronciato, in un attimo si squarciò e ci apparve in tutto il suo splendore il colossale, fantastico panorama delle lunghe, interminabili valli, che compongono l’immensa foresta amazzonica. Che tramonto! Che giuoco di luci e di colori lassù nel cielo e nel lontano orizzonte, tra gli schermi di centinaia di felci arborescenti dalla slanciata e bella chioma piangente! Ormai spuntavano le prime stelle: continuare il viaggio di discesa per tanti burroni e precipizi per arrivare al rifugio del Zapote sarebbe stata un’imprudenza; incontrato quindi nel piano del Potrerillo un pezzo di terreno asciutto riparato da alcune foglie di felci, sospendemmo la marcia. La Divina Provvidenza ci fece incontrare in quella solitudine una famiglia indigena che usciva dalla Missione d’Indanza, e scaldato un poco di brodo, recitate le nostre preghiere, della sera, ci sdraiammo alla meglio sul nudo suolo intirizziti dal freddo aspettando ansiosamente i primi bagliori dell’aurora. Per buona fortuna piovette, ed appena terminate le pratiche di pietà col corpo indolenzito ci gettammo per la valle d’Indanza verso il Zapote.

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Fiori, felci, muschi e licheni della foresta amazzonica dell’Ecuador

Tra le vergini foreste. La vegetazione in questa zona ha veramente del caratteristico: centinaia di specie differenti di felci, muschi, licheni, macchie brillanti di alberi in piena fioritura e dipingenti le valli sottostanti qua in rosso scarlatto, là in bianco neve, altrove in giallo splendente, frequenti orchidee ora sporgenti timidamente dal suolo ed ora slancianti sull’orlo di precipizi magnifiche infiorescenze di alcuni metri di lunghezza, ed ovunque la colossale forza delle acque di centinaia e centinaia di cascate alcune visibili, la maggioranza invisibili e riempienti l’atmosfera di un rumore continuo, eterno, come se centinaia di macchine fossero in movimento, o migliaia di anime si sprigionassero in doloranti preghiere. Se la strada non fosse una continua minaccia alla vita, quali profonde meditazioni sulla infinita sapienza del gran Dio dell’Universo. Le pessime condizioni della mulattiera minacciavano di farci passare un’altra nottata nella foresta perchè il tramonto ci aveva sorpresi a tre ore dalla missione, quando il caratteristico ruggito del giaguaro venne a svegliare le nostre mule le quali si gettarono a corsa sfrenata per l’orribile sentiero, superando trionfalmente ed all’impazzata pali caduti e con salti proibitivi fangali pericolosi. Dai missionari poi seppi che nei giorni precedenti le stesse mule erano state assalite dalla bestia feroce in un prato vicino alla Missione, e che avevano avuta la vita salva perche il bestiame bovino e porci la pagarono per loro. Il Padre Plà ed il Padre Volpi ci accolsero con una cordialità straordinaria, veramente fraterna che ci fece dimenticare le peripezie del lungo viaggio. I progressi della Missione d’Indanza sono evidenti: l’antica casa fabbricata dodici anni or sono da Monsignor Costamagna e rovinata dalle termiti è stata rifatta in una posizione più sana e malgrado sia di legno e non ancora ultimata è già una buona base per un efficace lavoro apostolico; bella pure la chiesetta fabbricata con le offerte di una insigne benefattrice di Cuba: osservai un nuovo molino di canna da zucchero e relative caldaie per la preparazione della melassa zuccherina a servizio di tutti i coloni, e qua e là delle piantagioni di mandioca, banani, che sono un aiuto discreto per offrire ai selvaggi un poco di alimento quando vengono alla Missione.

Immense difficoltà. Le difficoltà in cui si svolge l’opera missionaria in Indanza sono veramente grandi. I selvaggi sono disseminati nella maniera più irrazionale e separati dalla Missione da torrenti così turbolenti che basta un temporale o poche ore di pioggia per renderli assolutamente intransitabili con canoe o zattere. Tra i selvaggi poi già da anni esistono delle inimicizie causate da stragi e guerre anteriori di modo che le difficoltà di radunarli intorno alla Missione sono per ora insuperabili, anzi alcune delle migliori famiglie per paura degli stregoni o delle vendette preferirono abbandonare il versante delle Amazzoni ed emigrare addirittura alle foreste del Pacifico in un clima malsano, fatale nei dintorni di Naranjal, Bucay, ove si credono sicuri dagli assalti nemici.

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Fotogramma tratto dal film del 1926

Progressi apostolici. Malgrado queste difficoltà, i progressi apostolici non sono indifferenti. Il missionario caricando l’altare portatile, una coperta ed un po’ di viveri si porta alle loro case, vero buon pastore che cerca la pecorella smarrita attraverso burroni e sentieri ripidissimi esponendo continuamente la propria vita pur di portare un raggio di quella luce che sana e converte. Oh amatissimo padre, senza uno squisitissimo spirito di Fede, il lavoro tra i Kivari sarebbe una vera pazzia. Quanto zelo, quanta pazienza, quanto spirito di mortificazione per potere avvicinare queste menti rozze, il più delle volte orribilmente grossolane e mal educate! Eppure il missionario arriva alla casa Kivara, vero tempio del paganesimo e vi rimane alcuni giorni annunciando con tutti gli artifici, con tutti gli stratagemmi la Buona Novella. Appena vede che i bambini sono stanchi del gioco o della caccia, colle più soavi maniere li raduna per l’istruzione religiosa: non appena uomini e donne hanno un momento di libertà sono avvicinate dal missionario, ma sopratutto la sera ed il mattino sono i momenti preziosi in cui intorno ad un altarino improvvisato ed adornato con fiori della foresta, vengono celebrati i sacri misteri e iniziati i poveri figli delle tenebre alla sfavillante luce del Vangelo. E queste peregrinazioni si succedono per giorni, per settimane, per mesi finchè la salute può resistere e finchè uno sfinimento generale non obbliga a ritornare alla sede.Un occhio superficiale osservando questi selvaggi li troverà come prima, perché come prima fabbricano le loro case, come prima coltivano i loro orti, come prima osservano le leggi della loro millenaria civiltà, ma pure la trasformazione cristiana si va operando lentamente ma infallibilmente. Alla domenica molti si astengono dal lavoro, vengono alla Santa Messa ed al catechismo malgrado le enormi distanze: hanno bisogno di un consiglio vanno dal missionario; c’è qualche infermo chiamano il sacerdote; è nato un bambino insistono perché venga battezzato; sono travagliati da qualche sciagura invocano il buon Dio e la Vergine Ausiliatrice. E vero, siamo ancora lontani dal poterli dire veramente cristiani, ma i fatti sopra accennati sono un indizio che il lavoro compiuto in questi dodici anni non fu sprecato.  Dalla scoperta dell’America fino al 1916, nessuna Missione era stata aperta ad Indanza (i gesuiti stettero solo in Gualaquiza una parte del 1869 e del 1870): il lavoro quindi dei figli di Don Bosco può ben dirsi benedetto dal Signore e sono convinto che quando avremo personale sufficiente per aprire una scuola agricola, con laboratori elementari, un ospedaletto e un piccolo orfanotrofio tenuto dalle suore di Maria Ausiliatrice i progressi saranno più rapidi e le conquiste più sicure.

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