<< CONTINUA DA PARTE SECONDA
La gran consegna.
Intanto la stanchezza si era impossessata delle mie membra, ed il sonno, rotto durante la notte da punte salienti, ci portò all’aurora del giorno seguente. Un cielo magnificamente stellato dapprima, seguito poi da una bellissima fascia rosea, con una soavissima aria balsamica della circostante foresta, mi condusse a far preparare l’altare all’aperto con lo sfoggio dei più bei tessuti provenienti dalle fabbriche milanesi. Tutti i selvaggi vollero mettersi in grande tenuta: le donne coi migliori ornamenti usati nei balli, il venerando Charupi con calzoni, camicia, gilè, giacca, e con un cappello da ciclista: il primogenito con un bellissimo elmo dei pompieri di Guayaquil, simile a quello dei corazzieri d’Italia, e tutti gli altri con corone, collari, schioppi. Non sapendo essi recitare la più semplice preghiera da soli, avevo dato una semplice consegna al capo di famiglia: – Chichachu (non parlare!) – non parlare, non ridere, non scherzare e stare attenti all’altare, perchè il buon Dio non avrebbe portato le sue benedizioni agli incauti trasgressori. Infatti il buon vecchio aveva disposto una ventina di selvaggi intorno al simpatico altarino. Toccato il campanello, tutti drizzarono gli occhioni curiosi sulle cerimonie sacerdotali, e non ebbi a lamentare neppure la minima sgarbatezza. Con lo strazio nel cuore terminai la S. Messa, pensando con mestizia che forse solo dopo qualche anno i Missionari avrebbero potuto ritornare a catechizzare una famiglia tanto ben disposta, e così generosamente e naturalmente cristiana. Fui largo di regali in aghi, specchi, polvere, munizioni da caccia, vestiti; e lasciai appesa all’albero della capanna un’immagine dell’Ausiliatrice, lasciandola regina della valle incantevole.
Saporitissime frutta.
Verso le 7 già eravamo in moto, coll’animo pieno delle più soavi emozioni e coll’ardente preghiera a Dio che salvasse tanta fede ingenua.
Il viaggio ci offrì dei panorami stupendi e ci mostrò delle meravigliose posizioni deserte, che potrebbero essere la sede felice di migliaia di famiglie d’emigranti. Il bel maggio di Maria ci offrì pure dei saporitissimi frutti silvestri, che formerebbero, se coltivati, la delizia di tanti mercati europei o americani. Una specie di tacsonia, rampicante altissimo, produce migliaia di pomelli, contenenti un succo di una soavità paradisiaca. Un’altra pianta, della famiglia delle rosacee, ricopre il durissimo tronco di frutta giallastre, profumatissime ed eccellenti. Un terzo albero gigantesco produce tonnellate di frutta grosse coane una mela, e di un prilibato sapor carneo come gelatina di pollo. La foresta poi non è avara di tanti altri frutti, che i selvaggi divorano con avidità.
Salvo per miracolo.
Passato il mezzogiorno, al margine di una discesa pericolosa la tranquilla marcia viene improvvisamente interrotta da un angoscioso grido d’allarme. Un selvaggio mi strappa bruscamente la lancia che portavo, e un altro mi si getta al piede destro per esaminare le scarpe rotte. Uno dei più velenosi serpenti delle nostre missioni, calpestato inavvertitamente, mi aveva conficcato i terribili denti a un millimetro dalla viva carne. Ucciso il serpentello che non raggiunge i 20 cm. di chiazze bianco-nere, con una testa schiacciata, larga, a punta triangolare, tutti i selvaggi mi furono addosso gridando come ossessi e predicando con le parole più ampollose il gravissimo pericolo che io avevo corso. In tutte le escursioni i selvaggi vogliono sempre che io li preceda, ed incamminai la marcia per evitare qualsiasi sorpresa! Questa volta, poi, che la Vergine Ausiliatrice aveva operata una grazia così strepitosa, potei osservare una gratitudine che giammai avevo visto tra i miei carissimi Kibaros. Il più alto e robusto di tutti mi saltò al collo piangendo e, abbracciandomi come un bambino, mi diceva:
– Ah! Padre, tu non sai che veleno potente ha la piccola vipera testè uccisa! Se ti avesse morsicato, a quest’ora ti uscirebbe il sangue dalle narici, dalla bocca, dagli occhi, dalle braccia, dal petto; già la tua carne sarebbe gonfiata come quella del tapiro, e saresti per terra gridando come un porco morente, per poi spirare subito. E che ti avremmo potuto fare noi altri? Forse la foresta produce il rimedio contro tale serpente? Forse un Kibaro si salva? Ah! Padre, il tuo Dio ti aiuti! Se l’avessi pestato io, credi tu che ora sarei ancora vivo? No, sarei in una pozza di sangue!
Ringraziato Iddio del gravissimo pericolo scampato, ripresi il viaggio, commosso innanzi a protezione così maternamente soave e non potei fare a meno di trattenermi per alcuni minuti nella meditazione delle profetiche parole rivolte al Messia ed ai continuatori della sua opera redentrice: « Camminerai sopra gli aspidi ed i basilischi, e non ti toccheranno ». Mentre io recitavo il Santo Rosario, i selvaggi non cessavano di commentare con sempre nuovi argomenti il prodigio avvenuto, e la conclusione era sempre la stessa:
– Se io fossi stato al posto del Padre, forse che il serpe non mi avrebbe avvelenato? E come per questi sentieri difficili mi avrebbero trasportato alla casa paterna, e dove avrebbero trovato il rimedio infallibile?
Improvviso assalto.
Verso le tre del pomeriggio un altro allarme improvviso ci getta nel furore di una mischia sanguinosa. Emettendo urla furibonde, tutti e quattro si mettono a sparare come matti nella foresta.
– Inemici di Tzarabiza! i nemici di Tzarabiza! – era la voce comune.
Mi gettai io pure a terra mirando nella direzione degli spari, e, non scorgendo nulla, li stavo pacificando e riducendo a più miti consigli.
– Tu non sai nulla, Padre, per questo ridi! Sappi però che sono molti giorni che stanno vagando per queste foreste per ammazzarci. Tu non hai la vista buona, perciò non li hai visti: ora sono già nel profondo della valle. Se non ti fossi trovato tu in nostra compagnia, ci avrebbero assaliti e massacrati qui sui posto.
Per evitare disgrazie e non riuscendo a pacificarli mi ero cacciato dentro un grosso tronco di albero vuoto. Quando terminarono gli spari e li vidi tranquilli, uscii dal rifugio e riprendemmo il viaggio. Il mio cuore però non era tranquillo, e con tristezza pensavo alle terribili lotte intestine, che creano odii secolari tra famiglie e impediscono assolutamente la formazione del più minuscolo popolo cristiano. Il Kibaro negli assalti è una vera belva feroce e mostra nella lotta i più crudeli istinti che mai si possano immaginare.
Trionfale accoglienza.
Intanto il sole era tramontato ed una salita ripidissima ci conduceva alla casa del Kibaro Kukúx. La visita era stata preannunziata, ed ebbi così la fortuna di vedere una cinquantina di selvaggi venuti dalle parti più lontane. Questa volta, pigliando la scusa che stavo male, dissi subito al capo di famiglia che non potevo assolutamente bere la ciccia, però che avvisasse le sue donne che mi facessero cuocere una bella pentola di banane e di zucca e di patate americane, ché le avrei pagate molto bene. Radunai subito i bambini per far loro un po’ di catechismo, e diedi ordine ai Kibaros di preparare un bellissimo altare, perchè avremmo pregato molto il Signore ed avremmo celebrata la Santa Messa come un grandissimo regalo. Come segno di festa speciale il Kukúx fece subito ammazzare un bel porco; e, quasi commosso, mi si accostò mostrandomi una splendida collana fatta con denti di tigre.,
– Vedi, Padre, avrei fatto ammazzare un porco più grosso, ma me lo uccise nella foresta il tigre, e non solo uno, ma venti in un anno. Ma però il bestione è caduto nelle mie mani stesse e questi denti sì grossi dimostrano il mio coraggio e polso sicuro. Se pregherai Iddio affinchè nessun altro tigre mi molesti, quando questi porcellini saranno grossi, te ne regalerò uno.
Mentre i selvaggi si gettavano con brutalità sulla vittima, io feci ammazzare una gallina e la feci cucinare sotto i miei occhi affinchè la carne servisse per il giorno seguente. Non meravigli questa misura: il furto tra i selvaggi non è proibito da nessuna legge, e se voi date ad una donna una gallina da cucinare con tutta tranquillità, è capace di presentarvi un po’ di brodo, un pezzettino di carne ed il resto di trangugiarselo tranquillamente nell’oscurità della notte. Per togliere però la cattiva impressione suscitata dagli stimoli palatali non soddifatti, feci preparare un pentolone di una bevanda squisitissima: guayusa con zucchero; e dopo il catechismo ne distribuii a tutti fino alla sazietà, rifiutando con una scusa qualunque di mangiare il loro porco. La notte passò tranquilla per quanto difficilmente si potesse riposare con tanta gente. Il pensiero che più mi preoccupava era come avrei potuto tenere in silenzio tanti marmocchi nell’assistere alla Santa Messa senza assolutamente un pezzo di tela per coprirli.
Angeliche statue viventi.
Ai Missionari vengono delle idee luminose e pensai di fare una bella corona di angioletti intorno all’altare: quattro innanzi con mozziconi di candele, tre ai lati con le boccettine del vino e dell’acqua e con il manutergio, un altro con il campanello e altri due con le carte-glorie; e questo con l’aria del più assoluto mistero, solo con gesti, affine di impressionarli dell’altissimo incarico che avevo loro affidato. Effettivamente questi rapacchiotti si diportarono bene, senza una parola, senza un sorriso, come se fossero dei veri angioletti di marmo. Era la vigilia della festa dell’Ausiliatrice, il 23 di maggio, e può quindi immaginare, amatissimo Padre, con che tenerezza parlai loro dell’Augustissima Regina, che il giorno prima ci aveva salvato da morte!
Veglia notturna.
Verso le otto ci mettemmo in viaggio, malgrado una pioggia dirotta, continua. Fu un giorno orribile. Tutti i fiumi erano cresciuti e le vesti in uno stato così compassionevole per le continue cadute nel fango, che per ben dieci volte fui costretto a gettarmi in piena corrente, aiutato dai selvaggi, con l’acqua fino alla gola. È facile immaginare in che stato arrivai all’ultima colonia cristiana: le vesti, le scarpe non si riconoscevano più. Quando mi videro arrivare, alcuni coloni si misero a piangere di compassione. Dopo mezz’ora però, cambiate bene le vesti e riscaldatomi ad una benefica fiamma ristoratrice, già stavo disposto al lavoro apostolico. La cappella non era stata ancora incominciata per la malattia del falegname ed anche questa volta il portico, cattedrale-pollaio, ci servì magnificamente per celebrare la solennità dell’Ausiliatrice. Tutti i coloni erano venuti con magnifici mazzi di fiori, con splendide palme intrecciato con disegni i più svariati. La letizia dell’Ausiliatrice era in tutti i cuori, e la umile immagine dell’Eccelsa Patrona la ponemmo sopra un trono trionfale di gloria. Recitato il Santo Rosario, incominciai a confessare la trentina di persone presenti, arrivando fin quasi alla mezzanotte, l’ora nostalgica della veglia notturna nel Santuario di Torino. Mi unii in ispirito ai Superiori, agli amici lontani, sicuro che l’umile omaggio dei trenta coloni e dieci Kibaros presenti non sarebbe stato meno accetto alla nostra cara Madonna. Alle 4 del mattino celebrai la S. Messa, distribuii la S. Comunione, ed infine la benedizione d’addio con l’umile Crocifisso.
Preghiera selvaggia.
Il viaggio di ritorno fu un vero martirio, data la stanchezza dei giorni precedenti, ma arrivai per tempo per celebrare alla domenica, 25, la festa solenne nella sede d’Indanza. Fuochi, luminarie, spari, musica riuscirono a renderla più sonora, ma ciò che avrà fatto più impressione nei selvaggi presenti sarà stato certamente la gran caldaia di riso e maiale fatta preparare da Don Plà. Avesse visto, amato Padre, con che avidità con cucchiai di legno si gettarono sulla saporita vivanda ridendo, sghignazzando ed assaporando nel modo il più trivialmente goloso la montagna di riso! Qualche barlume di fede, però, rifulse in mezzo a tanto materialismo. Durante la mia Messa Don Giulio aveva insistentemente detto ai Kibaros che qualunque grazia avessero chiamato durante il giorno l’Ausiliatrice l’avrebbe concessa, insistendo sopratutto sulle grazie spirituali. Terminata la S. Messa e vuotata la chiesa, mentre io stavo facendo il ringraziamento nella sacrestia, un Kibaro del lontano Pongo, superbamente ornato, con la lancia si piantò innanzi la statua della Vergine ed incominciò la sua preghiera:
– Nangui huagueraje, Tzurusta; cuciru huagueraje, tzurusta; pusciru thuagueraje, tzurusta: (Voglio una lancia, dàmmela; voglio un coltello, dàmmelo; voglio un panciotto, dèmmelo). Aspettò un poco e poi ripeté nuovamente la domanda con più forza; quindi uscì di chiesa disperato dicendo ai suoi compagni che il Padre della predica era bugiardo, che non era vero che la statua dell’Ausiliatrice dava tutto ciò che si chiamava. Testimone della scena, benché nascostamente, chiamai in segreto il Kibaro e gli dissi che bisognava prima chiamar la grazia di star buono, di non ammazzare, di non tener tante mogli, di andar in Paradiso. E per fargli però vedere come l’Ausiliatrice aveva premiato la sua preghiera, gli regalai proprio la lancia, il coltello ed il gilè. Il selvaggio era fuor di sé dalla gioia, e chissà questa grazia materiale ottenuta non gli valga il conseguimento di qualche grazia spirituale.
Assalito da un orso.
Il 27 maggio già avevo preparato, lavorando notte e giorno, le casse di materiali etnografici e scientifici per l’esposizione di Roma e mi preparavo ad uscire dalla foresta. I miei peones però si erano ubbriacati: può quindi immaginare che difficoltà nel viaggio e con che tormento ho dovuto io stesso guidare le bestie sopratutto nei punti pericolosi. La notte ci sorprese nella foresta; la carne comprata per il viaggio era già nauseante. Per buona fortuna alla mattina seguente, dopo una dormita rumorosa, i miei uomini avevano ripresa la conoscenza. Celebrata, quindi, la Santa Messa e armatomi di un bastone, tentai i 5o Km. che mi separavano da Gualaceo, per poter celebrare tranquillamente in paese cristiano la solennità dell’Ascensione e far un po’ di bene. Solo, nella foresta più barbara e priva assolutamente di esseri umani, parve un’imprudenza l’avventurato viaggio. Infatti, dopo due ore, un orso nero attraversa la, strada e si ferma, mirandomi a pochi metri, con occhio sinistro. Mi fermai io pure e, conscio del pericolo, invocai l’aiuto dell’Ausiliatrice, e sull’istante vedo comparire un ferocissimo cane, il quale, abbaiando ferocemente, si slancia contro l’orso e lo costringe ad internarsi nella foresta, inseguendolo per alcuni minuti. Fra i due litiganti il terzo gode, e, senza perder tanto tempo, continuai felice il mio cammino fino alla faticosissima cima di 3500 metri che culmina nel freddo parano. Il cane mi raggiunse ben presto e con lui divisi il pezzetto di pane secco, che mi era rimasto per il pranzo. I 20 Km. di ascesa più difficile erano terminati, ed incominciavano i 3o di discesa. Mi slanciai, quindi, a rotta di collo per la difficile via.Verso le 4, arrivando al primo casolare cristiano, tre furiosissimi cani, poco cristiani, mi assaltarono così barbaramente, che già mi avevano stracciata la veste e chissà che cosa mi avrebbero fatto, malgrado mi difendessi coraggiosamente con il bastone. A buon punto venne il mio cagnolino che era rimasto indietro, ed ingaggiando coi barbari mastini una lotta vivace, morsicando di santa ragione, li vinse tutti e tre, mentre io, già da lontano, contemplavo l’originalissima vittoria, benedicendo Iddio per un aiuto tanto insperato. A due ore da Gualaceo, le scarpe non avevano più suola, le tenebre rendevano invisibile il sentiero accidentato e questa volta il buon felino si mise dinanzi per mostrarmi la strada più propizia. Verso le 9 del mattino arrivai alla parrocchia di Gualaceo, senza scarpe, senza calze e con le vesti stracciate. Il buon Parroco mi accolse come un vero fratello, dandomi tutte le comodità per ristorarmi. Al mio fedelissimo cane volli dare una cena sontuosa, degna delle eroiche gesta del giorno. Quando mi ritirai nella stanza per dormire, mi volle a tutti i costi seguire e si accoccolò presso il letto. Alla prima aurora mi svegliai: era scomparso e non lo vidi più. Più tardi seppi che era ritornato alla foresta, in un’azienda vicino alla Missione. Per conto mio posso assicurare che il suo intervento e la sua guida furono così propizi che mi liberarono certamente da gravissimi guai, ed in lui riconobbi uno strumento della Divina Provvidenza per salvarmi.
Il giorno dell’Ascensione ed i due seguenti. riposai un poco dalle penose escursioni attendendo al ministero delle confessioni, ed al 31 maggio raggiungevo, a piedi, la casa centrale delle Missioni in Cuenca a dar ragione del mio operato all’Ecc.mo Mons. Comin.
Amatissimo Padre, da questa relazione che tocca solo alcuni degli episodi occorsi durante l’escursione, facilmente comprenderà come lo Missione dei Kibaros ha bisogno di un aiuto specialissimo di preghiere e di materiali per svolgersi. Sono tali e tante le difficoltà che si oppongono al trionfo della grazia, che solo spiriti forti e zelanti fino all’eroismo potranno cantare la vittoria nel lavoro apostolico. La Vergine Ausiliatrice prepari tali Missionari!
Prof. D. CARLO CRESPI.