Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Seconda)

<< CONTINUA DA PARTE PRIMA

Brutalità selvaggia.
Al mattino, presto, si riunirono tutti i Kibaros dei dintorni per la S. Messa. Un kibaro però della valle di Tzararabiza non partecipò, e quindi credei opportuno andarlo a trovare a casa sua. Mentre Don Plà s’intratteneva coi kibaretti del luogo, m’internai nella foresta, malgrado il tempo sempre piovoso ed i sentieri orribilmente sdrucciolevoli.
Dopo tre ore di marcia dolorosissima, arrivai alla kibaria prefissa, di Gioachino Ramón. E, questo uno dei kibari di Gualaquiza, superbo, feroce, cercato a morte nell’antica Missione. Mi accolse però cortesemente ad un mio desiderio radunò i 13 figli e figlie per un po’ di catechismo, almeno per imparare il segno della Santa Croce.
Dopo mezz’ora i vispi marmocchietti erano stanchi. Regalai a tutti degli aghi grossi da sacco, assai graditi, ed alle donne uno specchio. Li invitai, quindi, a posare innanzi alla macchina fotografica.
– Non voglio io, e neppure mia moglie – mi rispose seccamente; – i ragazzi però sì che poseranno volentieri.
Intanto la pioggia era cessata, e, usciti nel magnifico orto, indicai il luogo ove avrei desiderato che si mettessero prima i fanciulli e di poi le fanciulle. Coi ragazzi ce la passammo facilmente; le bambine si trovarono un po’ impacciate e non volevano uscir di casa. Senza tanti complimenti il barbaro, ripetute alcune parole come colpi di martello, afferrò per l’abbondante capigliatura le tenere creaturine e le trasportò, come fossero quattro pannocchie di granturco, al posto indicato, innalzandole da terra un mezzo metro.

All’atto inumano rabbrividii, ed avrei voluto reagire con una filippica; ma, appena accennai di parlare, mi troncò la parola:
– Tu non sei kibaro, tu non sai niente! I kibari fanno così! Piglia subito la fotografia, ché le bambine sono pronte.

La serpe avvelenatrice X, (echis).
Presa la fotografia ed invitati i ragazzi, di una bontà eccezionale, a passare alla Missione, m’indirizzai all’azienda del Tappia, ove verso notte giungevo con Don Plà. I coloni erano già stati avvisati alcuni giorni prima, e felicissimi si radunarono tutti per accogliere le grazia di Dio. Terminato il rosario e la predica, si confessarono colla massima divozione e, alloggiati alla bell’e meglio, passammo la notte. Al mattino, nella miserabile capanna di due piani celebrammo la S. Messa.
Tre giorni prima il giovanetto custode, tagliando le canne da zucchero, aveva ucciso un serpentaccio velenosissimo, chiamato echis, « X », dal disegno a forma di X, che porta sulla testa. L’avevo pregato di estrarre la pelle con la massima diligenza, e per porla a seccare l’aveva appesa alla bassissima soffitta della catapecchia.
La mattina seguente, all’aurora, nel miserabile tugurio si celebra la S. Messa e può immaginare, amatissimo Padre, l’impressione profonda, da me provata, quando alzando all’adorazione dei fedeli il Re del Ciel.., l’Ostia Santa, … il Santo Echis della Redenzione si incontrò coll’emblema del serpente infernale, coll’echis appeso all’umilissima soffitta sopra la mia testa con la bocca aperta in atto minaccioso. I due emblemi opposti, l’eterno nemico dei kibaros ed il mansueto Agnello della Redenzione!…
Un freddo gelido m’invase tutte le membra, ed inalzando il Sacro Calice del Sangue preziosissimo di Cristo, mentre due piccoli selvaggetti con profonda divozione s’inchinavano ad adorare, oh sì che, senza interrompere la soave liturgia delle parole liturgiche, non potei fare a meno d’invocare dalla potente Ausiliatrice la morte di tutti i serpenti demoniaci, che col loro mortifero veleno rendono impossibili i generosi sforzi degli operai dì Cristo. Terminate le due messe, impartiti gli ultimi ricordi, ci mettemmo in viaggio per giungere all’ultima azienda detta di Peña Blanca. Attraversammo la bella valle percorsa dal fiume S. Antonio, arricchendo la collezione botanica di alcune specie di felci singolarissime, assolutamente mai viste in tutto l’Oriente.

Consolazioni apostoliche.
Verso sera arrivammo al colossale macigno bianco di trachite, che s’innalza in mezzo alla valle verdeggiante: i fianchi scoscesi impediscono lo sviluppo di piante: per questo fu battezzata « pietra bianca » tutta la località. Qui, avendo avuta la fortuna di incontrare dei falegnami, che stavano tagliando assi alla foresta, in poco tempo si potè fabbricare ex novo una bella cappelletta con un divoto altare. Purtroppo, i coloni che vengono all’Oriente, non sono stabili, alcuni sono vagabondi, cercati dalla Polizia; non rechi quindi meraviglia che Dio ricompensi le incredibili fatiche missionarie con conversioni di Indios, che da 20, 30 anni non s’erano riconciliati col sacerdote. Terminate le messe, un giovinotto mi condusse nella foresta ai piedi di un albero gigantesco e: – Qui sotto ci sta il fratello di mio padre – mi disse – preghi per il riposo eterno dell’anima sua. Invano, dopo una fervorosa preghiera, potei tentare di strappargli il segreto della morte.
– È un orribile fatto di sangue; mi disse il giovane; e piangeva, e non potei sapere altro.
Intanto la nostra escursione ai cristiani del distretto di Indanza era terminata. In 15 giorni, a marcie forzate, sopportando disagi e pericoli non lievi potemmo riconciliare a Dio una cinquantina di cristiani! Frutto miserabile, impari ai sacrifici lo giudicherebbe un osservatore superficiale! Che importa? È la pecorella smarrita che Dio ci ha imposto di cercare e la cercammo nel folto della foresta, lacerandoci le vesti, insanguinandoci le membra, felici di spargere qualche goccia di sangue per la sublime causa di Cristo!

Le vie del Signore.
Non tutto il male però viene per nuocere; le piogge continuarono con tal violenza, che assolutamente mi sarebbe stato impossibile il ritorno ed avrei dovuto rimanere senza celerare la S. Messa per mancanza di vino. Risalendo il sentiero della Missione mi colpì il suono del tunduli, tronco di legno incavato che i Kibaros usano per dare i segnali e che si ode sino a 25 chilometri di distanza. Il suono monotono annunciava la presa del Natema; la mia visita quindi alle loro case sarebbe stata inutile, anzi pericolosa perchè in detta occasione si abbandonano alla più volgare ubriachezza. Passati, quindi, alcuni giorni con alcuni Kibaretti della casa nell’esplorazione delle foreste circostanti, in cerca sopratutto di legnami preziosi e di erbe médicinali, assoldati peones e guide meno timide, mi slanciai per la valle del Junganza, Chupianza, affluenti del Namangora.

Commovente incontro.
La prima notte .la passammo ancora tra i pochi coloni stabiliti alle origini del fiume tra le feste e la gioia più pura, preparando i loro animi alla divozione all’Ausiliatrice, la cui festa avremmo celebrata insieme, come ringraziamento, dopo l’escursione difficile alle Kibarie. La mattina seguente, detta la S. Messa di buon ora, accompagnato da due robusti Kibaros, arrivammo alla Kibaria del Charupi. Malgrado il tempo, perfido e piovoso, il venerando selvaggio si dimostrò di un’ospitalità veramente eccezionale.
– I Padri – diceva ai suoi figli – li manda Iddio. Essi sono come gli stregoni; gli stregoni però tengono nelle loro mani tutte le malattie, tutti i malefizi per gettarli sui poveri Kibaros e farli morire, mentre i Padri tengono tutte le benedizioni di Dio Quando essi vogliono, le malattie scappano; quando il tigre minaccia i porci, essi lo fanno fuggire; quando gli orti sono aridi, essi fanno nascere radici di mandioca grossissima; quando noi andiamo alla caccia, essi ci fanno incontrare molti porci selvatici. E rivolgendosi a me: – Per questo, Padre, io ho dichiarato guerra a tutti gli stregoni, e voglio molto, ma molto bene ai Missionari! Vedi quante bellissime terre! Se vieni qua tu, te le regalo tutte. Ti faccio una bella casa, le mie donne ti regaleranno molta ciccia, e tu insegnerai ai miei figli a conoscere la moneta, a leggere, a scrivere.

Troppa grazia Sant’Antonio!
Mentre continuava la sua fervida arringa, le donne felicissime si apprestavano a porgermi la ciccia, frutto delle loro ributtanti masticazioni. Infatti si presenta la più anziana e mi offre una tazza che poteva contenere 5 litri del bianco e saporito rinfresco. La stanchezza grande e la sete orribile mi fecero rompere il riserbo, che generalmente tengo nell’accettare una bevanda tanto discussa, perché tanto masticata, e feci un largo vuoto nell’ampia tazza. Non l’avessi mai fatto: dopo la prima donna si presenta la seconda con una tazza ancor più grande, quindi una terza ed una quarta. E qual fu la mia sorpresa, quando, terminata la prima processione, ne incomincia un’altra con tazze ancor più ampie e ripiene di un’altra ciccia fatta colle frutta della palma « chonta », ciccia assai più saporita, ma carica di alcool. Allora mi feci coraggio e dissi al Charupi:
– Io sono contento e mi congratulo con te che tieni cuciniere una più valente dell’altra, e le voglio premiare con un bello specchio.
All’idea dello specchio a malincuore deposero le tazze: ed io mi ero liberato dal pericolo inevitabile di un’ubbriacatura.

I Padri pregano colle mani!
Intanto diedi subito ordine di preparare un bell’altarino per le preghiere della notte e per esporre una bella immagine dell’Ausiliatrice per attirarli ad un culto, sia pur rudimentale della dolcissima Madre. Mentre alcuni si erano sparsi nella foresta per scegliere i più bei fiori, approfittai per cambiare le lastre della mia macchina fotografica. Raccolto in un angolo della capanna, e coperte le mani e le braccia colla veste e con alcuni indumenti, con la massima circospezione lavoravo per caricare i chassis. Appena il venerando Charupi mi vide in posizione, impose il più rigoroso silenzio alle donne ed ai fanciulli.
– Silenzio, io lo so, sono vecchio: il Padre sta conversando con il suo Dio, sta pregando perchè i nostri porci ingrassino! Non bisogna disturbarlo.
– No, gli risposi io, possono parlare: sto lavorando colla macchina.
– Forse che sono un ragazzo? – mi rispose seccato. Non preghi tu forse colle mani nascoste sotto la veste?
E quando udiva il rumore dei vetri che si battevano uno contro l’altro diceva:
– Ecco come prega il Padre!
Qualunque spiegazione fu inutile: avrei dovuto sprecare delle ore per persuaderlo che si può pregare anche così, ma che lavoravo colla macchina:
– No, no: io lo so; io sono vecchio; voialtri, Padri, pregate molto, e non volete farlo sapere, per questo nascondete le mani.
Intanto l’altarino stava pronto, ma stava pronta anche la loro cena. Parlare di religione ai Kibaros prima di mangiare, è come gettare un pezzo di carne ad un cane e pretendere che non lo divori.

Innanzi all’Ausiliatrice.
Quando i miei merlotti furono ben pasciuti e ben bevuti e le donne pure avevano terminata la fabbricazione della ciccia, furono accese le candele dell’altarino, ed, intorno ad esso come cagnolini si accovacciarono i poveri figli delle tenebre. Il primo catechismo nelle foreste ad una ventina di persone di tutte le età, di tutti i sessi, in una lingua non ancora scritta, rappresenta un arduo problema. Estrassi dal petto il Crocifisso che Lei stesso mi aveva dato ai piedi dell’Ausiliatrice di Torino, e con le lagrime agli occhi narrai l’orribile storia di sangue di quell’emblema. Ad ognuno di essi faceva toccare i chiodi con cui l’avevano ammazzato i ladroni.
Immagini Lei, amatissimo Padre, che difficoltà insuperabili molte volte si provano nel far penetrare le più semplici narrazioni bibliche od evangeliche. Qualche cosa, però, avevano compreso della spiegazione, e quando appesi all’altare il Crocifisso e li invitai a pregare con la massima devozione, tutti senza alcuna eccezione, mirando il Dio della Croce, si misero a ripetere quelle poche invocazioni che la Fede mi suggeriva.

Il segno della Croce.
L’insegnare il segno della Croce è qualche cosa di arduo. I Kibaros, così furbi e scaltri quando si tratta di ammazzare uomini e salvaggina, quando si tratta di religione si mostrano di una rudezza che pare impossibile. Coi bambini si conchiude qualche cosa: colle donne e con gli adulti poco più di nulla. Il Missionario fa il segno della croce, dieci, venti volte: lo fa ripetere ai catecumeni, ma le donne incominciano a ridere, gli uomini a parlar forte; uno lo fa colla destra, l’altro lo fa colla sinistra, uno incomincia dalle spalle, l’altro dal petto„ e molte volte si passano tre, quattro ore senza. neppur avere la soddisfazione di aver insegnato il più elementare atto di culto esterno. S’immagini poi Lei, amatissimo Padre, che cosa rimarrà di questa faticosissima Missione, quando il Missionario, ben difficilmente potrà passare e rinfrescarla prima di un anno! La grazia di Dio, però, ha operato qualche cosa; spente le candele dell’altare, nell’oscurità della notte, al lume roseo di brage ardenti, ai piedi dei singoli letti, nella penombra si vedevano dei fanciulletti che insegnavano alle loro madri il segno della Croce, commentando magari con larghe risate le parole del Padre dette al Catechismo.
Non c’è da offendersi: il Kibaro ride sempre di tutto e di tutti, sopratutto quando ha la pancia piena.

……………..

( Il seguito della lettera continua in “Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Terza)

 

CONTINUA PARTE TERZA >>

Don Carlo e il suo Museo (da “Siervo de Dios P. Carlos Crespi Croci …”) – Parte Seconda

<< CONTINUA DA PARTE PRIMA

Schermata 2015-04-29 alle 20.36.49
La Cueva de los tayos si trova nella provincia di Morona-Santiago, nel cantone di Limón-Indanza


Il Museo: Realtà o Fantasia?
Crediamo che sia necessario approfondire maggiormente il tema del museo, perché, come abbiamo già visto, la sua fama internazionale la favorirono due europei: Chiariamo, allora, perché e in che modo questi due personaggi incrociarono la strada di P. Crespi.

Schermata 2015-04-29 alle 21.34.29
Neil Armstrong e Stan Hall nel 1976 a la Cuevas de los Tayos

Erano arrivate delle spedizioni scientifiche per compiere degli studi, la più importante delle quali era stata organizzata dal Governo inglese, con la collaborazione del Governo ecuadoriano, chiamata “Spedizione scientifica a la cueva de los Tayos”, che iniziò i lavori sul campo nel 1976 e alla quale parteciparono Stan Hall1 e Neil Armstrong2. Chi scrive queste note biografiche ha avuto la fortuna di essere scelto a rappresentare l’Università di Cuenca, ad integrare il gruppo degli scienziati ecuadoriani e a completare il tutto con una relazione ((Cordero Iñiguez, Juan, La expedición scientifica a la cueva de los Tayos, Centro di Documentazione della Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze dell’Educazione dell’Università, Cuenca, 1976.)) della quale citerò alcuni paragrafi.

Schermata 2015-04-29 alle 18.38.57
Juan Moricz e Erich von Däniken.

Due parole sui due europei. Juan Moricz, cittadino ungherese, residente per lungo tempo in Argentina, viaggiò per l’Ecuador fino al 1965, anno in cui arrivò a “scoprire” le grotte di Los Tayos dandone notizia, successivamente, realizzando una scrittura pubblica in uno studio notarile di Guayaquil, dalla quale risulta la sua qualità di scopritore e alcune informazioni riguardanti gli oggetti rinvenuti all’interno della caverna, nonché il suo desiderio di diventarne proprietario. Moricz visitò il museo di padre Crespi, il quale lo rese partecipe delle sue teorie e, inoltre, gli raccontò, secondo quanto riferitogli dai venditori, che molte delle lastre di pietra e di metallo provenissero dalle grotte di Los Tayos.

Nel 1972, Moricz e von Dänicken si incontrarono e si accordarono di realizzare una spedizione archeologica nella grotta di Los Tayos. Secondo le loro fantasiose e false dichiarazioni, il primo capitolo del libro di Dänicken, intitolato “Aussaat und Kosmos” è il frutto di queste osservazioni.

Schermata 2015-04-29 alle 20.32.05
Neil Armstrong nella Cueva de Tayos

Tuttavia, è indubbio che il lavoro proposto con ambizioni scientifiche abbia suscitato un grande impatto, dal momento che le informazioni ivi contenute sono del tutto fantasiose e impressionanti e le notizie riportate, qualora prese sul serio, porterebbero a concludere che si tratti di una delle più significative scoperte archeologiche di tutti i tempi. In questa opera, letta da milioni di persone, Dänicken, in sintesi, afferma che, dopo un viaggio denso di pericoli attraverso la zona sudorientale della provincia di Morona-Santiago, arrivò in prossimità di un gruppo di grotte dove, secondo la sua opinione, visse l’esperienza “più incredibile” e “inverosimile del secolo”.
Scoprirono tavoli e sedie realizzati in un materiale sconosciuto, e subito dopo uno “stravagante giardino zoologico”: sauri, elefanti, leoni, coccodrilli, giaguari, cammelli, orsi, scimmie, bisonti, lupi, lucertole, chiocciole, granchi, ecc. Dall’altro lato, osservarono il “tesoro dei tesori”: la biblioteca metallica che descrive in questo modo: vi sono lamine, aventi spessore millimetrico e dimensioni pari a cm 96 x cm 48, ognuna delle quali reca una sorta di scrittura. L’incisione è regolare, come se fosse stata prodotta da una macchina.

Poiché Moricz si oppose a che venissero fatte fotografie, per timore che accadesse qualcosa di tragico: l’improvvisa chiusura della via di risalita, lo scatenarsi di un raggio laser o qualunque altra diavoleria ai danni degli audaci violatori di questo recinto sacro, ottenne il permesso di fotografare le lamine custodite nel museo Crespi di Cuenca e su di esse stila una relazione. Von Dänicken, è convinto che il tutto sia opera di esseri provenienti da altri pianeti e rilascia spiegazioni di queste strane incisioni di animali, piramidi, velivoli o esseri umani mostruosi.

Tutte queste sono fantasie create deliberatamente con l’intento di vendere l’opera, senza rispettare il buon nome di padre Crespi e approfittando della buona fede dell’anziano sacerdote, per conseguire una cospicua fortuna personale. È fuor di dubbio che si tratti di un imbroglio e di una frode culturale di von Dänicken con l’uso dei pezzi conservati nel museo di padre Crespi, perché nessuno dei referti proviene dalle caverne di Los Tayos. Infatti, i migliori speleologi del mondo, affiancati da archeologi molto qualificati, del calibro di Pedro Porras Garcés, Presley Norton, Hernan Crespo Toral, portarono al solo ritrovamento di una comune ceramica e di alcuni frammenti di maggior qualità. Niente a che vedere, in ogni caso, con “L’oro degli dei” di Dänicken.

Con la spedizione scientifica anglo-ecuadoriana richiamata, si confutarono tutte queste false affermazioni. Si fecero studi seri sulla natura del luogo e sulle caverne. La cosa meravigliosa fu quella di portare alla luce e apprezzare tutta quella variegata vita vegetale e animale, in così poco spazio, e si ratificò l’immensa biodiversità dell’Ecuador.

Schermata 2015-04-27 alle 18.55.18
Don Carlo viene scherzosamente incoronato con un reperto del suo Museo

Nel 1978, un articolista del Vistazo riferisce di aver letto, in questa opera di Von Dänicken, che l’autore scrive di un colloquio tra lui e padre Crespi e, all’apice dell’entusiasmo, di avere esclamato: “Francamente, serve una buona dose di autocontrollo per resistere alla vera e propria febbre causata dalla vista dei tesori conservati nel cortile interno di Maria Ausiliatrice!”. “Non fu soltanto il materiale a darmi alla testa: sulle centinaia di lamine di metallo risplendono immagini di stelle, lune, soli e serpenti che, quasi sicuramente, simboleggiano viaggi spaziali”. Non deve sorprendere questo tipo di ossessioni in von Dänicken. In altri reperti appartenenti alla collezione di padre Crespi, lo scrittore crede di vedere “mostruosi astronauti”, “cosmonauti sepolti nelle piramidi”, “innumerevoli serpenti che volano nel cielo lasciando scie di fuoco sopra teste di dei” e formula domande come questa: “Chi ha costruito per primo le piramidi, gli Inca o gli Egizi?”; “Si tratta di scritture (quelle che ho visto a Cuenca) più antiche di ogni altra forma di scrittura conosciuta?”. Nonostante le esagerazioni e le entusiastiche oscillazioni di von Dänicken tra realtà e fantasia, la raccolta di padre Crespi merita almeno uno studio approfondito condotto da esperti in materia, con il massimo rigore scientifico.3

Tornando alla realtà e con obiettività, possiamo sostenere che Carlo Crespi era a conoscenza del valore dei suoi reperti, che incrementava ogni giorno affinché la città di Cuenca avesse un museo dell’antico in grado di spaziare dall’archeologia all’arte e all’etnografia. Lo disse apertamente nel 1967 quando (durante i festeggiamenti per il suo 50° di Sacerdozio), chiese di prendere coscienza dei valori culturali che poco interessavano alle autorità e al pubblico in generale. Sottolineò il valore dell’archeologia e dell’arte ecuadoriana e sostenne la necessità di porre maggiormente l’attenzione su temi che, fino a quel momento, non erano stati sufficientemente affrontati.4

Schermata 2015-04-29 alle 17.35.27
Don Carlo con una delle lamine più grandi del suo Museo

Lo storico e uomo pubblico Tomas Vega Toral5 si interessò per invitare a Cuenca un esperto dell’U.N.E.S.C.O. o della O.E.A. [Organizzazione degli Stati Americani] per studiare il contenuto del museo di padre Crespi, al quale scrive da New York il 20 marzo 1965 informandolo degli sforzi che stava facendo in proposito. La corrispondenza s’infittì e, nel dicembre dello stesso anno, Tomàs Vega acclude alla sua missiva copia della lettera inviata all’ambasciatore Gustavo Larrea, i cui passaggi più importanti dicono: “Una ragione – quanto mai gradita – mi ha spinto a scriverti, ed è la seguente: Ho ricevuto da Cuenca una lettera dal padre salesiano Carlo Crespi, che tu conosci, nella quale mi comunica di aver recentemente arricchito il suo museo archeologico con pezzi d’incalcolabile valore scientifico, che attestano il trapianto coloniale di grandi civiltà mediterranee, mille anni prima di Cristo.
Il fatto è documentato da migliaia di oggetti in oro, rame, lastre iscritte in ceramica, lamine d’oro recanti geroglifici, corone auree e altri manufatti greci, cretesi, babilonesi, fenici, egizi, ecc. La notizia di questi reperti è uscita dai confini di Cuenca e, a detta di P. Crespi, ha attirato esperti da Miami, Philadelphia, New York e non pochi dal resto del Sud America, come pure dal Belgio, Germania, Italia e Francia.
Io avevo già scritto a padre Crespi sostenendo che si dovrebbe approfittare della tua presenza all’ambasciata di Washington e per vedere se sia possibile un tuo interessamento patriottico presso l’O.E.A. e gli istituti scientifici della capitale, al fine di distaccare [a Cuenca] due o tre esperti per studiare e classificare le migliaia di pezzi custoditi nel museo. Padre Crespi ha accettato con entusiasmo.
Questi reperti sono praticamente sepolti e passano quasi inosservati, come hai potuto constatare visitando il museo. Se la relazione degli esperti dovesse essere positiva, potremmo vedere se è possibile fargli avere un aiuto economico per costruire, se non un edificio, almeno  un altro edificio o, per lo meno un ampio salone, nella stessa Casa Salesiana, in cui possa sistemare, secondo un criterio di classificazione tecnico, le migliaia di preziosi oggetti archeologici.
Come amico e come cittadino di Cuenca, mi permetto di chiederti di ricorrere a tutto il tuo impegno e alle tue influenze, frutto dell’alto e meritato incarico ricoperto, per aiutare questo instancabile religioso che ha dedicato buona parte della sua vita per salvare dall’oblio e dalle speculazioni, spendendo oltre le sue possibilità, per acquistare reperti e formare un museo che, una volta conosciuto, diverrà l’orgoglio della città di Cuenca e richiamerà un’infinità di turisti e studiosi, essendo anche prova del progresso scientifico dell’Ecuador”.

In sintesi la risposta: “Trovo molto interessanti le informazioni e i commenti contenuti nella tua lettera riguardante il museo archeologico di padre Crespi. L’ho visitato diverse volte e ritengo che vi siano oggetti davvero preziosi che meritano di essere studiati e catalogati da esperti tecnicamente esperti. Ho parlato con alcuni dignitari dello Smithsonian Institute cercando di interessarli alla realizzazione di questo studio. La cosa è attualmente all’esame del Consiglio Direttivo. Continuerò ad insistere e spero di riuscirci. Se riuscissimo ad ottenere il distaccamento di uno o due specialisti, qualora trovassero pezzi di un certo valore archeologico, il secondo passo potrebbe essere la formale fondazione di un museo dipendente e, in parte finanziato, dallo Smithsonian. Ciò significherebbe molto per la cultura regionale, nazionale e sarebbe molto significativa per la città di Cuenca. Magari più avanti sarò in grado di fornirti maggiori informazioni al riguardo. Nel frattempo, tu potresti comunicare a padre Crespi il mio entusiasmo circa la collocazione del suo museo nella categoria che merita”.6

Non sappiamo che fine fecero questi progetti, ma, a quanto pare, non arrivò una commissione scientifica, né si conosce alcunché di eventuali fasi successive proposte. Quello che è certo è che nel 1978, i superiori di padre Crespi decidono di vendere il museo al Banco Centrale dell’Ecuador (B.C.E.), proprio in quegli anni, impegnato in una politica che prevede di destinare gli utili di esercizio all’acquisizione di patrimoni culturali appartenuti a privati o istituzioni. Infatti, era impensabile ritenere che un anziano di 87, consumato da tanto zelo nei confronti dei bambini e dei giovani, dell’istruzione e dell’amministrazione dei sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia, potesse farsi ulteriormente carico di un’enorme quantità di oggetti d’interesse archeologico e artistico.

  1. Dopo l’incontro con Padre Crespi, Stan Hall dichiarò ad un amico : “Se mai mi sono sentito alla presenza d’un Santo, è stato con Padre Crespi!” []
  2. L’astronauta che sbarcò sulla Luna []
  3. Vistazo, in italiano “lo Sguardo” – novembre 1978 – rivista quindicinale fondata il 4 giugno 1957 con sede in Guayaquil”. []
  4. Avendo preso parte alla cerimonia in onore di padre Crespi, l’autore di questa biografia ha avuto modo di ascoltare questi concetti dalla viva voce del protagonista. Oggi più che mai appaiono attuali, in quanto sussiste in Ecuador una maggiore consapevolezza del valore dei popoli che hanno dato luogo a significative culture nel corso dei millenni.
 []
  5. Lo storico Tomas Vega Toral costituisce parte del Centro di Studi Storici e Geografici del Azuay. Partecipa inoltre al dibattito riguardante l’ubicazione della città di Tomebamba e pubblica le sue principali ricerche sulla rivista del Centro. Fra le sue opere si ricordano: Nozze di brillanti sacerdotali di fra Alfonso Maria Jerves, Scoperta e primo viaggio sul Rio delle Amazzoni, Omaggio alla memoria del Rev. Dottor Giulio Maria Matovelle, Le lapidi di Tacqui e Tomebamba degli Inca. []
  6. La corrispondenza è conservata presso l’Archivio Storico dell’Ispettorato Salesiano di Quito []

Don Carlo e il suo Museo (da “Siervo de Dios P. Carlos Crespi Croci …”) – Parte prima

hqdefault
Don Carlo con alcuni reperti del suo Museo

Don Carlo e il suo Museo

Secondo alcuni testimoni, don Carlo cominciò a organizzare un museo archeologico a partire dal 1931, secondo altri, dal 1935. Apparentemente, iniziò da   pochi pezzi rinvenuti nel corso degli scavi delle fondamenta dell’Istituto Cornelio Merchán; ciò lo spronò nella raccolta, probabilmente ricordando  che a Torino esisteva un grandissimo Museo Egizio. Fin dai suoi primi viaggi in Ecuador, come egli stesso ricorda, aveva visto e raccolto alcuni reperti, già  quando preparava la partecipazione dell’Ecuador nelle Esposizioni di Roma e Torino.

In quegli anni,  si erano realizzati in Ecuador pochi scavi scientifici. Quello che a Cuenca  si ricordava maggiormente, era stato eseguito da Max Uhle  a  Pumapungo, nel settore orientale della città, dove lavorò intensamente tra il 1921 e il 1922, avendo pubblicato nel 1923 la sua relazione, intitolata Tomebamba, accompagnata da un eccellente studio introduttivo di Remigio Crespo Toral.

Una delle principali preoccupazioni del già citato Centro di Studi Storici e Geografici di Cuenca, fu di arrivare a precisare dove si trovava la città incaica di Tomebamba, come alcuni  credevano e cercavano di provare che si identificasse con Yunguilla e con altre zone che gli spagnoli scelsero per la fondazione di Cuenca. Il lavoro di Uhle chiarisce il mistero e mise in chiaro che la città dove nacque il grande re Inca Huayna Capac, sorgeva nel medesimo luogo in cui fu fondata Cuenca nel 1557 e che il suo settore amministrativo aveva sede in Pumapungo.1

2008-04-15 22.15.20
Don Carlo con un pregiato reperto ligneo

La collezione di padre Crespi aumenta rapidamente con i pezzi trovati da agricoltori o huaqueros dell’Azuay2, del Cañar e dell’Amazzonia ecuadoriana. Poco o nessun interesse ufficiale si ha di raccogliere l’eredità indigena,  perché chiunque trovava manufatti di pietra o ceramica, andava direttamente da quegli stranieri che mostravano interesse per questi oggetti rimasti sepolti per centinaia d’anni. Padre Crespi sogna invece un grande museo per Cuenca. Perché no, come quello che aveva visitato in Italia. E così lo arricchì attraverso acquisti e donazioni provenienti da diverse parti del paese. Con il passare del tempo, acquistò un’infinità di manufatti intagliati in pietre biancastre, di scarsa durezza e di epoca recente, oltre a lamine di latta e di ottone di colore dorato, recanti strani disegni, frutto della fantasia o simili a quelli descritti nei libri di archeologia egizia, del vicino o dell’Estremo Oriente asiatico.

33
Don Carlo con reperti di pietra incisa

La collezione cresceva a dismisura, mentre il numero degli spazi adibiti non seguiva in proporzione ai suoi acquisti, così che i reperti venivano ammassati senza un ordine cronologico o tematico, conferendo ai locali l’aspetto di un accumulo di oggetti più che di un vero e proprio museo. Chi scrive, in qualità di professore della Facoltà di Filosofia dell’Università di Cuenca, visitava annualmente la Mostra  per completare le lezioni teoriche dei corsi sulla storia dell’Ecuador precolombiano. Quando ebbi l’occasione di dire a padre Crespi che tutti quei manufatti sembravano repliche, la sua risposta mi lasciò senza parole: “Sì, lo so, ma in questo modo dò lavoro ai poveri”.3 Ciò vuol dire che inizialmente era in grado di distinguere il reperto autentico dal falso, mentre con il passare del tempo, in età avanzata, finì per considerare tutti i pezzi del suo museo autentici. In una delle mie visite gli feci notare che non c’era più quel bel e autentico “quero”4 di epoca incaica. Scuotendo il capo, rispose con velo di tristezza sul viso che forse era stato sottratto da qualcuno che si era introdotto con la scusa di vedere il Museo.

L’Ecuador è un paese con molte culture indigene. Alcune risalgono a circa quindicimila anni e corrispondono all’iniziale stanziamento, altre si collocano tra le culture formative nel periodo compreso tra il 4000 e il 500 a.C. Quelle successive, invece, si conoscono come  attinenti agli sviluppi regionali che partono dal 500 a. C. fino al V secolo d.C.. Da ultimo, vi sono quelle che da questa data arrivano fino al XV e XVI secolo della nostra era. L’ultimo stadio dell’archeologia ecuadoriana ha inizio intorno al 1450, con la conquista e la dominazione degli inca, provenienti dal Perù e dall’Alto Perù e che prolungarono la loro cultura fino all’anno della suo venir meno, nel 1532, con il trionfo dello spagnolo Francisco Pizarro sull’ultimo sovrano Atahualpa.

Sala museo
Una sala del Museo di Don Carlo

I reperti archeologici raccolti da padre Crespi risalgono ad alcuni di questi periodi; tuttavia, non li riunisce secondo un criterio di classificazione e di sistematicità, in quanto acquisiva ciò che gli veniva offerto. Probabilmente, pensava di ordinarli e studiarli successivamente, ma la sua attività di educatore e per il suo ministero pastorale non riuscì a realizzare questa sua intenzione iniziale. A poco a poco gli vendettero dei reperti dicendogli che provenivano da altre località del continente americano e del Vecchio Mondo, tanto da fargli ritenere, in età avanzata, di aver costituito uno splendido museo, importante forse come quello egizio di Torino o come gli altri visitati in Italia. A tal proposito, non bisogna dimenticare che egli trascorse un terzo della sua vita, ossia il periodo di massimo apprendimento, coincidente con l’infanzia e l’età giovanile, proprio in Italia. Non va dimenticato che era laureato in scienze naturali, diplomato al conservatorio e, come egli stesso ha confessato ad un compagno di studi, con un particolare interesse per i musei.

Nel processo di creazione del museo e di acquisizione dei reperti autentici, questi diventano sempre più rari e l’attenzione di padre Crespi si sposta sulle riproduzioni: in particolare, lastre di pietra con geroglifici, vasi greci, bassorilievi raffiguranti buoi sacri, piramidi egizie, sculture ellenistiche e amerinde che rappresentano cavalli e serpenti, oltre ad armi, placche, scettri, maschere e altri oggetti dorati. Frequenti sono i richiami a Babilonia, all’antico Egitto e, fra gli altri, al popolo etrusco, cretese e ittita. Agli uni e agli altri faceva riferimento per parlare di queste culture che si espansero e arrivarono sino al continente americano, attraversando l’Africa e giungendo alla foce del Rio delle Amazzoni, per poi risalirlo sino alle sorgenti ed entrare nella nostra provincia attraverso il fiume Paute.

Chiaramente circa il popolamento dell’America e dell’Ecuador vi sono in concreto molte ipotesi; a tutt’oggi non è stata fatta sufficiente luce sull’antichità e la provenienza dei popoli che entrarono in contatto con gli europei a partire dal 1492. Alcune teorie sembrano coincidere con le idee di padre Crespi, come ad esempio quella di una presunta corrente migratoria dalle caratteristiche egizie, che si possono apprezzare nelle sculture femminili della cultura Valdivia.

padre crespi e Gabriele D'Annunzio Baraldi (fine anni 70) 2
Don Carlo con Gabriele d’Annunzio Baraldi

Il 5 febbraio 1968, padre Angel Botta, provinciale di Cuenca e delle missioni, chiese a padre Antonio Nardon, provinciale dei Padri Giuseppini, di inviare  uno dei suoi collaboratori, l’archeologo e sacerdote Pedro Porras Garcés5, con l’intento di determinare l’effettivo valore della collezione di padre Crespi. Il 17 dello stesso mese, l’incaricato stilò un rapporto, articolato in diversi punti, del quale riportiamo fedelmente il 2°: “Le stele di pietra o tavolette recanti iscrizioni, nella loro globalità, non sembrano volgari falsificazioni”. Il 4° recita: “Va notato che la percentuale di oggetti autentici, una volta separata dalle falsificazioni, con l’indicazione della sua provenienza… può costituire un museo estremamente interessante, considerata la rarità e la qualità di taluni esemplari”. 

Schermata 2015-04-28 alle 17.16.22
Juan Moricz
Schermata 2015-04-29 alle 20.50.59
Erich von Dänicken

Nel 1969, quando P. Crespi compì 78 anni, venne visitato da un strano personaggio di origine ungherese, Juan Moricz, che ebbe modo di vedere le sue lamine metalliche e di ascoltare alcune sue teorie, e cioè che i disegni non sarebbero altro che segni geroglifici arcaici, appartenenti ad una lingua antidiluviana madre di tutte le lingue, a riprova dei contatti tra gli abitanti del continente americano e quelli del Medio ed Estremo Oriente. Queste idee furono condivise dal peruviano Daniel Ruso e dall’italiano Gabriele D’Annunzio Baraldi6 che a Cuenca incontrò Moricz. Anche Erich von Dänicken visitò il museo; lo scrittore svizzero scattò alcune fotografie che saranno incluse in un libro a larga diffusione, intitolato “L’oro degli dei” e tradotto in diverse lingue.

Il museo riceve la sua denominazione dal fondatore e, per estensione, dai padri salesiani, ossia dalla comunità religiosa di appartenenza. Si tratta infatti di un’iniziativa esclusiva di padre Crespi, priva di alcun coinvolgimento o sostegno ufficiale da parte delle istituzioni. La raccolta ottiene notevole risonanza sia all’interno che all’esterno del paese. Soprattutto presso gli stranieri, i quali, seppure con pregiudizi, chiaramente con finalità speculative od economiche, ne documentano l’importanza. L’eco giunge sino in Europa e ancora oggi (nel 2012) vi sono persone che arrivano nella città di Cuenca chiedendo di visitare il fantastico museo di padre Crespi.7

Nel 1978, per una serie di furti, si rese necessario cedere quelle raccolte al Banco Central del Ecuador, che si rese disponibile ad acquistarle, inventariarle, riorganizzarle con le migliori garanzie,  e padre Crespi fu d’accordo.

Una Commissione di specialisti in arte e archeologia antica e moderna passò al vaglio a uno a uno i reperti e catalogò i pezzi autentici, si ebbero i seguenti risultati:

  • Collezione archeologica: composta da 5000 oggetti di alto valore storico-artistico.
  • Collezione pittorica: composta da 1187 opere catalogate, suddivise in tele, legni, vetri, rame, marmi, pietre e cromature.
  • Collezione scultorica:composta da 132 oggetti di valore e vari frammenti.
  • Collezione etnografica: costituita da un insieme di ceramiche coloniali: 50 giare e 216 pezzi tra anfore, vasi ornamentali, ampolle, ecc.

La somma raccolta ($ 10.000) venne investita nella “Scuola Carlo Crespi”, rinata dalle rovine della antica fondazione Merchàn.

CONTINUA PARTE SECONDA >>

  1. Oggi, dopo un eccellente lavoro di riscoperta delle rovine di Tomebamba, si possono ammirare fondamenta, blocchi basamentali, terrazze e altri resti archeologici, nonché un museo diretto dal Ministero della Cultura dell’Ecuador che conserva gran parte dei pezzi appartenuti al museo archeologico di padre Crespi. []
  2. Pur essendo sprovvisti di una formazione scientifica, gli huaqueros sono dotati di conoscenze pratiche che utilizzano per effettuare scavi allo scopo di commercializzare i reperti archeologici. []
  3. Questa esperienza personale, come testimone oculare,  non è la sola, vi sono altri che udirono dalle sue labbra la stessa affermazione. []
  4. Vaso ligneo []
  5. Padre Pedro Porras Garcés, considerato un eminente archeologo, è autore di numerose opere. Il succitato documento si trova presso l’Archivio Storico dell’Ispettorato Salesiano di Quito. []
  6. Nato a San Prospero (provincia di Modena) ancora giovane emigra con la famiglia in Argentina, dove si laurea in Lettere e Filosofia all’università di Buenos Aires, prima di trasferirsi a San Paolo del Brasile dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 2002. D’annunzio Baraldi fu un ricercatore indipendente, un esploratore, archeologo e un avido studioso di lingue antiche. Si interessò ai misteri non risolti dall’archeologia ufficiale. Si occupò, con particolare riguardo, dello studio di testimonianze di antiche civilizzazioni esistite in Brasile in epoche presumibilmente anche antidiluviane, come la Pietra di Ingà, scoperta nello stato brasiliano di Paraíba. Si tratta di uno dei monumenti archeologici più straordinari del mondo (consistendo in una serie di incisioni rupestri su una superficie lunga 24 metri) che secondo D’Annunzio Baraldi testimonierebbe la presenza d’una colonia ittita in america latina. []
  7. L’autore di questa biografia è in grado di fornire la propria testimonianza al riguardo, in quanto in più di un’occasione ha avuto modo di intrattenersi con turisti europei in visita al Museo delle Culture Indigene di Cuenca, da lui diretto. []

Don Carlo e la Scelta Preferenziale per i Poveri

Schermata 2015-03-11 alle 09.53.26
Monumento a P. Crespi nella piazza Guayaquil di Cuenca

Oggi, nell’antica piazza Guayaquil, di fronte alla chiesa e al convento, sorge un grande gruppo scultoreo raffigurante Carlo Crespi al centro e un bambino al suo fianco che lo guarda affettuosamente. Il  resto della piazza è stato abbellito e costituisce un luogo di divertimento, mentre, in passato, era principalmente utilizzata per la compravendita della paglia toquilla e dei cappelli grezzi che le case esportatrici completavano con frange per adattarli al gusto della moda vigente.

2008-04-21 16.27.18
L’armadio di don Carlo nella sua camera presso il Santuario di Maria Ausiliatrice

Dietro il suo estenuante lavoro, si cela la volontà di don Carlo di imitare Cristo, nella scelta preferenziale per i poveri, nell’avvicinamento ai bambini, nella preoccupazione per i peccatori, nel totale disinteresse per sé e nella virtù dell’umiltà riflessa nella semplicità dei suoi gesti. I suoi aneliti accademici  e culturali andavano affievolendosi, mentre vedeva ogni giorno che coloro che più gli si stringevano attorno erano le persone più bisognose del suo aiuto. Egli si dedicò inizialmente ad acquistare consapevolmente copie senza valore di reperti archeologici, pagandoli di tasca propria, vivendo in umiltà, conservando per sé solo una vecchia tonaca e un paio di scarpe consunte, e alimentandosi in maniera frugale. I poveri del quartiere di Maria Ausiliatrice e di tutta la città erano il suo pensiero costante giorno e notte;  per tutti loro visse e morì. Col passare degli anni, ciò che gli stava maggiormente a cuore era l’amministrazione dei sacramenti. A ciò si aggiungeva la totale dedizione nei confronti dei bambini, che non abbandonò mai, nonostante la rigida disciplina comunitaria e i pareri difformi di alcuni confratelli.

43
Scarpe di P. Crespi

Dice uno dei suoi ammiratori: “In età avanzata, non si preoccupava di se stesso, da tempo i suoi abiti avevano smesso di essere neri per trasformarsi in un colore verdastro per il degrado e l’usura”. Le sue scarpe erano consumate, grossolane e rozze. L’abito talare vecchio e stinto. La camera, disadorna, era arredata solamente da un piccolo letto di legno. Per la stanchezza si coricava spesso vestito. In tarda età aveva una barba lunga e incolta, e ciò contrastava con gli anni della giovinezza, quando lo si vedeva curare di più l’abbigliamento caratterizzati da una maggiore cura, per i capelli e per la barba.

Schermata 2015-03-17 alle 10.18.02
Il letto di legno di P. Crespi

Don Carlo soffriva da tempo di disturbi di stomaco e per questa ragione mangiava frutta, latte, biscotti, rapanelli, aglio… Era talmente pressato dalla mancanza di tempo per far fronte alle numerose richieste pastorali nel precedente Santuario di Maria Ausiliatrice, che quasi non andava più nel refettorio della comunità.  Vi sono dei testimoni che affermano che don Carlo, in diverse occasioni preferì vendere i tagli di tessuto e le tonache ricevuti in regalo, e con i pochi soldi racimolati acquistava abiti o generi alimentari per i bambini poveri.

Le autorità, gli educatori, i giornalisti di Cuenca mettevano sempre in luce questi aspetti della personalità di Carlo Crespi. Le onorificenze e i riconoscimenti, dapprima gli furono concessi per la sua opera artistica e intellettuale, successivamente per la sua totale dedizione ai poveri. E ciò, sebbene inizialmente fosse convinto che fosse più importante per la città lo sviluppo culturale in tutte le sue sfaccettature e soprattutto il progresso economico, attraverso l’integrazione della regione orientale nel contesto nazionale.

Don Carlo Missionario

Don Carlo Missionario (parte prima)

Schermata 2015-04-24 alle 18.38.01
Don Carlo – 6/10/1926 – quando tenne il discorso ufficiale di chiusura dell’Esposizione Missionaria Salesiana di Torino

“Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923. Dopo tante lotte e tanti dolori per trionfare della mia vocazione, mi sembrava ancora impossibile di poter realizzare l’ideale che segretamente nutrivo nel cuore da anni. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riservava Iddio. Molti intorno a me piangevano dirottamente. I fazzoletti sventolavano, salutando. Su centinaia di volti si leggeva il profondo dolore della separazione. Nessuno, credo, aveva in quell’istante, come me, il cuore così traboccante di gioia. Eppure io aveva lasciata una madre e dei fratelli carissimi; lasciavo la culla della Congregazione, lasciavo dei superiori tanto cari, sapevo di non andare ad una festa, ma nell’ignoto, in una regione ove tanto avrei sofferto; eppure ricordo che, non potendo più resistere alla gioia, e trattenere un inno di riconoscenza al Signore, sgorgante da tutte le fibre del mio essere, scesi nella deserta sala dei concerti, mi sedetti al piano, ed intonai un grandioso pezzo lirico che tutta interpretasse la infinita gioia del mio cuore.
  Pazzia ? Sì, santa pazzia, incomprensibile per coloro che mai hanno sentito il sorriso di Dio; non però per i missionari, che hanno ascoltato le mistiche parole di Gesù e che per un ideale divino hanno saputo abbandonare tutti gli ideali mondani”.1
Giovanni Bosco, quando voleva parlare del come ha realizzato la sua opera, faceva riferimento ai suoi moltissimi sogni premonitori. Anche Padre Carlo Crespi quando parlava della sua vocazione missionaria faceva riferimento a un sogno che egli chiama “rivelatore”. Ecco come molti anni dopo ne parlerà lui stesso: «Quando studiavo nel collegio milanese di S. Ambrogio mi ero appena addormentato quando la Vergine mi mostrò una scena: da un lato il demonio cercava di prendermi e trascinarmi; dall’altro, il Divin Redentore con la croce mi mostrava un’altra strada. Subito dopo ritrovai vestito da sacerdote, con la barba, sopra un vecchio pulpito con attorno a me una moltitudine di persone desiderose di ascoltare la mia parola. Il pulpito non si trovava in una chiesa, ma in una capanna. Subito dopo mi svegliai. Alcuni compagni che stavano in dormitorio con me, ma che erano svegli, ascoltarono la mia predica e il giorno seguente me la raccontarono».
Questo sogno influì sulla vocazione di Carlo? Quello che è certo è che l’educazione ricevuta nel collegio salesiano lo aiutò a far luce dentro di sé e a renderlo attento al Signore che chiama. L’opposizione risoluta del padre e la felicità contenuta della madre lo fecero riflettere e alla fine decise. A suo padre che lo interrogava sul suo futuro rispose: “Vedi, papà, la vocazione non te la impone nessuno; è Dio che chiama; io mi sento chiamato a diventare salesiano!” Il sogno rivelatore aveva instillato nella sua anima un forte desiderio missionario che, negli anni della formazione, aveva condizionato e indirizzato il suo curriculum formativo.

Gli anni dal 1915 al 1921 evidenziarono la determinazione e la forte tempra di Carlo Crespi! É straordinario come nel giro di quegli anni inquieti (il mondo stava conoscendo gli orrori della 1^ guerra mondiale), il giovane salesiano sia riuscito contemporaneamente a completare gli studi teologici; abbia fatto il servizio militare promuovendo e realizzando corsi formativi per i soldati; abbia insegnato al Collegio Manfredini; abbia frequentato l’università con la discussione della tesi in meno di 4 anni; si sia diplomato al Conservatorio e abbia trovato anche il tempo di partecipare a speciali corsi di ingegneria e idraulica. Questa mole di impegni brillantemente portati a termine, oltre che a comprovare che don Carlo aveva doti di intelligenza fuori del comune e veramente degne di attenzione, focalizzò l’attenzione dei superiori su di lui.

Qualche mese dopo la sua laurea, quando, in vista dell’Anno Santo del 1925, Pio XI volle programmare a Roma una documentata Esposizione Internazionale Vaticana, i salesiani fecero propria l’iniziativa, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane, con una Mostra Missionaria da tenersi a Torino (1926). A tale scopo i superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo ricuperarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare scienze naturali, matematica e musica.

Schermata 2015-04-20 alle 18.56.50
Jivaro o, meglio, shuar, con in mano la caratteristica tsantsa (foto tratta dal film di don Carlo)

Fu a questo punto che don Carlo venne chiamato a occuparsi delle missioni ecuadoriane, poiché, in quel periodo, la più significativa missione salesiana tra gli amerindi era quella dell’Oriente ecuadoriano, e di essa bisognava raccogliere la migliore documentazione, anche a livello scientifico. Era l’anno 1921. Da parte sua il Rettore dell’Università di Padova gli rilasciò una lettera di raccomandazione in cui, tra le altre cose, lo definiva uno scienziato di chiara fama.  Poste così le premesse, dopo un anno, don Carlo si prepara a partire per l’Ecuador, non prima, però, di aver ottenuto dal suo superiore l’assicurazione che avrebbe esercitato il suo apostolato tra i Jivaros2. Temeva, infatti, di venire poi “imboscato”, com’era capitato ad altri confratelli, in qualche istituto scolastico d’oltre oceano. “Ora – scriverà infatti al Rettore Maggiore, il Beato don Filippo Rinaldi – vorrei una parola che mi assicuri che la mia povera opera sarà veramente spesa tra i Jivaros, perché solo per loro ho tenuto tante conferenze, lascio la famiglia, lascio la patria, lascio soprattutto splendidi ideali scientifici e musicali…, solo per seguire questa fortissima vocazione”.

Don Crespi – riferisce chi lo conobbe e gli fu amico – si sentiva del tutto felice perché gli vibrava nel profondo la vocazione dell’apostolo. Egli, infatti, all’impegno scientifico e organizzativo per le esposizioni di Roma e Torino, aggiunse un vasto impegno di azione missionaria; non solo per documentare quanto avevano già fatto o venivano facendo gli altri, ma per fare quanto più poteva lui stesso a duraturo beneficio delle missioni, dei poveri e degli indios. Dal momento in cui mise piede in Ecuador, si può dire che egli si immedesimò nel Paese e nel popolo di adozione e di cui volle farsi concittadino”.

2007-12-05 14.02.24
Cuenca negli anni ’20

Ecco in prospettiva ciò che significava l’approdo di Padre Crespi oltre oceano nel 1923: impasto dell’uomo con la terra, con le genti, con gli indios, con le selve, con la natura e con tutto, da cui sarebbero poi anche scaturite ricerche, studi, rapporti scientifici, soppesati in primo luogo nel vissuto di ogni giorno. Non ci dovremo stupire, di conseguenza, se i suoi rapporti scientifici risulteranno intrisi di esistenziale, di concreta quotidianità, di spirito missionario, di pionierismo e di avventura: in una parola, di umano.

Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, egli non volle restare in Italia e nel 1927 elesse Ecuador a sua seconda Patria; si stabilì a Cuenca, nell’Azuay, dove continuò a occuparsi di scienze, ma con il cuore mai smesso dell’apostolo. Quando don Carlo arrivò nel vicariato di Mendez per preparare il materiale dell’esposizione vaticana, si viveva ancora in una situazione precaria, sotto l’incubo di cruente razzie indiane.

La realtà vissuta dai missionari salesiani in quel periodo, da don Carlo viene così descritta al suo Rettore Maggiore: “Amatissimo Padre, col 1° marzo 1924 si compiono 30 anni dacché i Missionari salesiani, invitati dal Governo Ecuadoriano per incarico della S. Sede, assumevano l’evangelizzazione della razza Kivara in Gualaquiza. Le difficilissime condizioni politiche, la morte di molti missionari, la mancanza di mezzi finanziari e sopratutto il carattere eccezionalmente selvaggio dei Kivaros, hanno isterilita la già difficile opera missionaria sopratutto durante la guerra. Ora però che il Vicario Apostolico, Monsignor Comin, ha potuto ottenere nuovi operai, ora che zelanti comitati missionari d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba, Ecuador, hanno voluto con raro sentimento altruistico ascoltare il commovente appello del Pastore dei Kivaros, ed insieme col preziosissimo obolo della preghiera donargli anche oggetti, tessuti, paramenti per le poverissime chiese e denari per il consolidamento delle opere esistenti ed allestimento delle nuove, un santo alito di vita è penetrato e la Missione va riorganizzandosi verso nuove conquiste. Amatissimo Padre, permetta che dica nuove conquiste, perché se la Missione dei Kivaros non può presentare, come le altre, intere tribù convertite alla Fede ed alla Civiltà, questo però può affermare, di aver compiuto mirabilmente l’opera di preparazione. Mercè difficilissime esplorazioni si son potute stabilire le sedi di Gualaquiza, Indanza, Mendez, sedi che permettono di avvicinare in tutta la loro estensione i kivaros, arrivando ai confini delle Missioni Francescane e Domenicane.


Schermata 2015-05-23 alle 12.49.25
Gualaquiza : parco cittadino con la chiesa sullo sfondo

Tra i coloni di Rosario. Nel dicembre scorso ebbi la fortuna di accompagnare Mons. Comin in visita a Gualaquiza. Non sto a narrarle le difficoltà del viaggio. Chi si abbandona ai pericolosi cammini deve essere disposto a tutto, a ricevere dei colpi poco graditi da rami sporgenti nel sentiero che s’infossa e s’incassa nella roccia, delle bastonate nella schiena da non voluti archi trionfali, cioè dai tronchi d’albero caduti ed ingombranti il cammino, e molte volte anche a cadute poco gradite nel fango colla povera bestia impossibilitata a rialzarsi. Prima di arrivare alla zona dei Kivaros, passato il freddo Paramos delle Cordigliere, il missionario passa attraverso piccole possedimenti di coloni, il cui nucleo più importante è posto nelle ridenti posizioni di Aguacate e Rosario. A quest’ultima posizione arrivammo verso sera quasi improvvisamente. Ci scorse però un piccolo indio, il quale si attaccò alla corda della campana, ed in breve fu organizzato un ricevimento cordialissimo all’illustre Pastore. Si poté subito attendere alle confessioni, ed all’indomani numerose furono le S. Comunioni. La chiesa, una miserabile capanna, in parte scoperta, senza pavimento, senza arredi, senza porte, mercé la generosità degli amici delle Missioni, sarà presto riedificata in posizione migliore.

Schermata 2015-04-27 alle 11.36.54
Ponte sospeso sul Rio Santiago

Tragico passaggio. Intanto ai rintocchi della campana si radunavano sulla collina opposta i coloni di Aguacate addetti sopratutto alla coltivazione della paja toquilla, con cui si tessono i famosi cappelli di Panamà. Tra le due colline corre uno dei torrenti più rapidi e spaventosi dell’Oriente Ecuatoriano. Dalle piogge notturne era notevolmente ingrossato e l’eco cupa dell’onda si ripeteva nelle valli incrociantisi. L’unico ponte era caduto e rimaneva un solo palo, in parte già lesionato attraverso le sponde. S’immagini Lei, amatissimo Padre, lo spavento nel doversi cimentare a un passaggio tanto pericoloso. I buoni coloni per l’occasione, credendo di farci un regalone, avevano messo all’altezza di un metro dalla trave una liana di nessuna resistenza. Fu giocoforza passare, e non so ciò che provò Monsignore. Benché mi fossi messo al passaggio con tutta tranquillità, quando fui nel mezzo sentii il sangue ritirarmisi completamente. Il palo incominciava a muoversi ed a scricchiolare: la violenza spaventosa dell’onda che sbatteva contro le rive macigni colossali con rumori assordanti e che roteava nei gorghi spaventosi alberi giganteschi, appariva in tutta la sua tragicità. Una leggiera mancanza d’equilibrio, una piccola incertezza nell’incrociare i piedi, ci avrebbe dato inesorabilmente in braccio alla morte più crudele. La Vergine però ci assistette maternamente, e potemmo risalire ad Aguacate non senza aver dato ordine che fosse posto provvisoriamente un buon cordone d’acciaio regalato dal nostro Governo Italiano e si provvedesse presto al rifacimento del ponte a costo dei più grandi sacrifici.


La nuova chiesetta di Aguacate. Nella nuova chiesetta ci attendeva un buon numero di coloni. Dopo la S. Messa un bel gruppo di bambini ci intratteneva con dialoghetti e poesie. Mancava solo la musica per completare l’accademia. Fu estratto quindi dai cassoni un grammofono e per lunghe ore i migliori canti risuonarono nella valle, tra la viva compiacenza di molti, che mai avevano visto un simile strumento musicale. Monsignore s’interessò vivamente delle condizioni religiose e morali di questa nuova residenza missionaria. Vi stabilì definitivamente un sacerdote, organizzò il servizio religioso, le scuole per l’educazione dei piccoli indigeni, una incipiente farmacia e lasciò denari e tessuti affinché, terminato il ponte di Aguacate, si risolva il problema della viabilità, e la colonia si avvii ad un benessere religioso e materiale.

Schermata 2015-04-20 alle 18.55.03
Foto dei “Jivaros” o shuaras tolta dal film del 1926

Tra i selvaggi. Dopo due giorni si proseguì il cammino nella foresta e si arrivò dopo il passaggio del terribile Cutan, zona orribilmente pantanosa, alla sede della Missione. L’aver cambiato il giorno d’arrivo non permise un ricevimento rumoroso; appena però nei giorni seguenti si sparse la notizia della venuta del Vescovo, i Kivaros vennero da tutte le parti. Amatissimo Padre, pare impossibile che gli sforzi organizzati di un secolo di evangelizzazione abbiano così poco influito sulla natura feroce e barbara di questi selvaggi3! Come dissi l’affluenza fu grande, ma affluenza interessata: «Obispo venendo, mucho regalando». – Viene il Vescovo, molto regalerà! -. Era questa la frase che si ripeteva tra di loro e colla speranza di regali si poté far loro un po’ di bene, organizzare istruzioni catechistiche e sopratutto la frequenza domenicale.


Schermata 2015-04-26 alle 21.49.53
Shuaras che suonano il tamburo o “Tundùli   ” in una danza tribale

Sentiamo il tamburo! Fu di grande interesse sopratutto il grammofono. Quasi nessuno aveva visto ed udito un simile strumento, e subito fu battezzato col vocabolo Kivaro «Tùnduli», cioè tamburo, «Tùnduli oyendo! Tùnduli oyendo!» era la frase che con insistenza puerile andavano ripetendo bocche di selvaggi, sbucati dalle più remote foreste. E Monsignore stesso molte volte s’adattò a caricare la macchina ed a cambiare i dischi. Graditissimi sopratutto alcuni canti, le voci di guerra, i suoni confusi, le risa sgangherate. Qualche donna sopratutto aveva una gran paura che nel disco ci fosse il demonio, e stava ben aderente al marito, o nascosta per paura di qualche brutto scherzo. Il problema di attrarre i selvaggi alla Missione è il più arduo e il più difficile. Le Jivarie più vicine sono a circa 2 ore dalla casa nostra, le altre tutte più lontane da 3 a 12 ore. Ora per ottenere che vengano almeno qualche volta è necessario avere grandi attrattive, cibi abbondanti per sfamarli, ciccia per dissetarli e regali in specchi, aghi, ami, tessuti, ed anche medicinali per poterli opportunamente curare. Solo con questi mezzi abbondanti si può sperare di averli qualche ora con noi, di averli attenti per qualche minuto al catechismo, e di udirli ripetere magari macchinalmente alcune delle preghiere, che il compianto Monsignor Costamagna fece comporre nella loro lingua.

Schermata 2015-04-27 alle 11.28.31
Bambini shuar su un cavallo

Salviamo i giovani! Don Bosco, parlando della civilizzazione dei selvaggi dell’America del Sud, disse chiaramente che la conversione degli adulti sarebbe stata difficilissima e che i giovani avrebbero formate le nuove generazioni. Ai giovani soprattutto gli sforzi dei missionari. Mercé difficili esplorazioni alle Kivarie, si sono potuti studiare ottimi elementi che aprono il cuore alla più bella speranza. È certo difficile indurli a vivere col missionario. L’incanto della foresta troppo influisce sulla loro anima, avida di libertà; però alcuni birichini già si sono indotti a convivere coi missionari. E una vita collegiale, tutta singolare, a cui il sacerdote non solo deve mantenere lautamente i selvaggetti, e fare grandi spese per procurare loro anche delle distrazioni, ma è necessario che ogni tanto paghi le mamme, affinché permettano ai figli di rimanere alla Missione. La riorganizzazione della Missione richiede, quindi, dei grandi mezzi. Le coltivazioni dei canapi devono essere estese, affinché abbondanti siano i frutti per mantenere i selvaggi di passaggio; le comunicazioni colle diverse Kivarie devono essere più rapide con sentieri praticabili e ponti sicuri; i locali delle Missioni devono essere rinnovati secondo le nuove esigenze. Si fa quindi vivo appello agli amici d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba e del mondo intero, che già generosamente vollero aiutare il povero Vescovo dei Kivaros e gli permisero d’iniziare un nuovo lavoro, affinché continuino ad assisterlo colle preghiere e con offerte adeguate ai nuovi ed urgenti bisogni”.


Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga le sue attenzioni di studioso. Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci e del quale così scriveva il 19 marzo del 1922: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà”.
Anche gli indios, che i suoi confratelli fino a quel momento hanno considerato soprattutto come selvaggi da restituire a salvezza, sono da lui considerati in un ottica antropologica e culturale, con il dovuto rispetto per le loro tradizioni, usi e costumi. A conferma di tale atteggiamento nei confronti dei Kivaros, riportiamo il brano che segue, da lui scritto dopo un’esperienza fatta tra gli stregoni di Arapicos.

Schermata 2015-04-27 alle 10.06.33
Capo villaggio Shuar

“Molto si è parlato delle difficoltà di questa missione ed io non voglio nascondere che il Kivaro, il quale non fu mai dominato militarmente, né dagli ìncas, né dagli spagnoli, né dagli ecuadoriani, è fiero e superbo della sua libertà e dimostra quasi un disprezzo per tutto ciò che non è esclusivamente retaggio della sua tribù. La prodigiosa fertilità della terra, che abita, ed il clima invidiabile, lo rendono quasi sprezzante della nostra opera caritativa. La libertà stessa dei costumi e la mancanza di un culto lo rendono quasi insensibile alle dolcezze della nostra religione. Però, più si studia da vicino, e più ci si convince che, pure essendo un albero silvestre, su di lui si potrà certamente innestare con efficacia il buon virgulto di Cristo. La festa del Corpus Domini dell’anno scorso mi trovavo in missione tra i selvaggi di Arapicos. Nella sera precedente era arrivato alla Kivaria del Ciriapa un loro capo; mi accorsi che il poveretto era infermo e che già gli stregoni si tenevano pronti per curarlo. Per non destare sospetti, facendomi vedere molto stanco, stesi per terra alcune foglie di banano, mi ci sdraiai sopra, facendo finta di dormire. Gli stregoni, credendomi addormentato, spenti i lumi, incominciarono la loro cura a base di invocazioni, di scongiuri, di strilli, e di sputi che durarono tutta la notte. Verso l’aurora, cessato l’effetto del narcotico, se ne andarono; ma io rimasi così seccato e sopratutto così inorridito da tali pratiche superstiziose e selvagge, che, fatto innalzare l’altarino per la Santa Messa, tenni loro una lunga istruzione sulla necessità di usare delle vere medicine per guarire, e nei casi difficili di ricorrere alla Vergine Santissima Ausiliatrice. Prima di partire, regalai loro alcune immagini della Celeste Patrona che io, con fede viva, avevo fatto deporre sulla tomba di San Pietro in Roma.
Verso sera ripartii per un’altra kivaria, e, radunati i bambini, incominciai ad istruirli sulla Passione di Cristo. Intanto s’era fatto scuro. Sorbito un po’ di brodo, mi ero sdraiato per terra stringendo la corona del Rosario. Ma non potevo pigliar sonno. Avevo un triste presentimento. Infatti, verso mezzanotte odo in lontananza una voce lugubre, straziante e prolungata di donna: « Il Kivaro Mascianda sta per morire! ». Sveglio i selvaggi; una donna sale all’aperto, e, mettendo le mani alla bocca in forma di tromba, intreccia un dialogo. Che era successo? Uno degli stregoni, malgrado la mia predica, volle sfidare la fede, e, fatti i soliti scongiuri, appena ingoiato il narcotico, ebbe un assalto epilettico, stramazzò al suolo tramortito con la bocca spalancata, con gli occhi fuori dell’orbita. Le donne spaventate gridavano come ossesse; io volevo discendere per assistere l’infermo. La mia fedele guida si rifiutò assolutamente d’insegnarmi la strada, dicendomi che gli stregoni mi avrebbero accusato di essere io la causa di quella morte, e che forse avevano ordito un tradimento. Consigliai di far trasportare l’infelice alla casa paterna, e, alla prima aurora discesi. Quale non fu la mia meraviglia, quando, penetrando all’improvviso nella casa del sinistro, vidi che i selvaggi avevano raccolto tutte le immagini dell’Ausiliatrice, e che, appesele ad una stuoia, le avevano circondate di fiori ed illuminate con torce di resina forestale. 
Mentre le donne attendevano alle faccende domestiche, due selvaggette con le mani giunte pregavano come avevo loro insegnato al mattino precedente. A questa vista rimasi commosso. Non potei trattenere le lacrime. Invitai i due angioletti ad Innalzare una fervida preghiera alla Vergine. Pochi minuti dopo giungeva la notizia che lo stregone era rinvenuto. La Madonna aveva voluto fare la grazia completa. Lo stregone, da quel giorno, si fece amico sincero dei Missionari

I primi contatti con gli Shuar li ha con quelli che vivono nella zona di Bomboiza, Chuchumblesa, Cuyes e Calagràs, luoghi quasi impenetrabili. È ricevuto con difficoltà ma senza minacce. Porta con sé alcune cose che gli piacciono molto: stoffa, munizioni, specchi, aghi. Con l’aiuto degli shuar che lo accompagnano fa loro capire che è missionario, che vuol loro molto bene, che vuole parlare loro di Dio.
A buon diritto si può affermare che don Carlo fu un antesignano della evangelizzazione delle etnie Ashuar e Shuar (abitanti delle foreste amazzoniche dell’Ecuador orientale) mediante l’“inculturazione”4, termine che costituisce una conquista di oggi, soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II.  Egli, cioè, sosteneva che, come nel giorno di Pentecoste, tutti devono poter ricevere e comprendere la fede nella “propria cultura e nel proprio linguaggio”.

A conferma della fondatezza di questa sua intuizione, mi piace citare il prof. Bruno Luiselli, professore ordinario di letteratura latina, all’Università “La Sapienza” e docente all’Istituto patristico “Augustianum” di Roma, il quale, in un suo libro, La formazione della cultura europea occidentale (Herder, Roma 2003), spiega come nei primi secoli il cristianesimo si sia diffuso tra gli illetterati e i poveri parlando con la loro lingua e attraverso la loro cultura. Fin dall’inizio la dinamica dell’inculturazione fu un’esigenza ovvia, anche se non teorizzata. Luiselli afferma, inoltre, che “Paolo è il primo ad enunciare l’assunzione di elementi di cultura pagana da parte del cristianesimo, appunto l’ara al dio sconosciuto e il verso del poeta-filosofo greco Arato: «di quel dio noi siamo la stirpe». L’Apostolo – continua il cattedratico – proclama che quell’altare che i pagani hanno dedicato al dio che non conoscono, essi lo hanno inconsapevolmente eretto al vero Dio. Paolo enuncia quindi l’assunzione di realtà pagane per servirsene ai fini dell’annuncio cristiano. Ma vorrei dire che l’inculturazione nella storia del cristianesimo si manifesta ancora prima del discorso all’Areopago. Si realizza la primissima volta proprio nell’Incarnazione stessa, quando la Parola con la P maiuscola, Dio, assume la natura umana e si esprime con la parola dell’uomo, nel tempo, nel luogo e nella cultura particolari in cui Gesù ha vissuto. «La Parola si fece carne e venne ad abitare tra noi», dice Giovanni”.

E’ quindi importante sottolineare come in questo duplice intento di penetrazione e di civilizzazione, don Carlo si sia preoccupato di non commettere gli errori della colonizzazione che, prima in Nord America, poi in Patagonia e, da ultimo, nella Terra del Fuoco, cancellò in poco tempo le etnie indie5. Preoccupazione abbastanza scontata oggi, ma frutto di una notevole sensibilità umana e cristiana negli anni ’20 quando, da parte della cultura bianca imperversava un’abominevole “antropofagia” delle culture aborigene che, in certi momenti, non disdegnò neppure di macchiarsi di orrendi misfatti che portarono ad un vero e proprio genocidio.

Con altri salesiani, e segnatamente con un gruppo missionario più illuminato, C. Crespi reagì al vecchio “eurocentrismo ed etnocentrismo che considerava la cultura europea il modello da imporre ai popoli di tutto il mondo, mentre classificava come barbari e, al limite selvaggi, i detentori di culture diverse. Tutt’altro spirito mosse invece da Mendez e da Gualaquiza i missionari salesiani”6.

Schermata 2015-04-20 alle 18.59.59
Incipit del Lungometraggio sui Shuaras del 1926

Il nostro Crespi, più che pronunciarsi in teoria su tale linea, l’attestò con la prassi, con i suoi articoli sempre riguardosi verso gli indios, con le sue lettere e conversazioni, che ebbero sempre riferimenti espliciti a favore delle loro etnie. Tra le più nette prese di posizione, figura la presente: “L’opera dei missionari e, in particolare del Governo, dovrebbe – come non fece negli Stati Uniti ed in Argentina – preoccuparsi di limitare l’invasione bianca, in modo che restino agli indi territori sufficienti per il loro sviluppo ed il loro avvenire familiare (…) Il Kivaro è un vero re della foresta, padrone dei sentieri, delle acque, di tutti gli elementi che lo circondano (…) Egli intende mantenere rigorosamente tutte le proprie tradizioni familiari e razziali”7.
Egli amò fondere il calore dell’avventura al freddo resoconto scientifico. I reperti da lui raccolti ed esposti poi nelle mostre di Roma e Torino nascondevano, infatti, spessori di vita e di amore. I risultati furono presto tangibili: raccolse oltre 600 varietà di coleotteri alcuni dei quali, fino ad allora sconosciuti, oggi portano il nome scientifico di “crespiani”. Raccolse arboscelli, felci, licheni, muschi. Preparò 60 gabbie di magnifici uccelli. Scatto migliaia di foto. Trovò migliaia di oggetti di appartenenza indiana. Scavò anche alla ricerca di reperti archeologici. Infine poté disporre di un pronto repertorio di vegetali, animali e di oggetti vari, sia in originale che in riproduzione fotografica. La gran parte di questi oggetti, prima di essere spedita in Italia, fu resa accessibile al pubblico in una simpatica Esposizione Orientalista sulla piazza della cattedrale di Guayaquil, nella casa del poeta Rendon, dove rimase per 40 giorni con oltre 30.000 visitatori, ai quali tenne 120 conferenze.

Ma ormai don Carlo era lanciato, a fine ’24 condusse una campagna nella capitale in appoggio alla costruzione della strada Pan-Mendez, mentre nei ritagli di tempo scrisse a raffica una serie di memorabili articoli pubblicati sul Touring Club Italiano e dal “Bollettino Salesiano”, seguiti con molta attenzione e apprezzati dagli studiosi competenti.

A fine anno organizzò un’équipe cinematografica per realizzare nella selva ecuadoriana la prima pellicola sull’ambiente e sulla vita dei “Kivaros”.

CONTINUA PARTE SECONDA

  1. Tratto dal discorso che don Carlo tenne, la sera del 10 ottobre 1926, ai confratelli che, come lui, l’indomani sarebbero ripartiti per le missioni. []
  2. tristemente famosi per l’arte crudele di rimpicciolire le teste dei nemici, chiamate “tsantsas” al volume di un pugno []
  3. Ogni qual volta nei suoi scritti ricorrerà il termine «selvaggio» egli non intende esprime un giudizio negativo, ma riferirsi al senso etimologico del termine, ovvero «abitante della selva» []
  4. L’inculturazione si concretizza anzitutto nel tentativo di tradurre in un’altra cultura il messaggio cristiano e l’insegnamento della fede; si riferisce a una presentazione adattata della Buona Novella, in un linguaggio e in simboli che sono intelligibili per la gente alla quale la Buona Novella viene proclamata []
  5. Le isole meridionali dell’arcipelago della Tierra del Fuego, per esempio, erano abitate, da non meno di 6.000 anni, dagli Alakaluf e dagli Yámanas, che «osservarono impotenti lo sgretolarsi della propria cultura all’arrivo dei primi coloni, verso il 1880». Erano cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna, dalla Francia e allevatori di pecore dall’Inghilterra, per riempire «di lana pregiata le industrie britanniche ». Soprattutto questi ultimi, non soffrendo la presenza degli indios – che rubavano gli ovini, prede molto più facili da cacciare degli abituali guanachi, del resto allontanati dalla presenza delle greggi –, decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli, seni, o testa che provassero la morte di un aborigeno. Inoltre, da tempo i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano ad ucciderli con «ejercicios de tiro». Nel giro di dieci anni, i circa 3.000 Yámanas che subirono l’impatto con i coloni, erano diventati 1.000, nel 1910 meno di cento []
  6. Presencia Salesiana en el Ecuador – Edibosco, Cuenca 1987, pag. 35. []
  7. Entrevista con el P. Carlos Crespi, in “El Commercio” Quito16 aprile 1928 []