Oggi, nell’antica piazza Guayaquil, di fronte alla chiesa e al convento, sorge un grande gruppo scultoreo raffigurante Carlo Crespi al centro e un bambino al suo fianco che lo guarda affettuosamente. Il resto della piazza è stato abbellito e costituisce un luogo di divertimento, mentre, in passato, era principalmente utilizzata per la compravendita della paglia toquilla e dei cappelli grezzi che le case esportatrici completavano con frange per adattarli al gusto della moda vigente.
Dietro il suo estenuante lavoro, si cela la volontà di don Carlo di imitare Cristo, nella scelta preferenziale per i poveri, nell’avvicinamento ai bambini, nella preoccupazione per i peccatori, nel totale disinteresse per sé e nella virtù dell’umiltà riflessa nella semplicità dei suoi gesti. I suoi aneliti accademici e culturali andavano affievolendosi, mentre vedeva ogni giorno che coloro che più gli si stringevano attorno erano le persone più bisognose del suo aiuto. Egli si dedicò inizialmente ad acquistare consapevolmente copie senza valore di reperti archeologici, pagandoli di tasca propria, vivendo in umiltà, conservando per sé solo una vecchia tonaca e un paio di scarpe consunte, e alimentandosi in maniera frugale. I poveri del quartiere di Maria Ausiliatrice e di tutta la città erano il suo pensiero costante giorno e notte; per tutti loro visse e morì. Col passare degli anni, ciò che gli stava maggiormente a cuore era l’amministrazione dei sacramenti. A ciò si aggiungeva la totale dedizione nei confronti dei bambini, che non abbandonò mai, nonostante la rigida disciplina comunitaria e i pareri difformi di alcuni confratelli.
Dice uno dei suoi ammiratori: “In età avanzata, non si preoccupava di se stesso, da tempo i suoi abiti avevano smesso di essere neri per trasformarsi in un colore verdastro per il degrado e l’usura”. Le sue scarpe erano consumate, grossolane e rozze. L’abito talare vecchio e stinto. La camera, disadorna, era arredata solamente da un piccolo letto di legno. Per la stanchezza si coricava spesso vestito. In tarda età aveva una barba lunga e incolta, e ciò contrastava con gli anni della giovinezza, quando lo si vedeva curare di più l’abbigliamento caratterizzati da una maggiore cura, per i capelli e per la barba.
Don Carlo soffriva da tempo di disturbi di stomaco e per questa ragione mangiava frutta, latte, biscotti, rapanelli, aglio… Era talmente pressato dalla mancanza di tempo per far fronte alle numerose richieste pastorali nel precedente Santuario di Maria Ausiliatrice, che quasi non andava più nel refettorio della comunità. Vi sono dei testimoni che affermano che don Carlo, in diverse occasioni preferì vendere i tagli di tessuto e le tonache ricevuti in regalo, e con i pochi soldi racimolati acquistava abiti o generi alimentari per i bambini poveri.
Le autorità, gli educatori, i giornalisti di Cuenca mettevano sempre in luce questi aspetti della personalità di Carlo Crespi. Le onorificenze e i riconoscimenti, dapprima gli furono concessi per la sua opera artistica e intellettuale, successivamente per la sua totale dedizione ai poveri. E ciò, sebbene inizialmente fosse convinto che fosse più importante per la città lo sviluppo culturale in tutte le sue sfaccettature e soprattutto il progresso economico, attraverso l’integrazione della regione orientale nel contesto nazionale.
“Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923. Dopo tante lotte e tanti dolori per trionfare della mia vocazione, mi sembrava ancora impossibile di poter realizzare l’ideale che segretamente nutrivo nel cuore da anni. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riservava Iddio. Molti intorno a me piangevano dirottamente. I fazzoletti sventolavano, salutando. Su centinaia di volti si leggeva il profondo dolore della separazione. Nessuno, credo, aveva in quell’istante, come me, il cuore così traboccante di gioia. Eppure io aveva lasciata una madre e dei fratelli carissimi; lasciavo la culla della Congregazione, lasciavo dei superiori tanto cari, sapevo di non andare ad una festa, ma nell’ignoto, in una regione ove tanto avrei sofferto; eppure ricordo che, non potendo più resistere alla gioia, e trattenere un inno di riconoscenza al Signore, sgorgante da tutte le fibre del mio essere, scesi nella deserta sala dei concerti, mi sedetti al piano, ed intonai un grandioso pezzo lirico che tutta interpretasse la infinita gioia del mio cuore. Pazzia ? Sì, santa pazzia, incomprensibile per coloro che mai hanno sentito il sorriso di Dio; non però per i missionari, che hanno ascoltato le mistiche parole di Gesù e che per un ideale divino hanno saputo abbandonare tutti gli ideali mondani”.1 Giovanni Bosco, quando voleva parlare del come ha realizzato la sua opera, faceva riferimento ai suoi moltissimi sogni premonitori. Anche Padre Carlo Crespi quando parlava della sua vocazione missionaria faceva riferimento a un sogno che egli chiama “rivelatore”. Ecco come molti anni dopo ne parlerà lui stesso: «Quando studiavo nel collegio milanese di S. Ambrogio mi ero appena addormentato quando la Vergine mi mostrò una scena: da un lato il demonio cercava di prendermi e trascinarmi; dall’altro, il Divin Redentore con la croce mi mostrava un’altra strada. Subito dopo ritrovai vestito da sacerdote, con la barba, sopra un vecchio pulpito con attorno a me una moltitudine di persone desiderose di ascoltare la mia parola. Il pulpito non si trovava in una chiesa, ma in una capanna. Subito dopo mi svegliai. Alcuni compagni che stavano in dormitorio con me, ma che erano svegli, ascoltarono la mia predica e il giorno seguente me la raccontarono». Questo sogno influì sulla vocazione di Carlo? Quello che è certo è che l’educazione ricevuta nel collegio salesiano lo aiutò a far luce dentro di sé e a renderlo attento al Signore che chiama. L’opposizione risoluta del padre e la felicità contenuta della madre lo fecero riflettere e alla fine decise. A suo padre che lo interrogava sul suo futuro rispose: “Vedi, papà, la vocazione non te la impone nessuno; è Dio che chiama; io mi sento chiamato a diventare salesiano!” Il sogno rivelatore aveva instillato nella sua anima un forte desiderio missionario che, negli anni della formazione, aveva condizionato e indirizzato il suo curriculum formativo.
Gli anni dal 1915 al 1921 evidenziarono la determinazione e la forte tempra di Carlo Crespi! É straordinario come nel giro di quegli anni inquieti (il mondo stava conoscendo gli orrori della 1^ guerra mondiale), il giovane salesiano sia riuscito contemporaneamente a completare gli studi teologici; abbia fatto il servizio militare promuovendo e realizzando corsi formativi per i soldati; abbia insegnato al Collegio Manfredini; abbia frequentato l’università con la discussione della tesi in meno di 4 anni; si sia diplomato al Conservatorio e abbia trovato anche il tempo di partecipare a speciali corsi di ingegneria e idraulica. Questa mole di impegni brillantemente portati a termine, oltre che a comprovare che don Carlo aveva doti di intelligenza fuori del comune e veramente degne di attenzione, focalizzò l’attenzione dei superiori su di lui.
Qualche mese dopo la sua laurea, quando, in vista dell’Anno Santo del 1925, Pio XI volle programmare a Roma una documentata Esposizione Internazionale Vaticana, i salesiani fecero propria l’iniziativa, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane, con una Mostra Missionaria da tenersi a Torino (1926). A tale scopo i superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo ricuperarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare scienze naturali, matematica e musica.
Fu a questo punto che don Carlo venne chiamato a occuparsi delle missioni ecuadoriane, poiché, in quel periodo, la più significativa missione salesiana tra gli amerindi era quella dell’Oriente ecuadoriano, e di essa bisognava raccogliere la migliore documentazione, anche a livello scientifico. Era l’anno 1921. Da parte sua il Rettore dell’Università di Padova gli rilasciò una lettera di raccomandazione in cui, tra le altre cose, lo definiva uno scienziato di chiara fama. Poste così le premesse, dopo un anno, don Carlo si prepara a partire per l’Ecuador, non prima, però, di aver ottenuto dal suo superiore l’assicurazione che avrebbe esercitato il suo apostolato tra i Jivaros2. Temeva, infatti, di venire poi “imboscato”, com’era capitato ad altri confratelli, in qualche istituto scolastico d’oltre oceano. “Ora – scriverà infatti al Rettore Maggiore, il Beato don Filippo Rinaldi – vorrei una parola che mi assicuri che la mia povera opera sarà veramente spesa tra i Jivaros, perché solo per loro ho tenuto tante conferenze, lascio la famiglia, lascio la patria, lascio soprattutto splendidi ideali scientifici e musicali…, solo per seguire questa fortissima vocazione”.
Don Crespi – riferisce chi lo conobbe e gli fu amico – si sentiva del tutto felice perché gli vibrava nel profondo la vocazione dell’apostolo. Egli, infatti, all’impegno scientifico e organizzativo per le esposizioni di Roma e Torino, aggiunse un vasto impegno di azione missionaria; non solo per documentare quanto avevano già fatto o venivano facendo gli altri, ma per fare quanto più poteva lui stesso a duraturo beneficio delle missioni, dei poveri e degli indios. Dal momento in cui mise piede in Ecuador, si può dire che egli si immedesimò nel Paese e nel popolo di adozione e di cui volle farsi concittadino”.
Ecco in prospettiva ciò che significava l’approdo di Padre Crespi oltre oceano nel 1923: impasto dell’uomo con la terra, con le genti, con gli indios, con le selve, con la natura e con tutto, da cui sarebbero poi anche scaturite ricerche, studi, rapporti scientifici, soppesati in primo luogo nel vissuto di ogni giorno. Non ci dovremo stupire, di conseguenza, se i suoi rapporti scientifici risulteranno intrisi di esistenziale, di concreta quotidianità, di spirito missionario, di pionierismo e di avventura: in una parola, di umano.
Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, egli non volle restare in Italia e nel 1927 elesse Ecuador a sua seconda Patria; si stabilì a Cuenca, nell’Azuay, dove continuò a occuparsi di scienze, ma con il cuore mai smesso dell’apostolo. Quando don Carlo arrivò nel vicariato di Mendez per preparare il materiale dell’esposizione vaticana, si viveva ancora in una situazione precaria, sotto l’incubo di cruente razzie indiane.
La realtà vissuta dai missionari salesiani in quel periodo, da don Carlo viene così descritta al suo Rettore Maggiore: “Amatissimo Padre, col 1° marzo 1924 si compiono 30 anni dacché i Missionari salesiani, invitati dal Governo Ecuadoriano per incarico della S. Sede, assumevano l’evangelizzazione della razza Kivara in Gualaquiza. Le difficilissime condizioni politiche, la morte di molti missionari, la mancanza di mezzi finanziari e sopratutto il carattere eccezionalmente selvaggio dei Kivaros, hanno isterilita la già difficile opera missionaria sopratutto durante la guerra. Ora però che il Vicario Apostolico, Monsignor Comin, ha potuto ottenere nuovi operai, ora che zelanti comitati missionari d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba, Ecuador, hanno voluto con raro sentimento altruistico ascoltare il commovente appello del Pastore dei Kivaros, ed insieme col preziosissimo obolo della preghiera donargli anche oggetti, tessuti, paramenti per le poverissime chiese e denari per il consolidamento delle opere esistenti ed allestimento delle nuove, un santo alito di vita è penetrato e la Missione va riorganizzandosi verso nuove conquiste. Amatissimo Padre, permetta che dica nuove conquiste, perché se la Missione dei Kivaros non può presentare, come le altre, intere tribù convertite alla Fede ed alla Civiltà, questo però può affermare, di aver compiuto mirabilmente l’opera di preparazione. Mercè difficilissime esplorazioni si son potute stabilire le sedi di Gualaquiza, Indanza, Mendez, sedi che permettono di avvicinare in tutta la loro estensione i kivaros, arrivando ai confini delle Missioni Francescane e Domenicane.
Tra i coloni di Rosario. Nel dicembre scorso ebbi la fortuna di accompagnare Mons. Comin in visita a Gualaquiza. Non sto a narrarle le difficoltà del viaggio. Chi si abbandona ai pericolosi cammini deve essere disposto a tutto, a ricevere dei colpi poco graditi da rami sporgenti nel sentiero che s’infossa e s’incassa nella roccia, delle bastonate nella schiena da non voluti archi trionfali, cioè dai tronchi d’albero caduti ed ingombranti il cammino, e molte volte anche a cadute poco gradite nel fango colla povera bestia impossibilitata a rialzarsi. Prima di arrivare alla zona dei Kivaros, passato il freddo Paramos delle Cordigliere, il missionario passa attraverso piccole possedimenti di coloni, il cui nucleo più importante è posto nelle ridenti posizioni di Aguacate e Rosario. A quest’ultima posizione arrivammo verso sera quasi improvvisamente. Ci scorse però un piccolo indio, il quale si attaccò alla corda della campana, ed in breve fu organizzato un ricevimento cordialissimo all’illustre Pastore. Si poté subito attendere alle confessioni, ed all’indomani numerose furono le S. Comunioni. La chiesa, una miserabile capanna, in parte scoperta, senza pavimento, senza arredi, senza porte, mercé la generosità degli amici delle Missioni, sarà presto riedificata in posizione migliore.
Tragico passaggio. Intanto ai rintocchi della campana si radunavano sulla collina opposta i coloni di Aguacate addetti sopratutto alla coltivazione della paja toquilla, con cui si tessono i famosi cappelli di Panamà. Tra le due colline corre uno dei torrenti più rapidi e spaventosi dell’Oriente Ecuatoriano. Dalle piogge notturne era notevolmente ingrossato e l’eco cupa dell’onda si ripeteva nelle valli incrociantisi. L’unico ponte era caduto e rimaneva un solo palo, in parte già lesionato attraverso le sponde. S’immagini Lei, amatissimo Padre, lo spavento nel doversi cimentare a un passaggio tanto pericoloso. I buoni coloni per l’occasione, credendo di farci un regalone, avevano messo all’altezza di un metro dalla trave una liana di nessuna resistenza. Fu giocoforza passare, e non so ciò che provò Monsignore. Benché mi fossi messo al passaggio con tutta tranquillità, quando fui nel mezzo sentii il sangue ritirarmisi completamente. Il palo incominciava a muoversi ed a scricchiolare: la violenza spaventosa dell’onda che sbatteva contro le rive macigni colossali con rumori assordanti e che roteava nei gorghi spaventosi alberi giganteschi, appariva in tutta la sua tragicità. Una leggiera mancanza d’equilibrio, una piccola incertezza nell’incrociare i piedi, ci avrebbe dato inesorabilmente in braccio alla morte più crudele. La Vergine però ci assistette maternamente, e potemmo risalire ad Aguacate non senza aver dato ordine che fosse posto provvisoriamente un buon cordone d’acciaio regalato dal nostro Governo Italiano e si provvedesse presto al rifacimento del ponte a costo dei più grandi sacrifici.
La nuova chiesetta di Aguacate. Nella nuova chiesetta ci attendeva un buon numero di coloni. Dopo la S. Messa un bel gruppo di bambini ci intratteneva con dialoghetti e poesie. Mancava solo la musica per completare l’accademia. Fu estratto quindi dai cassoni un grammofono e per lunghe ore i migliori canti risuonarono nella valle, tra la viva compiacenza di molti, che mai avevano visto un simile strumento musicale. Monsignore s’interessò vivamente delle condizioni religiose e morali di questa nuova residenza missionaria. Vi stabilì definitivamente un sacerdote, organizzò il servizio religioso, le scuole per l’educazione dei piccoli indigeni, una incipiente farmacia e lasciò denari e tessuti affinché, terminato il ponte di Aguacate, si risolva il problema della viabilità, e la colonia si avvii ad un benessere religioso e materiale.
Tra i selvaggi. Dopo due giorni si proseguì il cammino nella foresta e si arrivò dopo il passaggio del terribile Cutan, zona orribilmente pantanosa, alla sede della Missione. L’aver cambiato il giorno d’arrivo non permise un ricevimento rumoroso; appena però nei giorni seguenti si sparse la notizia della venuta del Vescovo, i Kivaros vennero da tutte le parti. Amatissimo Padre, pare impossibile che gli sforzi organizzati di un secolo di evangelizzazione abbiano così poco influito sulla natura feroce e barbara di questi selvaggi3! Come dissi l’affluenza fu grande, ma affluenza interessata: «Obispo venendo, mucho regalando». – Viene il Vescovo, molto regalerà! -. Era questa la frase che si ripeteva tra di loro e colla speranza di regali si poté far loro un po’ di bene, organizzare istruzioni catechistiche e sopratutto la frequenza domenicale.
Sentiamo il tamburo! Fu di grande interesse sopratutto il grammofono. Quasi nessuno aveva visto ed udito un simile strumento, e subito fu battezzato col vocabolo Kivaro «Tùnduli», cioè tamburo, «Tùnduli oyendo! Tùnduli oyendo!» era la frase che con insistenza puerile andavano ripetendo bocche di selvaggi, sbucati dalle più remote foreste. E Monsignore stesso molte volte s’adattò a caricare la macchina ed a cambiare i dischi. Graditissimi sopratutto alcuni canti, le voci di guerra, i suoni confusi, le risa sgangherate. Qualche donna sopratutto aveva una gran paura che nel disco ci fosse il demonio, e stava ben aderente al marito, o nascosta per paura di qualche brutto scherzo. Il problema di attrarre i selvaggi alla Missione è il più arduo e il più difficile. Le Jivarie più vicine sono a circa 2 ore dalla casa nostra, le altre tutte più lontane da 3 a 12 ore. Ora per ottenere che vengano almeno qualche volta è necessario avere grandi attrattive, cibi abbondanti per sfamarli, ciccia per dissetarli e regali in specchi, aghi, ami, tessuti, ed anche medicinali per poterli opportunamente curare. Solo con questi mezzi abbondanti si può sperare di averli qualche ora con noi, di averli attenti per qualche minuto al catechismo, e di udirli ripetere magari macchinalmente alcune delle preghiere, che il compianto Monsignor Costamagna fece comporre nella loro lingua.
Salviamo i giovani! Don Bosco, parlando della civilizzazione dei selvaggi dell’America del Sud, disse chiaramente che la conversione degli adulti sarebbe stata difficilissima e che i giovani avrebbero formate le nuove generazioni. Ai giovani soprattutto gli sforzi dei missionari. Mercé difficili esplorazioni alle Kivarie, si sono potuti studiare ottimi elementi che aprono il cuore alla più bella speranza. È certo difficile indurli a vivere col missionario. L’incanto della foresta troppo influisce sulla loro anima, avida di libertà; però alcuni birichini già si sono indotti a convivere coi missionari. E una vita collegiale, tutta singolare, a cui il sacerdote non solo deve mantenere lautamente i selvaggetti, e fare grandi spese per procurare loro anche delle distrazioni, ma è necessario che ogni tanto paghi le mamme, affinché permettano ai figli di rimanere alla Missione. La riorganizzazione della Missione richiede, quindi, dei grandi mezzi. Le coltivazioni dei canapi devono essere estese, affinché abbondanti siano i frutti per mantenere i selvaggi di passaggio; le comunicazioni colle diverse Kivarie devono essere più rapide con sentieri praticabili e ponti sicuri; i locali delle Missioni devono essere rinnovati secondo le nuove esigenze. Si fa quindi vivo appello agli amici d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba e del mondo intero, che già generosamente vollero aiutare il povero Vescovo dei Kivaros e gli permisero d’iniziare un nuovo lavoro, affinché continuino ad assisterlo colle preghiere e con offerte adeguate ai nuovi ed urgenti bisogni”.
Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga le sue attenzioni di studioso. Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci e del quale così scriveva il 19 marzo del 1922: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà”. Anche gli indios, che i suoi confratelli fino a quel momento hanno considerato soprattutto come selvaggi da restituire a salvezza, sono da lui considerati in un ottica antropologica e culturale, con il dovuto rispetto per le loro tradizioni, usi e costumi. A conferma di tale atteggiamento nei confronti dei Kivaros, riportiamo il brano che segue, da lui scritto dopo un’esperienza fatta tra gli stregoni di Arapicos.
“Molto si è parlato delle difficoltà di questa missione ed io non voglio nascondere che il Kivaro, il quale non fu mai dominato militarmente, né dagli ìncas, né dagli spagnoli, né dagli ecuadoriani, è fiero e superbo della sua libertà e dimostra quasi un disprezzo per tutto ciò che non è esclusivamente retaggio della sua tribù. La prodigiosa fertilità della terra, che abita, ed il clima invidiabile, lo rendono quasi sprezzante della nostra opera caritativa. La libertà stessa dei costumi e la mancanza di un culto lo rendono quasi insensibile alle dolcezze della nostra religione. Però, più si studia da vicino, e più ci si convince che, pure essendo un albero silvestre, su di lui si potrà certamente innestare con efficacia il buon virgulto di Cristo. La festa del Corpus Domini dell’anno scorso mi trovavo in missione tra i selvaggi di Arapicos. Nella sera precedente era arrivato alla Kivaria del Ciriapa un loro capo; mi accorsi che il poveretto era infermo e che già gli stregoni si tenevano pronti per curarlo. Per non destare sospetti, facendomi vedere molto stanco, stesi per terra alcune foglie di banano, mi ci sdraiai sopra, facendo finta di dormire. Gli stregoni, credendomi addormentato, spenti i lumi, incominciarono la loro cura a base di invocazioni, di scongiuri, di strilli, e di sputi che durarono tutta la notte. Verso l’aurora, cessato l’effetto del narcotico, se ne andarono; ma io rimasi così seccato e sopratutto così inorridito da tali pratiche superstiziose e selvagge, che, fatto innalzare l’altarino per la Santa Messa, tenni loro una lunga istruzione sulla necessità di usare delle vere medicine per guarire, e nei casi difficili di ricorrere alla Vergine Santissima Ausiliatrice. Prima di partire, regalai loro alcune immagini della Celeste Patrona che io, con fede viva, avevo fatto deporre sulla tomba di San Pietro in Roma. Verso sera ripartii per un’altra kivaria, e, radunati i bambini, incominciai ad istruirli sulla Passione di Cristo. Intanto s’era fatto scuro. Sorbito un po’ di brodo, mi ero sdraiato per terra stringendo la corona del Rosario. Ma non potevo pigliar sonno. Avevo un triste presentimento. Infatti, verso mezzanotte odo in lontananza una voce lugubre, straziante e prolungata di donna: « Il Kivaro Mascianda sta per morire! ». Sveglio i selvaggi; una donna sale all’aperto, e, mettendo le mani alla bocca in forma di tromba, intreccia un dialogo. Che era successo? Uno degli stregoni, malgrado la mia predica, volle sfidare la fede, e, fatti i soliti scongiuri, appena ingoiato il narcotico, ebbe un assalto epilettico, stramazzò al suolo tramortito con la bocca spalancata, con gli occhi fuori dell’orbita. Le donne spaventate gridavano come ossesse; io volevo discendere per assistere l’infermo. La mia fedele guida si rifiutò assolutamente d’insegnarmi la strada, dicendomi che gli stregoni mi avrebbero accusato di essere io la causa di quella morte, e che forse avevano ordito un tradimento. Consigliai di far trasportare l’infelice alla casa paterna, e, alla prima aurora discesi. Quale non fu la mia meraviglia, quando, penetrando all’improvviso nella casa del sinistro, vidi che i selvaggi avevano raccolto tutte le immagini dell’Ausiliatrice, e che, appesele ad una stuoia, le avevano circondate di fiori ed illuminate con torce di resina forestale. Mentre le donne attendevano alle faccende domestiche, due selvaggette con le mani giunte pregavano come avevo loro insegnato al mattino precedente. A questa vista rimasi commosso. Non potei trattenere le lacrime. Invitai i due angioletti ad Innalzare una fervida preghiera alla Vergine. Pochi minuti dopo giungeva la notizia che lo stregone era rinvenuto. La Madonna aveva voluto fare la grazia completa. Lo stregone, da quel giorno, si fece amico sincero dei Missionari
I primi contatti con gli Shuar li ha con quelli che vivono nella zona di Bomboiza, Chuchumblesa, Cuyes e Calagràs, luoghi quasi impenetrabili. È ricevuto con difficoltà ma senza minacce. Porta con sé alcune cose che gli piacciono molto: stoffa, munizioni, specchi, aghi. Con l’aiuto degli shuar che lo accompagnano fa loro capire che è missionario, che vuol loro molto bene, che vuole parlare loro di Dio.
A buon diritto si può affermare che don Carlo fu un antesignano della evangelizzazione delle etnie Ashuar e Shuar (abitanti delle foreste amazzoniche dell’Ecuador orientale) mediante l’“inculturazione”4, termine che costituisce una conquista di oggi, soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Egli, cioè, sosteneva che, come nel giorno di Pentecoste, tutti devono poter ricevere e comprendere la fede nella “propria cultura e nel proprio linguaggio”.
A conferma della fondatezza di questa sua intuizione, mi piace citare il prof. Bruno Luiselli, professore ordinario di letteratura latina, all’Università “La Sapienza” e docente all’Istituto patristico “Augustianum” di Roma, il quale, in un suo libro, La formazione della cultura europea occidentale (Herder, Roma 2003), spiega come nei primi secoli il cristianesimo si sia diffuso tra gli illetterati e i poveri parlando con la loro lingua e attraverso la loro cultura. Fin dall’inizio la dinamica dell’inculturazione fu un’esigenza ovvia, anche se non teorizzata. Luiselli afferma, inoltre, che “Paolo è il primo ad enunciare l’assunzione di elementi di cultura pagana da parte del cristianesimo, appunto l’ara al dio sconosciuto e il verso del poeta-filosofo greco Arato: «di quel dio noi siamo la stirpe». L’Apostolo – continua il cattedratico – proclama che quell’altare che i pagani hanno dedicato al dio che non conoscono, essi lo hanno inconsapevolmente eretto al vero Dio. Paolo enuncia quindi l’assunzione di realtà pagane per servirsene ai fini dell’annuncio cristiano. Ma vorrei dire che l’inculturazione nella storia del cristianesimo si manifesta ancora prima del discorso all’Areopago. Si realizza la primissima volta proprio nell’Incarnazione stessa, quando la Parola con la P maiuscola, Dio, assume la natura umana e si esprime con la parola dell’uomo, nel tempo, nel luogo e nella cultura particolari in cui Gesù ha vissuto. «La Parola si fece carne e venne ad abitare tra noi», dice Giovanni”.
E’ quindi importante sottolineare come in questo duplice intento di penetrazione e di civilizzazione, don Carlo si sia preoccupato di non commettere gli errori della colonizzazione che, prima in Nord America, poi in Patagonia e, da ultimo, nella Terra del Fuoco, cancellò in poco tempo le etnie indie5. Preoccupazione abbastanza scontata oggi, ma frutto di una notevole sensibilità umana e cristiana negli anni ’20 quando, da parte della cultura bianca imperversava un’abominevole “antropofagia” delle culture aborigene che, in certi momenti, non disdegnò neppure di macchiarsi di orrendi misfatti che portarono ad un vero e proprio genocidio.
Con altri salesiani, e segnatamente con un gruppo missionario più illuminato, C. Crespi reagì al vecchio “eurocentrismo ed etnocentrismo che considerava la cultura europea il modello da imporre ai popoli di tutto il mondo, mentre classificava come barbari e, al limite selvaggi, i detentori di culture diverse. Tutt’altro spirito mosse invece da Mendez e da Gualaquiza i missionari salesiani”6.
Il nostro Crespi, più che pronunciarsi in teoria su tale linea, l’attestò con la prassi, con i suoi articoli sempre riguardosi verso gli indios, con le sue lettere e conversazioni, che ebbero sempre riferimenti espliciti a favore delle loro etnie. Tra le più nette prese di posizione, figura la presente: “L’opera dei missionari e, in particolare del Governo, dovrebbe – come non fece negli Stati Uniti ed in Argentina – preoccuparsi di limitare l’invasione bianca, in modo che restino agli indi territori sufficienti per il loro sviluppo ed il loro avvenire familiare (…) Il Kivaro è un vero re della foresta, padrone dei sentieri, delle acque, di tutti gli elementi che lo circondano (…) Egli intende mantenere rigorosamente tutte le proprie tradizioni familiari e razziali”7. Egli amò fondere il calore dell’avventura al freddo resoconto scientifico. I reperti da lui raccolti ed esposti poi nelle mostre di Roma e Torino nascondevano, infatti, spessori di vita e di amore. I risultati furono presto tangibili: raccolse oltre 600 varietà di coleotteri alcuni dei quali, fino ad allora sconosciuti, oggi portano il nome scientifico di “crespiani”. Raccolse arboscelli, felci, licheni, muschi. Preparò 60 gabbie di magnifici uccelli. Scatto migliaia di foto. Trovò migliaia di oggetti di appartenenza indiana. Scavò anche alla ricerca di reperti archeologici. Infine poté disporre di un pronto repertorio di vegetali, animali e di oggetti vari, sia in originale che in riproduzione fotografica. La gran parte di questi oggetti, prima di essere spedita in Italia, fu resa accessibile al pubblico in una simpatica Esposizione Orientalista sulla piazza della cattedrale di Guayaquil, nella casa del poeta Rendon, dove rimase per 40 giorni con oltre 30.000 visitatori, ai quali tenne 120 conferenze.
Ma ormai don Carlo era lanciato, a fine ’24 condusse una campagna nella capitale in appoggio alla costruzione della strada Pan-Mendez, mentre nei ritagli di tempo scrisse a raffica una serie di memorabili articoli pubblicati sul Touring Club Italiano e dal “Bollettino Salesiano”, seguiti con molta attenzione e apprezzati dagli studiosi competenti.
A fine anno organizzò un’équipe cinematografica per realizzare nella selva ecuadoriana la prima pellicola sull’ambiente e sulla vita dei “Kivaros”.
Tratto dal discorso che don Carlo tenne, la sera del 10 ottobre 1926, ai confratelli che, come lui, l’indomani sarebbero ripartiti per le missioni. [↩]
tristemente famosi per l’arte crudele di rimpicciolire le teste dei nemici, chiamate “tsantsas” al volume di un pugno [↩]
Ogni qual volta nei suoi scritti ricorrerà il termine «selvaggio» egli non intende esprime un giudizio negativo, ma riferirsi al senso etimologico del termine, ovvero «abitante della selva» [↩]
L’inculturazione si concretizza anzitutto nel tentativo di tradurre in un’altra cultura il messaggio cristiano e l’insegnamento della fede; si riferisce a una presentazione adattata della Buona Novella, in un linguaggio e in simboli che sono intelligibili per la gente alla quale la Buona Novella viene proclamata [↩]
Le isole meridionali dell’arcipelago della Tierra del Fuego, per esempio, erano abitate, da non meno di 6.000 anni, dagli Alakaluf e dagli Yámanas, che «osservarono impotenti lo sgretolarsi della propria cultura all’arrivo dei primi coloni, verso il 1880». Erano cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna, dalla Francia e allevatori di pecore dall’Inghilterra, per riempire «di lana pregiata le industrie britanniche ». Soprattutto questi ultimi, non soffrendo la presenza degli indios – che rubavano gli ovini, prede molto più facili da cacciare degli abituali guanachi, del resto allontanati dalla presenza delle greggi –, decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli, seni, o testa che provassero la morte di un aborigeno. Inoltre, da tempo i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano ad ucciderli con «ejercicios de tiro». Nel giro di dieci anni, i circa 3.000 Yámanas che subirono l’impatto con i coloni, erano diventati 1.000, nel 1910 meno di cento [↩]
Presencia Salesiana en el Ecuador – Edibosco, Cuenca 1987, pag. 35. [↩]
Entrevista con el P. Carlos Crespi, in “El Commercio” Quito16 aprile 1928 [↩]
La cinematografia ecuadoriana è, a tutt’oggi, giovanissima e solo in anni recenti ha cominciato a produrre con regolarità lungometraggi e cortometraggi, in pellicola e in video. Eppure, l’Ecuador già dagli anni Venti ha iniziato la sua avventura nel mondo delle immagini in movimento. E il suo pioniere è stato un padre salesiano italiano, Carlo Crespi che nel 1923, come è già stato ricordato, sbarca a Guayaquil, l’immensa città portuale, con 120 casse di materiale vario, tra cui una macchina fotografica, una macchina da presa, un proiettore. E con esse raggiunge Quito, la capitale, e da lì la foresta amazzonica, inviato dall’ordine dei salesiani per documentare le missioni nell’oriente ecuadoriano.
La sua base diventerà, fino alla sua morte, Cuenca. E’ (anche) per questo motivo che il neonato festival del cinema gli ha reso omaggio, proiettando, nella serata inaugurale, un documentario – Homenaje al Padre Crespi (omaggio al Padre Crespi), realizzato da Jorge Luis Serrano – che in mezz’ora ripercorre le tappe di questo pioniere attraverso testimonianze e rare immagini di uno dei suoi lavori, “Los invencibles shuaras del Alto Amazonas, girato nel 1926 con la popolazione dei shuara, documentario di carattere antropologico che ben evidenzia lo sguardo attento di Crespi nel cercare il dettaglio o il totale, in inquadrature sempre molto ‘calde’ e dunque di alto valore visivo, ben oltre il semplice reportage.
E’ dunque un vero peccato che la quasi totalità della sua opera cinematografica sia andata perduta in quella notte del 1962 (quando venne dolosamente distrutta sia la scuola che il museo).
Ciò che è più interessante nella vita di padre Crespi è l’attività pionieristica nell’ambito della produzione cinematografica ecuadoriana. Gli invincibili shuar dell’Alta Amazzonia è il titolo del documentario girato e montato in collaborazione con il fotografo Rodrigo Bucheli e Carlo Bocaccio. La prima edizione può contare sulla partecipazione di Vitey de Fontana che ha preso parte alla realizzazione di prestigiose pellicole, come Quo vadis? e Gli ultimi giorni di Pompei. La troupe riesce a filmare circa duemilacinquecento metri di pellicola, ridotti alla metà in fase di montaggio. Il debutto a Quito e a Guayaquil avviene nel 1927 e, in seguito, a Cuenca e nei vari cantoni delle diverse provincie dell’Ecuador.
Gli invincibili shuar dell’Alta Amazzonia è un film muto suddiviso nelle seguenti quattro parti:
1) Da Genova all’arrivo nell’Oriente.
2) Alcuni costumi degli shuar e la festa della tzantza.
3) L’opera salesiana nelle missioni.
4) Il supporto del Comité Patriótico Orientalista de Señoras.
La parte principale del film coincide con la partenza via mare dal porto di Genova e l’arrivo a Guayaquil, della quale documenta l’attività commerciale, i giardini pubblici e le strade. Il focus del documentario si sposta su Cuenca, nell’intento di raccontare il paesaggio dell’Oriente, la vita quotidiana delle donne, l’educazione dei figli, la fabbricazione delle pentole, la preparazione della chicca1, il confezionamento delle ceste, la mietitura, la tessitura del cotone, la costruzione di una cerbottana con dardi avvelenati per cacciare gli uccelli. Descrive quindi la pesca con il barbasco2 e la vita animale nella foresta: pappagalli, ara, aironi… Il “viaggio” cinematografico continua con la rappresentazione di scene di caccia al puma, al giaguaro e al cinghiale da parte di indios armati di lance e fucili.
Il documentario prosegue con la rappresentazione di un fatto macabro ambientato in un villaggio indigeno. L’agghiacciante reportage ha come protagonista una certa Makeipa, la quale fa uccidere il marito per procedere alla trasformazione della sua testa in una tzantza. La cerimonia è accompagnata da danze, mentre la cinepresa passa ad inquadrare il paesaggio. L’estremo realismo delle immagini non è che un preambolo per introdurre il tema principale della pellicola: l’opera missionaria dei salesiani che evangelizzano, educano e mostrano agli autoctoni la via del progresso, a partire dalla costruzione di strade e ponti, dall’agricoltura tradizionale e moderna, del lavaggio dell’oro nei fiumi. Nella parte finale, il film mette in evidenza il supporto ricevuto dal Comité Patriótico Orientalista de Señoras.
Questo il commento: “Sull’écran si proiettano belle scene naturali di armadilli, agouti, urogalli, pavoni e preziosi ornamenti, tra cui una collana di 5.000 denti di scimmia, un tessuto realizzato con 500 femori di uccello ed altri otto fabbricati con 6.000 ali d’insetto”. Nel documentario si vedono anche alcuni scheletri che padre Crespi studierà dal punto di vista scientifico. Egli afferma: “L’obiettivo fondamentale di questa pellicola consiste non solo nel far conoscere la regione orientale agli ecuadoriani, ma anche nel fornire un’immagine fedele della vita degli shuar. Non è un cannibale come pensano gli stranieri, ma un individuo primitivo che non ostacola la civilizzazione”. A prescindere da questa dichiarazione, senza dubbio il film serve a mettere in rilievo l’evangelizzazione posta in essere dai missionari salesiani.
Il documentario viene proiettato a Cuenca, Quito (nel Collegio don Bosco e al Teatro Sucre), Guayaquil (al cinema Edén), Ancón e in altre città del paese.
L’arcivescovo Manuel Maria Polit elogia il lavoro di Carlo Crespi, affermando che il cinema è un mezzo idoneo alla diffusione della fede, sebbene a volte sia utilizzato a sproposito. “È un vero peccato che i cattolici abbiano lasciato monopolizzare [da altri] un’arma tanto potente”. E aggiunge, rivolgendosi a padre Crespi: “Lei è stato il primo tra noi a incamminarsi su questa strada”. Col passare del tempo, il film si rovina. Non esiste una copia completa; della pellicola originale rimangono solo alcuni spezzoni. Grazie al contributo dell’U.N.E.S.C.O. e dell’Università Autonoma del Messico, la Cineteca Nazionale della C.C.E. la restaura, aggiungendo immagini fisse, un commento musicale e qualche effetto speciale.
Rimane, oltre a questo recente documentario in sua memoria, una ricostruzione del suo film sopraccitato, effettuata in occasione del centenario del cinema.
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Interessi scientifici in un cuore di missionario. Quando don Carlo arrivò nel vicariato di Mendez per preparare il materiale dell’esposizione vaticana, si viveva ancora in una situazione precaria, sotto l’incubo di cruente razzie indiane. La realtà vissuta dai missionari salesiani in quel periodo, da don Carlo viene così descritta al suo Rettore Maggiore: “Amatissimo Padre, col 1° marzo 1924 si compiono 30 anni dacché i Missionari salesiani, invitati dal Governo Ecuadoriano per incarico della S. Sede, assumevano l’evangelizzazione della razza Kivara in Gualaquiza. Le difficilissime condizioni politiche, la morte di molti missionari, la mancanza di mezzi finanziari e sopratutto il carattere eccezionalmente selvaggio dei Kivaros, hanno isterilita la già difficile opera missionaria sopratutto durante la guerra. Ora però che il Vicario Apostolico, Monsignor Comin, ha potuto ottenere nuovi operai, ora che zelanti comitati missionari d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba, Ecuador, hanno voluto con raro sentimento altruistico ascoltare il commovente appello del Pastore dei Kivaros, ed insieme col preziosissimo obolo della preghiera donargli anche oggetti, tessuti, paramenti per le poverissime chiese e denari per il consolidamento delle opere esistenti ed allestimento delle nuove, un santo alito di vita è penetrato e la Missione va riorganizzandosi verso nuove conquiste. Amatissimo Padre, permetta che dica nuove conquiste, perché se la Missione dei Kivaros non può presentare, come le altre, intere tribù convertite alla Fede ed alla Civiltà, questo però può affermare, di aver compiuto mirabilmente l’opera di prepara-zione. Mercè difficilissime esplorazioni si son potute stabilire le sedi di Gualaquiza, Indanza, Mendez, sedi che permettono di avvicinare in tutta la loro estensione i kivaros, arrivando ai confini delle Missioni Francescane e Domenicane.
Tra i coloni di Rosario. Nel dicembre scorso ebbi la fortuna di accompagnare Mons. Comin in visita a Gualaquiza. Non sto a narrarle le difficoltà del viaggio. Chi si abbandona ai pericolosi cammini deve essere disposto a tutto, a ricevere dei colpi poco graditi da rami sporgenti nel sentiero che s’infossa e s’incassa nella roccia, delle bastonate nella schiena da non voluti archi trionfali, cioè dai tronchi d’albero caduti ed ingombranti il cammino, e molte volte anche a cadute poco gradite nel fango colla povera bestia impossibilitata a rialzarsi. Prima di arrivare alla zona dei Kivaros, passato il freddo Paramos delle Cordigliere, il missionario passa attraverso piccole possedimenti di coloni, il cui nucleo più importante è posto nelle ridenti posizioni di Aguacate e Rosario. A quest’ultima posizione arrivammo verso sera quasi improvvisamente. Ci scorse però un piccolo indio, il quale si attaccò alla corda della campana, ed in breve fu organizzato un ricevimento cordialissimo all’illustre Pastore. Si poté subito attendere alle confessioni, ed all’indomani numerose furono le S. Comunioni. La chiesa, una miserabile capanna, in parte scoperta, senza pavimento, senza arredi, senza porte, mercé la generosità degli amici delle Missioni, sarà presto riedificata in posizione migliore.
Tragico passaggio. Intanto ai rintocchi della campana si radunavano sulla collina opposta i coloni di Aguacate addetti sopratutto alla coltivazione della paja toquilla, con cui si tessono i famosi cappelli di Panamà. Tra le due colline corre uno dei torrenti più rapidi e spaventosi dell’Oriente Ecuatoriano. Dalle piogge notturne era notevolmente ingrossato e l’eco cupa dell’onda si ripeteva nelle valli incrociantisi. L’unico ponte era caduto e rimaneva un solo palo, in parte già lesionato attraverso le sponde. S’immagini Lei, amatissimo Padre, lo spavento nel doversi cimentare a un passaggio tanto pericoloso. I buoni coloni per l’occasione, credendo di farci un regalone, avevano messo all’altezza di un metro dalla trave una liana di nessuna resistenza. Fu giocoforza passare, e non so ciò che provò Monsignore. Benché mi fossi messo al passaggio con tutta tranquillità, quando fui nel mezzo sentii il sangue ritirarmisi completamente. Il palo incominciava a muoversi ed a scricchiolare: la violenza spaventosa dell’onda che sbatteva contro le rive macigni colossali con rumori assordanti e che roteava nei gorghi spaventosi alberi giganteschi, appariva in tutta la sua tragicità. Una leggiera mancanza d’equilibrio, una piccola incertezza nell’incrociare i piedi, ci avrebbe dato inesorabilmente in braccio alla morte più crudele. La Vergine però ci assistette maternamente, e potemmo risalire ad Aguacate non senza aver dato ordine che fosse posto provvisoriamente un buon cordone d’acciaio regalato dal nostro Governo italiano e si provvedesse presto al rifacimento del ponte a costo dei più grandi sacrifici.
La nuova chiesetta di Aguacate. Nella nuova chiesetta ci attendeva un buon numero di coloni. Dopo la S. Messa un bel gruppo di bambini ci intratteneva con dialoghetti e poesie. Mancava solo la musica per completare l’accademia. Fu estratto quindi dai cassoni un grammofono e per lunghe ore i migliori canti risuonarono nella valle, tra la viva compiacenza di molti, che mai avevano visto un simile strumento musicale. Monsignore s’interessò vivamente delle condizioni religiose e morali di questa nuova residenza missionaria. Vi stabilì definitivamente un sacerdote, organizzò il servizio religioso, le scuole per l’educazione dei piccoli indigeni, una incipiente farmacia e lasciò denari e tessuti affinché, terminato il ponte di Aguacate, si risolva il problema della viabilità, e la colonia si avvii ad un benessere religioso e materiale.
Tra i selvaggi. Dopo due giorni si proseguì il cammino nella foresta e si arrivò dopo il passaggio del terribile Cutan, zona orribilmente pantanosa, alla sede della Missione. L’aver cambiato il giorno d’arrivo non permise un ricevimento rumoroso; appena però nei giorni seguenti si sparse la notizia della venuta del Vescovo, i Kivaros vennero da tutte le parti. Amatissimo Padre, pare impossibile che gli sforzi organizzati di un secolo di evangelizzazione abbiano così poco influito sulla natura feroce e barbara di questi selvaggi!1 Come dissi l’affluenza fu grande, ma affluenza interessata: «Obispo venendo, mucho regalando». – Viene il Vescovo, molto regalerà! -. Era questa la frase che si ripeteva tra di loro e colla speranza di regali si poté far loro un po’ di bene, organizzare istruzioni catechistiche e sopratutto la frequenza domenicale.
Sentiamo il tamburo! Fu di grande interesse sopratutto il grammofono. Quasi nessuno aveva visto ed udito un simile strumento, e subito fu battezzato col vocabolo Kivaro «Tùnduli», cioè tamburo, «Tùnduli oyendo! Tùnduli oyendo!» era la frase che con insistenza puerile andavano ripetendo bocche di selvaggi, sbucati dalle più remote foreste. E Monsignore stesso molte volte s’adattò a caricare la macchina ed a cambiare i dischi. Graditissimi sopratutto alcuni canti, le voci di guerra, i suoni confusi, le risa sgangherate. Qualche donna sopratutto aveva una gran paura che nel disco ci fosse il demonio, e stava ben aderente al marito, o nascosta per paura di qualche brutto scherzo. Il problema di attrarre i selvaggi alla Missione è il più arduo e il più difficile. Le Jivarie più vicine sono a circa 2 ore dalla casa nostra, le altre tutte più lontane da 3 a 12 ore. Ora per ottenere che vengano almeno qualche volta è necessario avere grandi attrattive, cibi abbondanti per sfamarli, ciccia per dissetarli e regali in specchi, aghi, ami, tessuti, ed anche medicinali per poterli opportunamente curare. Solo con questi mezzi abbondanti si può sperare di averli qualche ora con noi, di averli attenti per qualche minuto al catechismo, e di udirli ripetere magari macchinalmente alcune delle preghiere, che il compianto Monsignor Costamagna fece comporre nella loro lingua.
Salviamo i giovani! Don Bosco, parlando della civilizzazione dei selvaggi dell’America del Sud, disse chiaramente che la conversione degli adulti sarebbe stata difficilissima e che i giovani avrebbero formate le nuove generazioni. Ai giovani soprattutto gli sforzi dei missionari. Mercé difficili esplorazioni alle Kivarie, si sono potuti studiare ottimi elementi che aprono il cuore alla più bella speranza. È certo difficile indurli a vivere col missionario. L’incanto della foresta troppo influisce sulla loro anima, avida di libertà; però alcuni birichini già si sono indotti a convivere coi missionari. E una vita collegiale, tutta singolare, a cui il sacerdote non solo deve mantenere lautamente i selvaggetti, e fare grandi spese per procurare loro anche delle distrazioni, ma è necessario che ogni tanto paghi le mamme, affinché permettano ai figli di rimanere alla Missione. La riorganizzazione della Missione richiede, quindi, dei grandi mezzi. Le coltivazioni dei canapi devono essere estese, affinché abbondanti siano i frutti per mantenere i selvaggi di passaggio; le comunicazioni colle diverse Kivarie devono essere più rapide con sentieri praticabili e ponti sicuri; i locali delle Missioni devono essere rinnovati secondo le nuove esigenze. Si fa quindi vivo appello agli amici d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba e del mondo intero, che già generosamente vollero aiutare il povero Vescovo dei Kivaros e gli permisero d’iniziare un nuovo lavoro, affinché continuino ad assisterlo colle preghiere e con offerte adeguate ai nuovi ed urgenti bisogni”.
Quando don Carlo chiama gli Shuaras «selvaggi», il termine non lo intende in senso dispregiativo, ma nel senso etimologico, ovvero «abitanti delle selve», in quanto era il loro habitat naturale. [↩]
Don Carlo Missionario-Scienziato con lo Stupore di Fanciullo (Parte Prima)
Dalle prime dichiarazioni rilasciate da Carlo Crespi al suo arrivo in Ecuador emerge l’intenzione di far valere la sua formazione accademica, in quanto ritenuta un mezzo per servire meglio la società. Sebbene la vita lo conduca verso l’educazione dell’infanzia e l’impegno sociale, trova sempre la maniera di palesare le conoscenze e le competenze acquisite nei diversi ambiti di specializzazione. Una lettera di referenze ci dice, infatti, che la sua è una preparazione scientifica. Vive una prima e preziosa esperienza in Amazzonia, dedicandosi in particolare alle scienze naturali, all’antropologia e all’etnografia. Gradualmente, però, finisce per concentrarsi sulle opere missionarie evangeliche e sui doveri sacerdotali. Al termine della vita, l’amministrazione dei sacramenti della Confessione e dell’Eucaristia diviene a tutti gli effetti un’attività quotidiana che occupa molte ore della giornata. Nel corso della malattia, ciò che lo affliggerà maggiormente sarà la lontananza dal confessionale e dal tabernacolo. Lo scopo di questo capitolo è mettere in evidenza i molteplici aspetti della sua vita scientifica e culturale, ampiamente dimostrati nel corso di una lunga esistenza.
“Solamente nell’ottobre del 1923 – egli riferì – mi fu possibile organizzare le prime escursioni alle missioni di Mendez, Gualaquiza e Indanza. A fine anno veniva da Torino l’ordine di preparare i materiali per l’Esposizione Vaticana, e così ebbero inizio le escursioni sistematiche a tutto il Vicariato, la raccolta dei materiali etnografici, dei dati statistici e di un’abbondante documentazione fotografica”.
Non si pensi che don Carlo fosse facilitato nell’impresa da sentieri tracciati e da precedenti esperienze dei confratelli. Le sue escursioni verso SE, verso l’Oriente ecuadoriano, erano in gran parte “inedite” e condotte sui primitivi sentieri degli indios Jivaros. Nessuno dei salesiani si era spinto, prima di allora, oltre certi limiti. La “scoperta” del mondo ecuadoriano incanta e capta l’interesse dello studioso. Con lo stupore di un fanciullo, Crespi si abbandona a descrivere l’ambiente e il clima tropicale, la flora, la fauna nei loro aspetti d’insieme e più spettacolari; poi non si trattiene da un’analisi più particolareggiata e propria della sua natura di studioso. E’ sorprendente questo atteggiamento di Carlo Crespi davanti alla novità ecuadoriana. Egli sprigiona certo il naturalista, ma non meno il poeta che, partecipando della natura, oltre che leggerla e descriverla, più intimamente l’assimila e la interpreta. Particolarmente significativa in questo senso ci sembra la prima lettera che Don Carlo scriverà qualche mese dopo il suo arrivo in Ecuador, al beato Filippo Rinaldi, Rettore Maggiore e 3° successore di don Bosco:
“Amatissimo Padre, mentre il Condor volteggia maestoso sulle pendici dei giganteschi vulcani, innalzantisi verso il cielo in una candidissima veste di neve, mentre il vorace Coccodrillo sulle rive del Guayas nella putrida melma, sonnecchiando, si bea degli ultimi raggi solari ed il Giaguaro, nell’immensa foresta, emette il terribile grido vespertino, ammonitore dell’insaziabile sua fame, e tutta l’innumerevole schiera dei serpenti, dal boa colossale alla vipera insidiosa, s’apprestano alla giornaliera opera distruggitrice ed avvelenatrice, il mio saluto commosso, cordiale. Non può immaginare quante cose avrei a dirle del lungo viaggio attraverso l’Atlantico ed il Pacifico, e soprattutto sulla traversata di quasi tutto l’Equatore, dalla tropicale Guayaquil alla temperata Quito, e come tante, tantissime volte, rapito nella sublime contemplazione della natura mi sono sentito schiacciato dall’Onnipotenza creatrice di Dio, umiliato innanzi alla vista di un mondo nuovo, ancora quasi completamente dalla scienza inesplorato. Veramente l’Ecuador offre al diligente osservatore meraviglie sopra meraviglie, bellezze sopra bellezze. L’alpinista qui trova un campo vastissimo d’escursioni, lo scienziato materiale inesplorato, il missionario un lavoro fecondo. Mi limiterò ad alcune osservazioni su ciò che di più caratteristico colpisce lo straniero in questa piccola Repubblica, grande di eroismo. Dal Guayas a Guayaquil. Lasciando il Pacifico e risalendo in alta marea il maestoso Guayas, subito lo sguardo rimane colpito dalla prodigiosa vegetazione delle sponde: platani colossali, manghi sviluppati, aranci, grande varietà di palme. Fissate l’occhio nella torbida onda e subito rimarrete colpiti dalle numerose schiere di delfini, assai più sviluppati di quelli dell’Atlantico e del Mediterraneo, e sfidanti la velocità del piroscafo con ritmiche capriole, come squadre di sottomarini. Non mirate gli orribili pescecani e neppure i pesce-spada, assai rari, guardate invece l’esercito immenso di pellicani solcanti l’onda e con velocità sorprendente caccianti l’incauto pesce che appare alla superficie.
La perla del Pacifico. Il piroscafo intanto lentamente ci ha condotti innanzi a Guayaquil, la perla del Pacifico, la città delle belle chiese, del lavoro febbrile, del commercio del cacao, zucchero, banano, e dei famosi cappelli Panama. A pochi metri dalla spiaggia il Collegio Salesiano Cristobal Colon con una magnifica chiesa in costruzione, all’altro lato della città l’Orfanotrofio Santistevan. Siamo in pieno clima tropicale: il termometro non discende mai sotto i 19 gradi e non sale mai sopra i 35 gradi: due stagioni solamente. L’estate secco, arido e senza una goccia di pioggia, ma con una ristorante brezza marina da maggio a dicembre; l’inverno con un caldo soffocante, con piogge periodiche e con un imperversare di zanzare ed altri piccoli insetti, delizia e meraviglia dello scienziato e del collezionista, tormento certo poco gustoso del passeggero, che molto volentieri farebbe a meno di tanti animaletti, uno più curioso ed interessante dell’altro. Volete pigliarvi la soddisfazione di vedere in America dei colossali coccodrilli di più di sei metri? risalite per poco gli affluenti del Guayas e vedrete dei magnifici esemplari del Crocodilus Occidentalis, accoccolati nella melma.
Mirate attentamente tra il folto fogliame della sponda e vi colpiranno pure delle meravigliose Iguane di circa un metro di lunghezza. Se siete curiosi di vedere il famoso Basilisco, abbiate pazienza; fate due passi nella foresta, naturalmente colla massima precauzione per non pestare la coda di una delle tanti serpi velenose, e ne vedrete dei leggiadrissimi, di un vivissimo color verde, tranquilli, pacifici, assolutamente inoffensivi. Se siete fortunati nelle vostre ricerche, non vi sfuggirà la vista di una graziosissima lucertolina, l’Ameiva vulgaris, di un nero lucente, con punti azzurri e gialli. Per carità non datevi conto delle centinaia di migliaia di farfalle, che con ritmi e movimenti bizzarri vi circolano intorno; le migliori irradiazioni dell’iride, dal supremo Artefice magnificamente intrecciate, danno al vostro occhio un’impressione gradevolissima: bianchi, leggiadrissimi, con punti neri, verdi smeraldo, azzurri, rossi scarlatto, ed un’infinità di gradazioni dal giallo dorato al violetto lucente. Il piumaggio degli uccelli è meraviglioso: dal rosso del comunissimo Cardinale, al nero cupo del Gallinazo o catarstes atratus, rapace, fornito di un odorato finissimo, vero spazzino della città, chiamato foeteus, perchè ha una predilezione grandissima per i cavalli e i cani putrescenti. Nella notte poi in un trionfo magnifico di stelle dell’uno e dell’altro emisfero colla brillantissìma Croce del Sud un fenomeno curiosissimo che facilmente potrà trarvi in inganno. Nell’Ecuador tutto è colossale, e le lucciole, dall’addome fosforescente, non solo timidamente volano rasente terra, ma s’innalzano tra il vigoroso palmizio di cocco e con movimenti rettilinei vi danno la bellissima impressione di stelle cadenti: moltissimi stranieri restano veramente ingannati. Persino le blatte sono esageratamente sviluppate. Aprite un armadio con un po’ di farina, e le vedrete correre in tutte le direzioni, vivaci, grosse il triplo di quelle europee.
Verso la capitale. Ma è ormai tempo di abbandonare la città: se avrete la sfortuna di arrivarvi d’inverno, è assolutamente necessario muovervi. Il magnifico Cimborazo vi invita: il mostro gigante, che s’innalza a ben 6100 metri e che supera di ben 3000 metri le più alte cime della sierra, vi si profila nell’immenso orizzonte in un copioso ammanto di neve: se riuscite a scorgerlo dal mare ditevi fortunati, perchè è bello, è grandioso, è sublime, ma raro, prezioso. Le nubi, gelose molte volte, troppe volte, lo nascondono nella loro veste cinerea. Via quindi da Guayaquil e subito ai monti. Una ferrovia, una delle più alte del mondo, vi trasporta fino alla capitale, a Quito. Se non vi viene il male della montagna, se l’ardente calore non vi ammazza, gustate tutta la natura nel suo magnifico splendore. Nella zona palustre nidi grossi di formiconi tra i rami degli alberi, eserciti immensi di uccelli acquatici, farfalle dai più variopinti colori, ninfee magnifiche, salvinie, ecc. Poco per volta si profilano le caratteristiche coltivazioni tropicali: banani giganteschi, aranci frondosissimi, canna da zucchero, juca, ananasso e, nel bosco, bianchi fiocchi che vi indicano lo sviluppo dei cotone selvatico; più in alto il cacao, la pianta principe, il vero oro dell’Ecuador nei secoli passati, ed ora purtroppo deprezzato da una concorrenza fenomenale all’estero.
Nel cuore della foresta. Il treno cammina, cammina; e, senza accorgervi, v’interna nelle gole dell’alta montagna, nella zona delle foreste vergini. Lo scrosciare spaventoso dei torrenti dalle curve più bizzarre, le ripide cascate di centinaia e centinaia di ruscelli che s’abbassano a valle, picchi inaccessibili, magnifiche palme che preziosissime sarebbero nei migliori giardini europei, anturium, dalle foglie larghe un metro, centinaia di bromegliacee fiorenti sugli alti alberi, splendidi liane come lunghi cordoni di navi innalzantisi dall’umida terra all’alta cima, passiflore e tasconie dai fiori vivissimi, e migliaia e migliaia di piante sparse nell’impenetrabile foresta ed ognuna in lotta gigantesca coll’altra per innalzarsi e far brillare nel libero cielo il magnifico fogliame e la caratteristica fioritura: ecco la natura nel suo massimo splendore. Benedetto sia Iddio che tante cose ha create!
La “Nariz” del diavolo. Saliamo, saliamo ancora: la magnifica vegetazione si fa meno lussureggiante; agli alberi succedono gli arbusti. Il ricino, da cui si estrae un olio già famoso in Italia, nell’Ecuador cresce spontaneo ed è un bell’alberello legnoso di alcuni metri di altezza. Osservate per terra: il colore dei fiori incomincia a divenire più uniforme, predomina un giallo vivace, segno di stanchezza. La macchina del treno, pure, dà segni di stanchezza, si prepara a fare una pericolosa salita, la famosa Nariz (il naso) del diavolo, monte a picco in forma di naso. Il treno sale lentamente, lentamente, e questa lentezza vi riempie di uno spavento, di una suggestione glaciale. Non osservate fuori del finestrino: un orribile abisso vi si para dinanzi. Non pensate che il freno potrebbe rompersi, che un carrozzone potrebbe staccarsi dalla locomotiva e, nella corsa vertiginosa lungo le rotaie, trascinarvi e massacrarvi nella valle…
La regione del Cimborazo. L’aspra salita è compiuta: l’aria si fa più fresca, la vegetazione sempre più scarsa. Siamo vicini al magnifico Cimborazo a quota 3000 metri, ed il colosso s’innalza ancora, ed è alto, altissimo. Appuntate un binoccolo e vedrete qualche Condor che volteggia sulle pendici, vedrete un ghiacciaio colossale con un’orrenda spaccatura e nascondente chissà quale precipizio. Il treno cammina ancora rimanendo ad una quota di circa 3000 metri e percorre il grande altipiano andino: lasciate la gentile città di Riobamba con una bella chiesa salesiana in costruzione, ed osservate la nuova vegetazione: il terreno è coltivato. Oh non cercate quassù il mais dalle pannocchie da terra promessa, l’erba medica sviluppata, il lupino, il frumento, l’orzo in produzione rigogliosa! Li troverete certo in qualche azienda, o fattoria, più lontana dalla ferrovia. Discendete dal treno, pigliate una manata di terra: è nerastra; è la cenere che le imponenti e relativamente recenti eruzioni vulcaniche hanno rovesciata a tonnellate, rendendo impossibile una pronta coltivazione.
La regione di Tunguragna. Avanti ancora un poco e vi si profilerà un altro colosso, il divino Tunguragna, ancora in eruzione. Com’è magnifica, com’è stupenda la vista di questo gigantesco colosso, innalzantesi ben 3000 metri sopra tutta la immensa cordigliera delle Ande, rivestito di neve e con un pennacchio di fumo a volte di nero carico, a volte leggero, mandante ogni tanto bellissimi riflessi infuocati, che nella notte gettano una luce rossastra, sempre sinistra, sempre insidiatrice, sempre minacciosa di chissà quali spaventosi fenomeni tellurici. Strati immensi di ceneri, bombe colossali gettate dalla potenza eruttiva a centinaia di metri, chilometri e chilometri di lava andesitica1, recente ed antica, vi diranno tutta la maestosità dei fenomeni tellurici susseguitisi nei secoli. Nell’alto altipiano della Sierra, non cercate la vegetazione lussureggiante: una graminacea di un color grigiastro, Stipa Ichu, vi si distende per chilometri fin quasi alla regione delle nevi.
Arrivati ad Ambato, la gentilezza insistente dei contadini vi offrirà per pochi soldi qualche grappolo d’uva, non certo come quella delle feraci colline piemontesi; fragole grossissime, ma di un sapore un po’ agro, pere, mele. Qui non si vende al minuto; bisogna comperare addirittura un canestro di alcuni chili; siate quindi compiacenti; prima di arrivare a Quito, avrete con che far passare il tempo. Un botanico però ha da che perdere la testa: ogni decina di chilometri incontra novità, meraviglie. In mezzo alla natura del triste panorama e lontano dai centri abitati, bellissime gigliacee, composite curiose, solanacee arboriformi; e, rampicante sugli arbusti, una liana dagli smaglianti colori rossi, la tasconia, nelle sue differenti specie. Delle fucsie esistono bellissime varietà. Sulle rocce umide, larghissime incrostazioni verdi: è la fegatella stellata, una graziosa crittogama. Intorno alle case s’erge maestoso, gigante, l’eucaliptus. Che magnifica pianta sempre verde, che preziosità per la sierra, così povera di legname da costruzione! Siamo arrivati nei dintorni di Quito. Boschi interi di questo prezioso albero la circondano da ogni parte. L’eucaliptus, che arriva anche a 40 metri di altezza, serve, oltre che a costruire case e fornire legna da ardere, a curare alcune malattie, tra cui le affezioni pettorali per la preziosa essenza di Eucaliptol che contengono le foglie.
Quito. Quito, una delle più alte città del mondo, vi offre un soggiorno delizioso: magnifiche le chiese, ricche di quadri di valore, preziose le biblioteche dei religiosi e dei privati, e sopratutto la Nazionale; interessanti sopratutto le viste panoramiche dei vulcani. Il Pichincho è, a poche ore di strada; il Corazon, l’Illiniza, il Caiambe la rallegrano colle loro bellissime cime. Fate poche ore fuori della città, sulla strada della Maddalena, e vi apparirà il Colopaxi in tutto il suo splendore: un gran cono, geometricamente quasi perfetto, ricoperto da un candidissimo ammanto di neve. Ora riposa nella gelida veste; pochi anni or sono diede uno degli spettacoli più maestosi di attività. Fate pochi passi lungo le grandi spaccature aperte dai torrenti, e potrete comodamente raccogliere felci, tasconie, fucsie, solanacee arboriformi. Prodigiosa sopratutto è la vegetazione dei muschi: alle falde del Pichincho, ne potei raccogliere ben 20 specie sulla corteccia di un vecchio albero. I fichi d’India, i cactus, e sopratutto l’agave americana, coltivata come confine tra aziende particolari e sfruttata per la fabbricazione della corda, vi diranno che siamo in un paese tropicale, con una media di temperatura di 12 gradi. Lungo le strade mulattiere e nelle profonde valli incise splendidi ceppi di arundo nitida con spighe meravigliose. Salite le falde del Pichincho ed incontrerete campi coltivati fino a quasi 4000 metri con mais, frumento, orzo, e sopratutto patate. Volete ricrearvi l’animo? Passate alcune ore all’Alameda, ove esiste il magnifico Osservatorio Meteorologico ed astronomico, fondato dal celebre Garcia Moreno, circondato dall’orto botanico, fondato dal non meno celebre Padre Sodiro, gesuita. Pochi minuti di strada vi portano al Collegio Salesiano di Quito, con buone Scuole professionali, con un nuovo e fiorente Oratorio festivo. Nella chiesa un prezioso ricordo: il quadro di Maria Ausiliatrice, donato da Don Bosco morente ai primi salesiani partenti per l’Ecuador e l’eco parola del nostro Fondatore: «Benedico Quito, la città del Sacro Cuore!».
La “scoperta” del mondo ecuadoriano, in un primo tempo incanta l’ospite e capta l’interesse dello studioso. “Rapito nella sublime contemplazione della natura – egli dice – mi sono sentito schiacciato dall’onnipotenza creatrice, umiliato alla vista di un mondo nuovo, quasi completamente inesplorato dalla scienza”.
Con lo stupore di un fanciullo. Crespi si abbandona a descrivere l’ambiente e il clima tropicale, la flora, la fauna nei loro aspetti d’insieme e più spettacolari; poi non si trattiene da un’analisi più particolareggiata e propria della sua natura di studioso.
È sorprendente questo atteggiamento di Carlo Crespi davanti alla novità ecuadoriana. Egli sprigiona certo il suo spirito di naturalista, ma non meno il poeta che, partecipando della natura, oltre che leggerla e descriverla, più intimamente l’assimila e la interpreta.
Doveva essere una «predisposizione familiare». Nella lontana Tailandia anche Delfino Crespi, fratello minore di Carlo (undicesimo dei tredici fratelli) e lui pure missionario salesiano, aveva consimili atteggiamenti. In un viaggio di lavoro fu sorpreso da un confratello nell’atto di imbalsamare e assicurare al suo piccolo museo missionario una gigantesca “Mantide religiosa” intenta a catturare e divorare un malcapitato uccellino.
Con Padre Crespi i salesiani poterono finalmente realizzare nel lontano Ecuador l’abbinamento, da tempo programmato, di una missione religiosa con una missione scientifica, in una armonica simbiosi tra l’impegno apostolico e l’impegno culturale: «fu l’uomo giusto al posto giusto!»
Don Carlo fu certamente musicista, scienziato, ingegnere …, ma egli fu prima di tutto e innanzitutto un missionario che con le sue ricerche, i suoi studi, i suoi interventi ambientali e sociali, era interessato alla salvezza dell’uomo integrale e, solo come corollario a questo obiettivo primario, si serviva dei suoi talenti scientifici e musicali.
Il nome Andesite deriva infatti dalla catena montuosa delle Ande. Le andesiti sono molto comuni negli stratovulcani, dove formano sia spessi flussi di lava, che eruzioni moderatamente esplosive di tefra. Le andesiti sono eruttate a temperature comprese fra i 900 ed i 1100° C. Le lave dell’Etna appartengono in gran parte alle andesiti e ai basalti andesitici. [↩]