Lettera del 16/05/1938 di Don Paolo Montaldo a Don Ricaldone (Rettore Maggiore), con la quale descrive il 1° Congresso Eucaristico di Cuenca

Rev. Sig. Don Ricaldone …

… Congresso Eucaristico Diocesano che, affidato alla protezione di San Giovanni Bosco, ha superato ogni umana aspettativa, soddisfacendo largamente le nobili aspirazioni delle anime.

Noi non avremmo potuto celebrare più degnamente il duplice cinquantenario. E ci sentiamo profondamente grati a S. E. Mons. Daniele Hermida, Vescovo diocesano ed a tutto il Clero, che ci offersero la gloria d’un trionfo eucaristico per festeggiare la cara coincidenza. Mons. Vescovo indisse il Congresso con una magnifica pastorale, esaltando la figura di Don Bosco « Apostolo dell’Eucaristia » e fissando la data dal 4 al 12 maggio u. s. La popolazione rispose all’appello con mirabile entusiasmo. Non ci fu gran tempo per la preparazione; non mancarono le difficoltà; ma la fede del popolo ed il fervore del Direttore dei Cooperatori Salesiani, Dottor Don Emmanuele Serrano e dei nostri confratelli improvvisarono, in poche settimane, un bel «campo eucaristico» pel trionfo di Gesù. Le memorande giornate furono preparate da un triduo di predicazione in tutte le chiese della città, seguito da un altro più solenne che doveva tenersi nel Santuario di Maria Ausiliatrice e si dovette invece celebrare all’aperto nel « Campo Eucaristico » per non privare la maggior parte delle 15.000 anime accorse della parola di Dio prodigata in forma apostolica, elegante e suggestiva dal celebre P. Ramòn Gavilanes, Provinciale dei Mercedarii. I vibranti discorsi da lui tenuti e gli altri principali atti del Congresso furono trasmessi per radio all’Equatore, ed a tutto il Continente, da una potente stazione radio, installata espressamente.

A « Campo eucaristico» fu destinato il luogo più adatto e più spazioso della città: l’ampio cortile aperto tra il Collegio Salesiano « Cornelio Merchàn » e la Casa centrale delle Missioni. Sotto i vasti portici che lo circondano s’innalzarono capaci gradinate che, distribuendo ordinatamente la folla, gli diedero l’aspetto di un sacro anfiteatro. Una croce monumentale, di 25 metri di altezza, dominava dall’altare tutto lo spiazzo, facendone un immenso tempio. E fu questo tempio che offerse i più grandiosi spettacoli. Fedeli devoti lo gremirono a tutte le funzioni, rese più solenni dalla presenza dei Vescovi di Cuenca, Riobamba, Ibarra, Guayaquil e del nostro Vicario Apostolico di Méndez e Gualaquiza. Il programma musicale venne affidato alla nostra scuola di canto formata dagli studenti di filosofia, dai novizi e da un scelto numero di fanciulli; il servizio d’ordine, ai nostri giovani Esploratori. Ben rappresentate le nostre Missioni dai Kivaretti di Gualaquiza, che interpretarono con ammirabile maestria la musica del Perosi, suscitando nel pubblico le più dolci emozioni. Innumerevoli le confessioni nel « Campo Eucaristico», nel santuario di Maria Ausiliatrice e nelle parrocchie e chiese cittadine. Oltre centomila anime tennero occupati in quei giorni tutti i sacerdoti della Diocesi. Di Comunioni ne abbiamo distribuito oltre centocinquantamila: quarantacinquemila solo nel « Campo Eucaristico»!

La prima giornata del triduo fu particolarmente dedicata ai fanciulli: circa seimila ricevettero per la prima volta il Pane degli Angeli! Venti sacerdoti impiegarono più di un’ora a comunicare la massa. Alla chiusura intervenne l’Ecc.mo Nunzio Apostolico, Mons. Efrem Forni, accolto con delirio di entusiasmo all’ingresso della città, ed accompagnato processionalmente dal popolo al «Campo Eucaristico», ove l’attendevano i quindicimila Congressisti. Il ricevimento fu degno del Rappresentante del Papa. L’aria tutta risonava di evviva al Papa, al Nunzio, al Congresso, a Don Bosco.

Il 12 giugno, fu proprio l’apoteosi di Gesù Sacramentato! Messe e Comunioni dalle quattro del mattino fino a mezzogiorno. Al solenne pontificale celebrato dall’Ecc.mo Nunzio Apostolico nel «Campo Eucaristico» e alla Messa campale di mezzogiorno nell’« Avenida Solano » l’affluenza dei fedeli raggiunse proporzioni inaspettate. Ma come descrivere la processione finale che mosse dall’« Alameda » in un tripudio di gioia e d’amore?

Circa centomila persone assistettero alla grandiosa sfilata, al trionfo eucaristico del divino Prigioniero, che da qualche anno non poteva uscire dal suo carcere di amore, dal suo sacrario di confidenza, dal suo tabernacolo di benedizione! Dalla terrazza dell’Istituto « Cornelio Merchan » il Nunzio apostolico levò l’ostensorio a benedire quel mare di folla coll’Ostia santa!

E la folla, dopo aver offerto l’omaggio del cuore a Gesù Eucaristico volle ricambiare il Nunzio dell’onore recato al Congresso colla sua presenza, tributando al rappresentante del Papa due solenni manifestazioni in cui furono consacrate dai più nobili propositi le conclusioni delle varie sessioni sulla assistenza alla santa Messa, sulla Comunione frequente, sulla intensificazione della sacra predicazione e l’insegnamento della dottrina cattolica, sulla cura delle vocazioni sacerdotali e la formazione del Clero. Il Nunzio benedisse il promettente fervore incoraggiandolo colla sua paterna autorevole parola.

Ma io non posso finire senza richiamare l’attenzione sui nostri 135 Giovani Esploratori che prestarono servizio d’onore per tutta la durata del Congresso. Essi si attirarono l’ammirazione ed il plauso di tutti.

L’ultimo giorno del Congresso poi vollero coronare il loro primo anno di fondazione con la benedizione della bandiera del battaglione e di un gagliardetto che si degnò di impartire lo stesso Nunzio Apostolico dopo la Messa pontificale, alla presenza degli altri cinque Vescovi Equatoriani.

Il rito religioso fu seguito dal giuramento degli Esploratori alla bandiera nazionale e dal canto dell’Inno della Patria, mentre sfilavano al bacio del vessillo. Con simpatico gesto i cari giovani avevano spontaneamente sacrificato per parecchi giorni le loro piccole ghiottonerie per aver l’onore di provvedere a proprie spese le ostie necessarie alla Comunione di tante migliaia di persone che si sarebbero accostate al Banchetto Eucaristico nei giorni del Congresso. Un testimonio dei loro piccoli sacrifici asserisce che molti di quei ragazzetti (quasi tutti di condizione miserissima) non solo rinunciarono a caramelle, gelati, dolci, ma perfino al pane e al caffè e latte della colazione. La Commissione organizzatrice del Congresso, a conoscenza di questo bel gesto, propose una medaglia d’oro al merito al Battaglione «Esploratori D. Bosco» e la medaglia venne apposta alla bandiera del Battaglione dall’Avvocato Luigi Cordero Crespo Toral. Il giorno della chiusura, saltarono perfino il pranzo per partecipare alla processione. Che le pare, amato Padre ? Giovani così buoni, forti e generosi dànno le migliori garanzie dell’avvenire!

Li benedica in modo speciale insieme a noi tutti; e mi creda suo aff.mo in C. J.

Cuenca-Equatore, 16-V-1938.

Sac. PAOLO MONTALDO, Salesiano.

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Terza)

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La gran consegna.
Intanto la stanchezza si era impossessata delle mie membra, ed il sonno, rotto durante la notte da punte salienti, ci portò all’aurora del giorno seguente. Un cielo magnificamente stellato dapprima, seguito poi da una bellissima fascia rosea, con una soavissima aria balsamica della circostante foresta, mi condusse a far preparare l’altare all’aperto con lo sfoggio dei più bei tessuti provenienti dalle fabbriche milanesi. Tutti i selvaggi vollero mettersi in grande tenuta: le donne coi migliori ornamenti usati nei balli, il venerando Charupi con calzoni, camicia, gilè, giacca, e con un cappello da ciclista: il primogenito con un bellissimo elmo dei pompieri di Guayaquil, simile a quello dei corazzieri d’Italia, e tutti gli altri con corone, collari, schioppi. Non sapendo essi recitare la più semplice preghiera da soli, avevo dato una semplice consegna al capo di famiglia: – Chichachu (non parlare!) – non parlare, non ridere, non scherzare e stare attenti all’altare, perchè il buon Dio non avrebbe portato le sue benedizioni agli incauti trasgressori. Infatti il buon vecchio aveva disposto una ventina di selvaggi intorno al simpatico altarino. Toccato il campanello, tutti drizzarono gli occhioni curiosi sulle cerimonie sacerdotali, e non ebbi a lamentare neppure la minima sgarbatezza. Con lo strazio nel cuore terminai la S. Messa, pensando con mestizia che forse solo dopo qualche anno i Missionari avrebbero potuto ritornare a catechizzare una famiglia tanto ben disposta, e così generosamente e naturalmente cristiana. Fui largo di regali in aghi, specchi, polvere, munizioni da caccia, vestiti; e lasciai appesa all’albero della capanna un’immagine dell’Ausiliatrice, lasciandola regina della valle incantevole.

Saporitissime frutta.
Verso le 7 già eravamo in moto, coll’animo pieno delle più soavi emozioni e coll’ardente preghiera a Dio che salvasse tanta fede ingenua.
Il viaggio ci offrì dei panorami stupendi e ci mostrò delle meravigliose posizioni deserte, che potrebbero essere la sede felice di migliaia di famiglie d’emigranti. Il bel maggio di Maria ci offrì pure dei saporitissimi frutti silvestri, che formerebbero, se coltivati, la delizia di tanti mercati europei o americani. Una specie di tacsonia, rampicante altissimo, produce migliaia di pomelli, contenenti un succo di una soavità paradisiaca. Un’altra pianta, della famiglia delle rosacee, ricopre il durissimo tronco di frutta giallastre, profumatissime ed eccellenti. Un terzo albero gigantesco produce tonnellate di frutta grosse coane una mela, e di un prilibato sapor carneo come gelatina di pollo. La foresta poi non è avara di tanti altri frutti, che i selvaggi divorano con avidità.

Salvo per miracolo.
Passato il mezzogiorno, al margine di una discesa pericolosa la tranquilla marcia viene improvvisamente interrotta da un angoscioso grido d’allarme. Un selvaggio mi strappa bruscamente la lancia che portavo, e un altro mi si getta al piede destro per esaminare le scarpe rotte. Uno dei più velenosi serpenti delle nostre missioni, calpestato inavvertitamente, mi aveva conficcato i terribili denti a un millimetro dalla viva carne. Ucciso il serpentello che non raggiunge i 20 cm. di chiazze bianco-nere, con una testa schiacciata, larga, a punta triangolare, tutti i selvaggi mi furono addosso gridando come ossessi e predicando con le parole più ampollose il gravissimo pericolo che io avevo corso. In tutte le escursioni i selvaggi vogliono sempre che io li preceda, ed incamminai la marcia per evitare qualsiasi sorpresa! Questa volta, poi, che la Vergine Ausiliatrice aveva operata una grazia così strepitosa, potei osservare una gratitudine che giammai avevo visto tra i miei carissimi Kibaros. Il più alto e robusto di tutti mi saltò al collo piangendo e, abbracciandomi come un bambino, mi diceva:
– Ah! Padre, tu non sai che veleno potente ha la piccola vipera testè uccisa! Se ti avesse morsicato, a quest’ora ti uscirebbe il sangue dalle narici, dalla bocca, dagli occhi, dalle braccia, dal petto; già la tua carne sarebbe gonfiata come quella del tapiro, e saresti per terra gridando come un porco morente, per poi spirare subito. E che ti avremmo potuto fare noi altri? Forse la foresta produce il rimedio contro tale serpente? Forse un Kibaro si salva? Ah! Padre, il tuo Dio ti aiuti! Se l’avessi pestato io, credi tu che ora sarei ancora vivo? No, sarei in una pozza di sangue!
Ringraziato Iddio del gravissimo pericolo scampato, ripresi il viaggio, commosso innanzi a protezione così maternamente soave e non potei fare a meno di trattenermi per alcuni minuti nella meditazione delle profetiche parole rivolte al Messia ed ai continuatori della sua opera redentrice: « Camminerai sopra gli aspidi ed i basilischi, e non ti toccheranno ». Mentre io recitavo il Santo Rosario, i selvaggi non cessavano di commentare con sempre nuovi argomenti il prodigio avvenuto, e la conclusione era sempre la stessa:
– Se io fossi stato al posto del Padre, forse che il serpe non mi avrebbe avvelenato? E come per questi sentieri difficili mi avrebbero trasportato alla casa paterna, e dove avrebbero trovato il rimedio infallibile?

Improvviso assalto.
Verso le tre del pomeriggio un altro allarme improvviso ci getta nel furore di una mischia sanguinosa. Emettendo urla furibonde, tutti e quattro si mettono a sparare come matti nella foresta.
– Inemici di Tzarabiza! i nemici di Tzarabiza! – era la voce comune.
Mi gettai io pure a terra mirando nella direzione degli spari, e, non scorgendo nulla, li stavo pacificando e riducendo a più miti consigli.
– Tu non sai nulla, Padre, per questo ridi! Sappi però che sono molti giorni che stanno vagando per queste foreste per ammazzarci. Tu non hai la vista buona, perciò non li hai visti: ora sono già nel profondo della valle. Se non ti fossi trovato tu in nostra compagnia, ci avrebbero assaliti e massacrati qui sui posto.
Per evitare disgrazie e non riuscendo a pacificarli mi ero cacciato dentro un grosso tronco di albero vuoto. Quando terminarono gli spari e li vidi tranquilli, uscii dal rifugio e riprendemmo il viaggio. Il mio cuore però non era tranquillo, e con tristezza pensavo alle terribili lotte intestine, che creano odii secolari tra famiglie e impediscono assolutamente la formazione del più minuscolo popolo cristiano. Il Kibaro negli assalti è una vera belva feroce e mostra nella lotta i più crudeli istinti che mai si possano immaginare.

Trionfale accoglienza.
Intanto il sole era tramontato ed una salita ripidissima ci conduceva alla casa del Kibaro Kukúx. La visita era stata preannunziata, ed ebbi così la fortuna di vedere una cinquantina di selvaggi venuti dalle parti più lontane. Questa volta, pigliando la scusa che stavo male, dissi subito al capo di famiglia che non potevo assolutamente bere la ciccia, però che avvisasse le sue donne che mi facessero cuocere una bella pentola di banane e di zucca e di patate americane, ché le avrei pagate molto bene. Radunai subito i bambini per far loro un po’ di catechismo, e diedi ordine ai Kibaros di preparare un bellissimo altare, perchè avremmo pregato molto il Signore ed avremmo celebrata la Santa Messa come un grandissimo regalo. Come segno di festa speciale il Kukúx fece subito ammazzare un bel porco; e, quasi commosso, mi si accostò mostrandomi una splendida collana fatta con denti di tigre.,
– Vedi, Padre, avrei fatto ammazzare un porco più grosso, ma me lo uccise nella foresta il tigre, e non solo uno, ma venti in un anno. Ma però il bestione è caduto nelle mie mani stesse e questi denti sì grossi dimostrano il mio coraggio e polso sicuro. Se pregherai Iddio affinchè nessun altro tigre mi molesti, quando questi porcellini saranno grossi, te ne regalerò uno.
Mentre i selvaggi si gettavano con brutalità sulla vittima, io feci ammazzare una gallina e la feci cucinare sotto i miei occhi affinchè la carne servisse per il giorno seguente. Non meravigli questa misura: il furto tra i selvaggi non è proibito da nessuna legge, e se voi date ad una donna una gallina da cucinare con tutta tranquillità, è capace di presentarvi un po’ di brodo, un pezzettino di carne ed il resto di trangugiarselo tranquillamente nell’oscurità della notte. Per togliere però la cattiva impressione suscitata dagli stimoli palatali non soddifatti, feci preparare un pentolone di una bevanda squisitissima: guayusa con zucchero; e dopo il catechismo ne distribuii a tutti fino alla sazietà, rifiutando con una scusa qualunque di mangiare il loro porco. La notte passò tranquilla per quanto difficilmente si potesse riposare con tanta gente. Il pensiero che più mi preoccupava era come avrei potuto tenere in silenzio tanti marmocchi nell’assistere alla Santa Messa senza assolutamente un pezzo di tela per coprirli.

Angeliche statue viventi.
Ai Missionari vengono delle idee luminose e pensai di fare una bella corona di angioletti intorno all’altare: quattro innanzi con mozziconi di candele, tre ai lati con le boccettine del vino e dell’acqua e con il manutergio, un altro con il campanello e altri due con le carte-glorie; e questo con l’aria del più assoluto mistero, solo con gesti, affine di impressionarli dell’altissimo incarico che avevo loro affidato. Effettivamente questi rapacchiotti si diportarono bene, senza una parola, senza un sorriso, come se fossero dei veri angioletti di marmo. Era la vigilia della festa dell’Ausiliatrice, il 23 di maggio, e può quindi immaginare, amatissimo Padre, con che tenerezza parlai loro dell’Augustissima Regina, che il giorno prima ci aveva salvato da morte!

Veglia notturna.
Verso le otto ci mettemmo in viaggio, malgrado una pioggia dirotta, continua. Fu un giorno orribile. Tutti i fiumi erano cresciuti e le vesti in uno stato così compassionevole per le continue cadute nel fango, che per ben dieci volte fui costretto a gettarmi in piena corrente, aiutato dai selvaggi, con l’acqua fino alla gola. È facile immaginare in che stato arrivai all’ultima colonia cristiana: le vesti, le scarpe non si riconoscevano più. Quando mi videro arrivare, alcuni coloni si misero a piangere di compassione. Dopo mezz’ora però, cambiate bene le vesti e riscaldatomi ad una benefica fiamma ristoratrice, già stavo disposto al lavoro apostolico. La cappella non era stata ancora incominciata per la malattia del falegname ed anche questa volta il portico, cattedrale-pollaio, ci servì magnificamente per celebrare la solennità dell’Ausiliatrice. Tutti i coloni erano venuti con magnifici mazzi di fiori, con splendide palme intrecciato con disegni i più svariati. La letizia dell’Ausiliatrice era in tutti i cuori, e la umile immagine dell’Eccelsa Patrona la ponemmo sopra un trono trionfale di gloria. Recitato il Santo Rosario, incominciai a confessare la trentina di persone presenti, arrivando fin quasi alla mezzanotte, l’ora nostalgica della veglia notturna nel Santuario di Torino. Mi unii in ispirito ai Superiori, agli amici lontani, sicuro che l’umile omaggio dei trenta coloni e dieci Kibaros presenti non sarebbe stato meno accetto alla nostra cara Madonna. Alle 4 del mattino celebrai la S. Messa, distribuii la S. Comunione, ed infine la benedizione d’addio con l’umile Crocifisso.

Preghiera selvaggia.
Il viaggio di ritorno fu un vero martirio, data la stanchezza dei giorni precedenti, ma arrivai per tempo per celebrare alla domenica, 25, la festa solenne nella sede d’Indanza. Fuochi, luminarie, spari, musica riuscirono a renderla più sonora, ma ciò che avrà fatto più impressione nei selvaggi presenti sarà stato certamente la gran caldaia di riso e maiale fatta preparare da Don Plà. Avesse visto, amato Padre, con che avidità con cucchiai di legno si gettarono sulla saporita vivanda ridendo, sghignazzando ed assaporando nel modo il più trivialmente goloso la montagna di riso! Qualche barlume di fede, però, rifulse in mezzo a tanto materialismo. Durante la mia Messa Don Giulio aveva insistentemente detto ai Kibaros che qualunque grazia avessero chiamato durante il giorno l’Ausiliatrice l’avrebbe concessa, insistendo sopratutto sulle grazie spirituali. Terminata la S. Messa e vuotata la chiesa, mentre io stavo facendo il ringraziamento nella sacrestia, un Kibaro del lontano Pongo, superbamente ornato, con la lancia si piantò innanzi la statua della Vergine ed incominciò la sua preghiera:
– Nangui huagueraje, Tzurusta; cuciru huagueraje, tzurusta; pusciru thuagueraje, tzurusta: (Voglio una lancia, dàmmela; voglio un coltello, dàmmelo; voglio un panciotto, dèmmelo). Aspettò un poco e poi ripeté nuovamente la domanda con più forza; quindi uscì di chiesa disperato dicendo ai suoi compagni che il Padre della predica era bugiardo, che non era vero che la statua dell’Ausiliatrice dava tutto ciò che si chiamava. Testimone della scena, benché nascostamente, chiamai in segreto il Kibaro e gli dissi che bisognava prima chiamar la grazia di star buono, di non ammazzare, di non tener tante mogli, di andar in Paradiso. E per fargli però vedere come l’Ausiliatrice aveva premiato la sua preghiera, gli regalai proprio la lancia, il coltello ed il gilè. Il selvaggio era fuor di sé dalla gioia, e chissà questa grazia materiale ottenuta non gli valga il conseguimento di qualche grazia spirituale.

Assalito da un orso.
Il 27 maggio già avevo preparato, lavorando notte e giorno, le casse di materiali etnografici e scientifici per l’esposizione di Roma e mi preparavo ad uscire dalla foresta. I miei peones però si erano ubbriacati: può quindi immaginare che difficoltà nel viaggio e con che tormento ho dovuto io stesso guidare le bestie sopratutto nei punti pericolosi. La notte ci sorprese nella foresta; la carne comprata per il viaggio era già nauseante. Per buona fortuna alla mattina seguente, dopo una dormita rumorosa, i miei uomini avevano ripresa la conoscenza. Celebrata, quindi, la Santa Messa e armatomi di un bastone, tentai i 5o Km. che mi separavano da Gualaceo, per poter celebrare tranquillamente in paese cristiano la solennità dell’Ascensione e far un po’ di bene. Solo, nella foresta più barbara e priva assolutamente di esseri umani, parve un’imprudenza l’avventurato viaggio. Infatti, dopo due ore, un orso nero attraversa la, strada e si ferma, mirandomi a pochi metri, con occhio sinistro. Mi fermai io pure e, conscio del pericolo, invocai l’aiuto dell’Ausiliatrice, e sull’istante vedo comparire un ferocissimo cane, il quale, abbaiando ferocemente, si slancia contro l’orso e lo costringe ad internarsi nella foresta, inseguendolo per alcuni minuti. Fra i due litiganti il terzo gode, e, senza perder tanto tempo, continuai felice il mio cammino fino alla faticosissima cima di 3500 metri che culmina nel freddo parano. Il cane mi raggiunse ben presto e con lui divisi il pezzetto di pane secco, che mi era rimasto per il pranzo. I 20 Km. di ascesa più difficile erano terminati, ed incominciavano i 3o di discesa. Mi slanciai, quindi, a rotta di collo per la difficile via.Verso le 4, arrivando al primo casolare cristiano, tre furiosissimi cani, poco cristiani, mi assaltarono così barbaramente, che già mi avevano stracciata la veste e chissà che cosa mi avrebbero fatto, malgrado mi difendessi coraggiosamente con il bastone. A buon punto venne il mio cagnolino che era rimasto indietro, ed ingaggiando coi barbari mastini una lotta vivace, morsicando di santa ragione, li vinse tutti e tre, mentre io, già da lontano, contemplavo l’originalissima vittoria, benedicendo Iddio per un aiuto tanto insperato. A due ore da Gualaceo, le scarpe non avevano più suola, le tenebre rendevano invisibile il sentiero accidentato e questa volta il buon felino si mise dinanzi per mostrarmi la strada più propizia. Verso le 9 del mattino arrivai alla parrocchia di Gualaceo, senza scarpe, senza calze e con le vesti stracciate. Il buon Parroco mi accolse come un vero fratello, dandomi tutte le comodità per ristorarmi. Al mio fedelissimo cane volli dare una cena sontuosa, degna delle eroiche gesta del giorno. Quando mi ritirai nella stanza per dormire, mi volle a tutti i costi seguire e si accoccolò presso il letto. Alla prima aurora mi svegliai: era scomparso e non lo vidi più. Più tardi seppi che era ritornato alla foresta, in un’azienda vicino alla Missione. Per conto mio posso assicurare che il suo intervento e la sua guida furono così propizi che mi liberarono certamente da gravissimi guai, ed in lui riconobbi uno strumento della Divina Provvidenza per salvarmi.
Il giorno dell’Ascensione ed i due seguenti. riposai un poco dalle penose escursioni attendendo al ministero delle confessioni, ed al 31 maggio raggiungevo, a piedi, la casa centrale delle Missioni in Cuenca a dar ragione del mio operato all’Ecc.mo Mons. Comin.
Amatissimo Padre, da questa relazione che tocca solo alcuni degli episodi occorsi durante l’escursione, facilmente comprenderà come lo Missione dei Kibaros ha bisogno di un aiuto specialissimo di preghiere e di materiali per svolgersi. Sono tali e tante le difficoltà che si oppongono al trionfo della grazia, che solo spiriti forti e zelanti fino all’eroismo potranno cantare la vittoria nel lavoro apostolico. La Vergine Ausiliatrice prepari tali Missionari!

Prof. D. CARLO CRESPI.

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Seconda)

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Brutalità selvaggia.
Al mattino, presto, si riunirono tutti i Kibaros dei dintorni per la S. Messa. Un kibaro però della valle di Tzararabiza non partecipò, e quindi credei opportuno andarlo a trovare a casa sua. Mentre Don Plà s’intratteneva coi kibaretti del luogo, m’internai nella foresta, malgrado il tempo sempre piovoso ed i sentieri orribilmente sdrucciolevoli.
Dopo tre ore di marcia dolorosissima, arrivai alla kibaria prefissa, di Gioachino Ramón. E, questo uno dei kibari di Gualaquiza, superbo, feroce, cercato a morte nell’antica Missione. Mi accolse però cortesemente ad un mio desiderio radunò i 13 figli e figlie per un po’ di catechismo, almeno per imparare il segno della Santa Croce.
Dopo mezz’ora i vispi marmocchietti erano stanchi. Regalai a tutti degli aghi grossi da sacco, assai graditi, ed alle donne uno specchio. Li invitai, quindi, a posare innanzi alla macchina fotografica.
– Non voglio io, e neppure mia moglie – mi rispose seccamente; – i ragazzi però sì che poseranno volentieri.
Intanto la pioggia era cessata, e, usciti nel magnifico orto, indicai il luogo ove avrei desiderato che si mettessero prima i fanciulli e di poi le fanciulle. Coi ragazzi ce la passammo facilmente; le bambine si trovarono un po’ impacciate e non volevano uscir di casa. Senza tanti complimenti il barbaro, ripetute alcune parole come colpi di martello, afferrò per l’abbondante capigliatura le tenere creaturine e le trasportò, come fossero quattro pannocchie di granturco, al posto indicato, innalzandole da terra un mezzo metro.

All’atto inumano rabbrividii, ed avrei voluto reagire con una filippica; ma, appena accennai di parlare, mi troncò la parola:
– Tu non sei kibaro, tu non sai niente! I kibari fanno così! Piglia subito la fotografia, ché le bambine sono pronte.

La serpe avvelenatrice X, (echis).
Presa la fotografia ed invitati i ragazzi, di una bontà eccezionale, a passare alla Missione, m’indirizzai all’azienda del Tappia, ove verso notte giungevo con Don Plà. I coloni erano già stati avvisati alcuni giorni prima, e felicissimi si radunarono tutti per accogliere le grazia di Dio. Terminato il rosario e la predica, si confessarono colla massima divozione e, alloggiati alla bell’e meglio, passammo la notte. Al mattino, nella miserabile capanna di due piani celebrammo la S. Messa.
Tre giorni prima il giovanetto custode, tagliando le canne da zucchero, aveva ucciso un serpentaccio velenosissimo, chiamato echis, « X », dal disegno a forma di X, che porta sulla testa. L’avevo pregato di estrarre la pelle con la massima diligenza, e per porla a seccare l’aveva appesa alla bassissima soffitta della catapecchia.
La mattina seguente, all’aurora, nel miserabile tugurio si celebra la S. Messa e può immaginare, amatissimo Padre, l’impressione profonda, da me provata, quando alzando all’adorazione dei fedeli il Re del Ciel.., l’Ostia Santa, … il Santo Echis della Redenzione si incontrò coll’emblema del serpente infernale, coll’echis appeso all’umilissima soffitta sopra la mia testa con la bocca aperta in atto minaccioso. I due emblemi opposti, l’eterno nemico dei kibaros ed il mansueto Agnello della Redenzione!…
Un freddo gelido m’invase tutte le membra, ed inalzando il Sacro Calice del Sangue preziosissimo di Cristo, mentre due piccoli selvaggetti con profonda divozione s’inchinavano ad adorare, oh sì che, senza interrompere la soave liturgia delle parole liturgiche, non potei fare a meno d’invocare dalla potente Ausiliatrice la morte di tutti i serpenti demoniaci, che col loro mortifero veleno rendono impossibili i generosi sforzi degli operai dì Cristo. Terminate le due messe, impartiti gli ultimi ricordi, ci mettemmo in viaggio per giungere all’ultima azienda detta di Peña Blanca. Attraversammo la bella valle percorsa dal fiume S. Antonio, arricchendo la collezione botanica di alcune specie di felci singolarissime, assolutamente mai viste in tutto l’Oriente.

Consolazioni apostoliche.
Verso sera arrivammo al colossale macigno bianco di trachite, che s’innalza in mezzo alla valle verdeggiante: i fianchi scoscesi impediscono lo sviluppo di piante: per questo fu battezzata « pietra bianca » tutta la località. Qui, avendo avuta la fortuna di incontrare dei falegnami, che stavano tagliando assi alla foresta, in poco tempo si potè fabbricare ex novo una bella cappelletta con un divoto altare. Purtroppo, i coloni che vengono all’Oriente, non sono stabili, alcuni sono vagabondi, cercati dalla Polizia; non rechi quindi meraviglia che Dio ricompensi le incredibili fatiche missionarie con conversioni di Indios, che da 20, 30 anni non s’erano riconciliati col sacerdote. Terminate le messe, un giovinotto mi condusse nella foresta ai piedi di un albero gigantesco e: – Qui sotto ci sta il fratello di mio padre – mi disse – preghi per il riposo eterno dell’anima sua. Invano, dopo una fervorosa preghiera, potei tentare di strappargli il segreto della morte.
– È un orribile fatto di sangue; mi disse il giovane; e piangeva, e non potei sapere altro.
Intanto la nostra escursione ai cristiani del distretto di Indanza era terminata. In 15 giorni, a marcie forzate, sopportando disagi e pericoli non lievi potemmo riconciliare a Dio una cinquantina di cristiani! Frutto miserabile, impari ai sacrifici lo giudicherebbe un osservatore superficiale! Che importa? È la pecorella smarrita che Dio ci ha imposto di cercare e la cercammo nel folto della foresta, lacerandoci le vesti, insanguinandoci le membra, felici di spargere qualche goccia di sangue per la sublime causa di Cristo!

Le vie del Signore.
Non tutto il male però viene per nuocere; le piogge continuarono con tal violenza, che assolutamente mi sarebbe stato impossibile il ritorno ed avrei dovuto rimanere senza celerare la S. Messa per mancanza di vino. Risalendo il sentiero della Missione mi colpì il suono del tunduli, tronco di legno incavato che i Kibaros usano per dare i segnali e che si ode sino a 25 chilometri di distanza. Il suono monotono annunciava la presa del Natema; la mia visita quindi alle loro case sarebbe stata inutile, anzi pericolosa perchè in detta occasione si abbandonano alla più volgare ubriachezza. Passati, quindi, alcuni giorni con alcuni Kibaretti della casa nell’esplorazione delle foreste circostanti, in cerca sopratutto di legnami preziosi e di erbe médicinali, assoldati peones e guide meno timide, mi slanciai per la valle del Junganza, Chupianza, affluenti del Namangora.

Commovente incontro.
La prima notte .la passammo ancora tra i pochi coloni stabiliti alle origini del fiume tra le feste e la gioia più pura, preparando i loro animi alla divozione all’Ausiliatrice, la cui festa avremmo celebrata insieme, come ringraziamento, dopo l’escursione difficile alle Kibarie. La mattina seguente, detta la S. Messa di buon ora, accompagnato da due robusti Kibaros, arrivammo alla Kibaria del Charupi. Malgrado il tempo, perfido e piovoso, il venerando selvaggio si dimostrò di un’ospitalità veramente eccezionale.
– I Padri – diceva ai suoi figli – li manda Iddio. Essi sono come gli stregoni; gli stregoni però tengono nelle loro mani tutte le malattie, tutti i malefizi per gettarli sui poveri Kibaros e farli morire, mentre i Padri tengono tutte le benedizioni di Dio Quando essi vogliono, le malattie scappano; quando il tigre minaccia i porci, essi lo fanno fuggire; quando gli orti sono aridi, essi fanno nascere radici di mandioca grossissima; quando noi andiamo alla caccia, essi ci fanno incontrare molti porci selvatici. E rivolgendosi a me: – Per questo, Padre, io ho dichiarato guerra a tutti gli stregoni, e voglio molto, ma molto bene ai Missionari! Vedi quante bellissime terre! Se vieni qua tu, te le regalo tutte. Ti faccio una bella casa, le mie donne ti regaleranno molta ciccia, e tu insegnerai ai miei figli a conoscere la moneta, a leggere, a scrivere.

Troppa grazia Sant’Antonio!
Mentre continuava la sua fervida arringa, le donne felicissime si apprestavano a porgermi la ciccia, frutto delle loro ributtanti masticazioni. Infatti si presenta la più anziana e mi offre una tazza che poteva contenere 5 litri del bianco e saporito rinfresco. La stanchezza grande e la sete orribile mi fecero rompere il riserbo, che generalmente tengo nell’accettare una bevanda tanto discussa, perché tanto masticata, e feci un largo vuoto nell’ampia tazza. Non l’avessi mai fatto: dopo la prima donna si presenta la seconda con una tazza ancor più grande, quindi una terza ed una quarta. E qual fu la mia sorpresa, quando, terminata la prima processione, ne incomincia un’altra con tazze ancor più ampie e ripiene di un’altra ciccia fatta colle frutta della palma « chonta », ciccia assai più saporita, ma carica di alcool. Allora mi feci coraggio e dissi al Charupi:
– Io sono contento e mi congratulo con te che tieni cuciniere una più valente dell’altra, e le voglio premiare con un bello specchio.
All’idea dello specchio a malincuore deposero le tazze: ed io mi ero liberato dal pericolo inevitabile di un’ubbriacatura.

I Padri pregano colle mani!
Intanto diedi subito ordine di preparare un bell’altarino per le preghiere della notte e per esporre una bella immagine dell’Ausiliatrice per attirarli ad un culto, sia pur rudimentale della dolcissima Madre. Mentre alcuni si erano sparsi nella foresta per scegliere i più bei fiori, approfittai per cambiare le lastre della mia macchina fotografica. Raccolto in un angolo della capanna, e coperte le mani e le braccia colla veste e con alcuni indumenti, con la massima circospezione lavoravo per caricare i chassis. Appena il venerando Charupi mi vide in posizione, impose il più rigoroso silenzio alle donne ed ai fanciulli.
– Silenzio, io lo so, sono vecchio: il Padre sta conversando con il suo Dio, sta pregando perchè i nostri porci ingrassino! Non bisogna disturbarlo.
– No, gli risposi io, possono parlare: sto lavorando colla macchina.
– Forse che sono un ragazzo? – mi rispose seccato. Non preghi tu forse colle mani nascoste sotto la veste?
E quando udiva il rumore dei vetri che si battevano uno contro l’altro diceva:
– Ecco come prega il Padre!
Qualunque spiegazione fu inutile: avrei dovuto sprecare delle ore per persuaderlo che si può pregare anche così, ma che lavoravo colla macchina:
– No, no: io lo so; io sono vecchio; voialtri, Padri, pregate molto, e non volete farlo sapere, per questo nascondete le mani.
Intanto l’altarino stava pronto, ma stava pronta anche la loro cena. Parlare di religione ai Kibaros prima di mangiare, è come gettare un pezzo di carne ad un cane e pretendere che non lo divori.

Innanzi all’Ausiliatrice.
Quando i miei merlotti furono ben pasciuti e ben bevuti e le donne pure avevano terminata la fabbricazione della ciccia, furono accese le candele dell’altarino, ed, intorno ad esso come cagnolini si accovacciarono i poveri figli delle tenebre. Il primo catechismo nelle foreste ad una ventina di persone di tutte le età, di tutti i sessi, in una lingua non ancora scritta, rappresenta un arduo problema. Estrassi dal petto il Crocifisso che Lei stesso mi aveva dato ai piedi dell’Ausiliatrice di Torino, e con le lagrime agli occhi narrai l’orribile storia di sangue di quell’emblema. Ad ognuno di essi faceva toccare i chiodi con cui l’avevano ammazzato i ladroni.
Immagini Lei, amatissimo Padre, che difficoltà insuperabili molte volte si provano nel far penetrare le più semplici narrazioni bibliche od evangeliche. Qualche cosa, però, avevano compreso della spiegazione, e quando appesi all’altare il Crocifisso e li invitai a pregare con la massima devozione, tutti senza alcuna eccezione, mirando il Dio della Croce, si misero a ripetere quelle poche invocazioni che la Fede mi suggeriva.

Il segno della Croce.
L’insegnare il segno della Croce è qualche cosa di arduo. I Kibaros, così furbi e scaltri quando si tratta di ammazzare uomini e salvaggina, quando si tratta di religione si mostrano di una rudezza che pare impossibile. Coi bambini si conchiude qualche cosa: colle donne e con gli adulti poco più di nulla. Il Missionario fa il segno della croce, dieci, venti volte: lo fa ripetere ai catecumeni, ma le donne incominciano a ridere, gli uomini a parlar forte; uno lo fa colla destra, l’altro lo fa colla sinistra, uno incomincia dalle spalle, l’altro dal petto„ e molte volte si passano tre, quattro ore senza. neppur avere la soddisfazione di aver insegnato il più elementare atto di culto esterno. S’immagini poi Lei, amatissimo Padre, che cosa rimarrà di questa faticosissima Missione, quando il Missionario, ben difficilmente potrà passare e rinfrescarla prima di un anno! La grazia di Dio, però, ha operato qualche cosa; spente le candele dell’altare, nell’oscurità della notte, al lume roseo di brage ardenti, ai piedi dei singoli letti, nella penombra si vedevano dei fanciulletti che insegnavano alle loro madri il segno della Croce, commentando magari con larghe risate le parole del Padre dette al Catechismo.
Non c’è da offendersi: il Kibaro ride sempre di tutto e di tutti, sopratutto quando ha la pancia piena.

……………..

( Il seguito della lettera continua in “Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Terza)

 

CONTINUA PARTE TERZA >>

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Cento giorni di escursioni nella valle dell’Ulano – anno 1927 – Dal Bollettino Salesiano n. 2 e 5 del 1928)

Rev.mo Sig. Don Rinaldi,

Malgrado la tormentosa vita di movimento che mi impedisce il più delle volte di raccogliere le più fugaci impressioni di propaganda benefica, eccomi a continuare la narrazione di alcuni episodi più salienti dei miei viaggi missionari nella folta foresta amazzonica. Queste pagine riassumono una delle più proficue e più pericolose escursioni fatte nel paese dei Kivari.

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Vulcano Chimborazo (mt. 6.310 s.l.m.)
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Altra foto del Chimborazo che si erge sul paesaggio circostante

Tra le dune del Chimborazo.
Il viaggio lo iniziai il marzo scorso dalla capitale della repubblica, Quito, ove con diversi colloqui col Presidente della Repubblica e coi suoi ministri, era riuscito a far conoscere l’importanza della nostra azione missionaria ed a far accettare e sostenere un forte programma di civilizzazione.
Il primo giorno in treno fino a Riobamba fu uno dei più deliziosi. In un bel cielo primaverile, un sole    equatoriale illuminava lo splendido altipiano andino circondato nelle alte cime dai vulcani « Cotopasci, Cungurahua, Altar, Chimborazo » e nelle insenature delle valli da fertilissimi ripiani a prato, granoturco, erba medica ed alberi fruttiferi; Mackacki, Latacunga, Ambato passarono innanzi ai miei occhi più festevoli, più ricchi, più belli che mai nello splendore delle loro fertili pianure e nei pittoreschi costumi dei loro abitanti. Arrivati a Riobamba la notizia di una catastrofe: una colossale inondazione del fiume Ckanckar ha interrotta completamente la linea ferroviaria: centinaia di metri di rotaie asportati completamente, solidi ponti caduti, frane pericolosissime ovunque minacciavano la vita; alcuni milioni di danno, sei mesi di riparazione.
Consultai subito la carta geografica, alcune guide pratiche, la resistenza dei miei muscoli motori ed il giorno seguente con una fedele guida armato di un bastone ero sulla via di Palmira: settanta kilometri a piedi in un giorno era l’itinerario prescritto: la prima tappa a S. Luigi, la seconda a Guamote, la terza a Palmira. In tre ore vincemmo l’alta cordigliera, ci portammo quasi ai quattro mila metri, e ci gettammo a marcia forzata nella direzione di Guamote. Era la santa settimana di Passione. Forti masse di indii attraversavano la nostra via e si gettavano ai miei piedi domandando la santa benedizione, e sopratutto insistendo li preparassi alla Pasqua. Loro dissi che mi accompagnassero alla chiesa e difatti contenti e trionfanti mi guidarono alla chiesetta ove potei incontrare un venerando sacerdote parroco tutto intento nel sacro Ministero. La mia presenza non era urgente: rivolsi alcune parole cristiane, spiegai la necessità che avevo di raggiungere il campo di apostolato affidatomi dal Signore e con un forte strappo al cuore benedicendoli li lasciai. Molti piangevano: molti mi pigliavano per le mani baciandole tenerissimamente, volevano a tutti i costi impedirmi il passo: promisi che un’altra volta sarei andato a visitarli. Il sole di mezzogiorno ci raggiunse in Guamote dopo 6 ore di marcia forzata. Preso un boccone ci gettammo per la via di Palmira nel deserto Paramo. La stanchezza ormai si era impossessata delle nostre gambe e ci aspettavano ancora ore tristi e di gran dolore.
Il Chimborazo avvolto in un manto grigio e misterioso minacciosamente ci flagellava coi suoi venti innalzando nugoli di polvere, provocando nel triste deserto molini pericolosi di sabbia mobile: a un’ora da Guamote la terribile regione delle dune nell’ora, la più tragica, del tramonto.
Non sto a descriverle l’orribile passione: le gambe sprofondavano fino al ginocchio nella sabbia, un vento freddo, contrario ci lanciava nella bocca, nel naso, negli occhi una terribile polvere acceccatrice: più mi sforzavo di tenere il sentiero della ferrovia e più il vento mi spostava ove la sabbia era più alta, più profonda. L’indio che mi accompagnava, col fardello dei viveri malgrado non fosse la prima volta che fosse sorpreso dalla tormenta di sabbia, si dimostrava vinto, accasciato, addoloratissimo dei miei dolori. Finalmente dopo tre ore di orribile deserto sabbioso senza incontrare anima viva, si proiettò nel lontano orizzonte una macchia di Eucaliptus ed un piccolo campanile della chiesa. La meta sembrava vicina: un’altra ora di lotte inenarrabili e ci trovammo a bussare alla porta del parroco il quale ci accolse con una paternità veramente francescana offrendoci subito quanto di meglio aveva.

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Foto satellitare del villaggio di Achupalla
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Achupalla si intravvede sullo sfondo

Nell’oscurità della notte.
Passammo quindi alla chiesa freddissima: durante il S. Rosario ebbi un principio di svenimento per l’orribile stanchezza: potei uscire sul sagrato e caddi a terra non visto da nessuno e sdraiato, quasi fuori dei sensi rimasi per circa mezz’ora. Quando rinvenni già suonava la campana della S. Benedizione: provai ad alzarmi per ricevere i carismi di Gesù Eucaristico. Il malore mi era passato: ero sano, sveglio, fresco, disposto a continuare la marcia. La notte la passai insonne agitatissimo per lo sforzo fatto nel superare la regione delle dune. Al mattino alle cinque ero in chiesa per celebrare la S. Messa ed attendere a decine di fedeli desiderosi di compiere il precetto pasquale. Alle 9 già ero sulla via di Achupalla attraverso l’altissima cordigliera che si appoggia al nodo del Azuay. Non una casa, non un albero: tutta una regione altissima deserta, percorsa da acque freschissime e da centinaia di armenti di pecore bianchissime i cui guardiani durante la notte si riparano in grotte e caverne. Verso sera dopo aver passato dei torrenti pericolosi e dopo essere stato flagellato dalle acque di un furioso temporale toccava Achupalla, un ridente paesello a circa 3000 metri sul livello del mare sull’antica via degli Incas.
Il parroco mi si mostrò di una gentilezza senza paragone; voleva a tutti i costi che mi fermassi alcun tempo per dettare gli esercizi al suo popolo: il giorno seguente volevo continuare il viaggio, ma un †empo orribile con neve ci sconsigliò assolutamente di avventurarci all’ascesa del Azuay. Riposai tutta la giornata attendendo fino alla tarda notte al ministero della confessione.

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Lago di Culebrilla

Tra i turbini del Azuay.
Al mattino seguente dopo una numerosa comunione, già mi trovavo sulla via del Tambo. Appena usciti da Achupalla un paesaggio fantastico: una via incassata tra due rupi altissime e colossali gran fortezza naturale ove diverse volte ai tempi preistorici americani le uniche armi del combatimento furono macigni rovesciati sul nemico che tentava forzare il passo. Verso le dieci mi sentiva mancare il respiro e l’ascesa a piedi farsi difficilissima: la mia guida si era fermata indietro: senza accorgermi ero arrivato sull’altissima cima del Azuay che raggiunge quasi i cinque mila metri. Soffocato quasi dalla mancanza di respirazione mi sedetti aspettando il cavallo, ed a cavallo mi avventurai alla terribile traversata che ha costato già tante vittime. Era già passato il mezzogiorno l’ora propizia per un facile passo: una tormenta spaventosa con nevischio, tuoni, lampi, e raffiche di vento ci avvolse completamente. Il sentiero sull’orlo di una voragine spaventosa era scomparso. Ogni passo della mula mi sembrava che fosse un passo verso l’abisso, ogni lampo un fulmine che mi incenerisse: la situazione era tragica e compassionevole. Nel mio cuore offriva la vita al Signore, in olocausto, per la conversione dei Kivari: o Signore diceva, se devo proprio morire qui su questa terribile altura lontano dalla patria, dei miei superiori, dai miei parenti, dai miei carissimi Kivari, ed essere pasto del condor vorace, sia fatta la tua volontà. Dopo un’ora circa di traversata orribile, sulla cresta del Paramo, grazie alla protezione del cielo ed all’abilità della mula paziente abbandonammo la pericolosa cima ed incominciammo la discesa in una stretta mulattiera a precipizio, sassosa, però riparata dai venti, ogni tanto mi voltava indietro ad osservare la cima della morte, e nel mio cuore rinnovavo il santo proposito di non avventurarmi giammai a simili passi se non in epoca meno pericolosa. Verso le tre eravamo al lago di Culebrilla che raccoglie la acque delle alte cime. Dopo Culebrilla il cammino era scomparso, una fitta nebbia ci avvolse, colle povere bestie andavamo a casaccio nella direzione Sud: per buona fortuna la deviazione non fu pericolosa e quando verso le cinque gli ultimi bagliori del sole illuminavano l’arida zona del Paramo, ci si proiettò in lontananza la bella conca del Tambo. Alle 8 mettevamo già piede nella chiesetta a ringraziare il Signore dello scampato pericolo, ed al giorno seguente già era a Cuenca nella casa centrale delle missioni ad organizzare il viaggio per le foreste amazzoniche. I preparativi durarono quasi una settimana dovendo la progettata escursione durare più di tre mesi, e verso i primi di aprile salutato il pittoresco paesello del Pan ove i Salesiani tengono una fiorente parrocchia, passata l’alta cordigliera mi inoltravo nelle foreste amazzoniche per la strada comoda, facile aperta dal Rev. Padre Albino Del Curto, Salesiano.

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Percorso della mulattiera El Pan – Mendez
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1917 – lavori di costruzione della stada El Pan – Mendez. Il quarto da destra, vestito di nero, è P. Albino Del Curto

 La mulattiera ideata da un Salesiano.
Già in altre corrispondenze potei annunciare le grandi difficoltà che presenta l’apertura di strade di comunicazione tra la zona civilizzata ed il paese dei Jibaros. Sono circa 100 km. di burroni, precipizi, foreste impenetrabili attraverso le quali con indicibili sofferenze ci si deve aprire un sentiero, come se lo apre l’orso ed il giaguaro. Arrampicandosi con corde, abbassandosi con rampicanti, incidendo nella durissima roccia un piccolissimo vano onde poggiare il piede sul profondissimo abisso, passare settimane intere sotto piogge torrenziali senza avere una casetta per dormire, e molte volte cibo con che sfamarsi, ecco la storia dura della mulattiera Pan-Mendez, dovuta all’iniziativa del Padre Albino del Curto e sempre sorretta dal venerando Vicario Monsignor Costamagna e dall’attuale Monsignor Comin. Il primo pericolosissimo sentiero che alcuni anni or sono si percorreva in quasi 8 giorni, ora si è già in parte convertito in solida mulattiera ed in comodo cammino a piedi che si può percorrere in due giorni, e molte decine di famiglie, mercé l’apertura della strada già hanno trovato nella vergine foresta fertili terre onde costituire la loro dimora e cooperare coi missionari salesiani alla grandiosa opera di redenzione e civilizzazione dei Kivari.

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Scimmia tipica dell’Oriente Ecuadoriano

Nel regno delle scimmie.
Il viaggio a Mendez sempre bello, sempre vago nella magnificenza del paesaggio, nella infinita varietà della flora e della fauna, nell’orrida imponenza dei torrenti impetuosi e delle capricciose cascate, durò tre giorni. Al secondo giorno già ci era venuto incontro lo zelante missionario Don Corbellini con alcuni dei più fedeli indios. Veri re della foresta i Kivari hanno un fiuto curiosissimo per la caccia, e risalgono l’intricatissima cordigliera delle Ande per precipizi o burroni impossibili, sopratutto per la caccia alle scimmie. Uno dei selvaggetti venendo all’incontro prima ancora di salutarmi e di dirmi i convenevoli, tutto felice e fuori di sè dalla gioia, arrampicandosi sulle braccia per toccarmi la barba, mi diceva: oggi sì che mangeremo bene: maschio e femmina, grandi, grossi e due piccolini vivi: la pelle sarà per te, ma me la devi pagare bene. Vieni, corri a vederla, è di un bel color nero. E durante il percorso del cammino, felice andava ripetendo le gloriose e fortunate gesta della caccia. Dopo pochi minuti arrivai alla capanna e vidi il papà che stava abbrustolendo un grosso scimmiotto di un metro di altezza già spelato, ed in un canto una scena importantissima: una grossa scimmia femmina uccisa, con un piccolo scimmiotto vispo, direi quasi intelligente, che gemente si gettava sul corpo di lei, pigliandole le braccia, le mani, accarezzandola o baciandola nella bocca come se volesse ridarle la vita, procurando di sollevarle la testa, come per dirle: fuggiamo, fuggiamo da questi cattivi. Veramente la scena pietosa era una documentazione del vivissimo istinto amoroso che Dio ha posto anche negli animali. Dopo una mezz’ora di inutili tentativi e richiami alla vita della madre, lo scimmiotto si accoccolò sul suo seno, si chiuse in un profondo dolore e si lasciò morire. Il jivaro, al quale mi ero rivolto con parole severe perché non era stato capace di conservare la vita del grazioso animaletto, mi rispose che sempre così succede, è ben difficile che un piccolo possa vivere senza la compagnia della madre. E, senza tanti complimenti, incominciò a squartare i due morti per far abbrustolire le carni e preparare uno squisito boccone pel pranzo. Io pure mangiai della carne dello scimmiotto e la trovai eccellente e sana, malgrado fosse semplicemente abbrustolita e con un poco di sale.

Il paradiso dei Kivari.
Il resto della giornata passò senza gravi incidenti e verso sera arrivammo felici e contenti, malgrado l’enorme stanchezza e strapazzo del viaggio, alla casa missionaria di Mendez. Subito ci colpirono i grandi progressi della Missione, diversi ettari di terreno disboscati ridotti a fertili piantagioni di caffè, canna da zucchero, banani, prati, ecc., ed all’intorno decine di case di coloni e numerosi divari, amici del missionario. I miei amici jivaros, sopratutto i bambini, erano fuori di sè dalla gioia vedendo arrivare tante casse di tessuti, vestiti, schioppi, coltelli, specchi, medicinali, il vero paradiso terrestre dei kivari, perchè quasi solo nel possesso di queste cose devono sognare questi figli della foresta, quando la loro vista li riempie di una gioia chiassosa che erompe in risate sonore ed in altisonanti parole di commento. Arrivato a Mendez, e sviluppate le lastre fotografiche prese nel cammino, organizzai subito il mio piano di battaglia coi Kivari, per compiere le visite a tutte le kivarie del Chupianza e dell’Upano.

Sulla tomba dei Navicha.
Il fedel kivaro Sharupi mi sì propose subito come guida per le valli del Chupianza e il giorno seguente di buon mattino mi stava aspettando coi figli per iniziare l’escursione. Svelto, leggero, ciarlone, impegnatissimo nel farsi onore e nel mostrarsi guida eccellente, o come diceva egli caballero, cioè uomo di alto lignaggio, sempre pronto a sostenermi nei passi pericolosi, a rimuovere col machete gli alberi caduti, mi fu di una compagnia invidiabile, preziosissima. A due ore dalla Missione, passammo vicino alle tombe dei famosi stregoni del Navicha, assassinati or son due anni. A bella posta volli fermarmi, recitare una preghiera ed investigare i probabili autori di tanto delitto. Il kivaro Sharupi si fece triste, non voleva sapere di questi discorsi; andiamo Padre, ché l’ora si fa tarda e la notte ci coglierà nella foresta infestata da tigri e da serpenti velenosi. La storia dell’uccisione dei kivari del Navicha è una terribile storia di sangue organizzata da quasi tutti i kivari circostanti alla Missione; anche la mia guida se non aveva gettato pel primo la lancia assassina, aveva certamente partecipato alla congiura, ma da lui nulla potei sapere e dove prima esisteva una forte tribù amica dei padri s’incontrano alcuni pali caduti, scomposti, ed una croce posta dai missionari.

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Confluenza del Rio Paute nel rio Nero

Travolti dall’onde.
Continuammo la via per circa un’ora in silenzio, e venne a distrarci dalle lugubri riflessioni il cupo rumore del rio Chupianza che serpeggia laggiù in basso nella profonda valle. Sharupi diede ordine ai figli che corressero a preparare la balza per il passaggio: affrettai il passo per raggiungere il fiume maestoso, dalle rive superbe, ricoperte da una vegetazione imponentissima; dopo aver raccolte le acque turbolenti di decine di torrenti; prima di unirsi al Paute si allarga in una valle con splendidi declivi e con terreni fertilissimi. Le sabbie del letto sono aurifere, e di tanto in tanto sono sfruttate dai coloni del Azuay. I terreni preziosi occupati nella parte superiore da alcune decine di Jivaros, amici dei missionari e disposti ad accogliere benevolmente fiorenti colonie straniere. I figli del Sharupi erano già discesi nel fiume, l’avevano già passato a nuoto e stavano da lontano risalendo colla balza intrecciata con quattro pali leggerissimi di un legno che abbonda nella foresta e che gettato in acqua sempre sta a galla. Remando con lena, veri emuli di “Carón demonio”, appena mi videro in lontananza vollero accelerare i movimenti, e pervasi da una gioia pazza, inconsci del pericolo si misero ad attraversare un punto assai critico, profondo, rapidissimo. Quando la barca stava nel punto culminante, si sfasciò completamente, la corrente impetuosa trasportò i due giovinetti come un fuscello, e li assorbì nei suoi gorghi profondi. La scena era tragica, ogni tanto i due eroi lottando come giganti, ricomparivano a galla dominando le acque, ma subito erano travolti. Tutti i kivaros presenti, addoloratissimi, come pazzi si misero a correre sulla riva per poter gettarsi, a tempo opportuno, al salvataggio. Nel mio cuore molto pregava la Vergine Ausiliatrice, che volesse risparmiare una disgrazia. Infatti dopo pochi minuti di incertezza i due nuotatori avevano ragione delle acque e riuscivano ad uscire dal circolo pericoloso della corrente per slanciarsi alla riva, ove venivano raccolti. « Entza, ti cajeu, entza ti cajeu » il fiume molto rabbioso, andavano ripetendo, impossibile vincerlo. Estrassi subito dal mio cassone un cordiale rinforzante, ma prima che io avessi il tempo, la sorella aveva preparato un’abbondante tazza di ciccia masticata e sputata la sera precedente, ed in un attimo la divorarono, rimedio infallibile contro tutti i mali.

Catechismo e gramofono.
Ormai il sole si avvicinava al tramonto, passare il fiume era impossibile, e deviammo alla kivaria del vecchio Chunchu, che ci accolse con una festa grandissima. Fino a tarda notte la casa risuonò di alte grida e di solenni discorsi sullo scampato pericolo e sulle circostanze della lotta. Io intanto avevo preparato il mio altarino, ed una buona pignatta di acqua zuccherata e me la intendevo coi kivaretti nell’insegnare un po’ di catechismo ed alcune delle più importanti verità eterne. Avevo pure promesso la musica e dopo cena estrassi il gramofono e fino alle alte ore della notte dovetti sollazzare la compagnia insaziabile nell’udire per la prima volta un istrumento tanto raro. Al mattino seguente all’aurora, prima ancora che mi preparassi alla S. Messa, Sharupi aveva mandato al fiume due giovanotti ad allestire una robusta balza. Terminata la S. Messa, il catechismo, accompagnato da tutta la famiglia discesi al Chupianza. Il passaggio di tutte le casse e persone durò più di un’ora: io fui l’ultimo ed uno dei hivaretti intelligenti volle farmi una improvvisata: alla riva opposta aprì il cassone del gramofono, lo montò e si mise a suonare allegramente tra le risa assordanti di tutti i compagni e tra la mia benevola compiacenza ed ammirazione per la sua intelligenza. Io pure passai il fiume pericoloso afferrandomi ben bene ai due bastoni e bagnato come un pulcino dopo mezz’ora eravamo già in viaggio per raggiungere le kivarie del Aiuiu grande. Un sole tropicale ardentissimo ci dardeggiava inesorabilmente, ed i jivaros, che già prima avevano preso un bagno forzato, vollero dare un altro saluto al fiume facendo quattro capriole per rinfrescarsi; mentre io andava raccogliendo alcuni ciottoli della riva per uno studio geologico del letto del fiume. Freschi, allegri come pasque dopo dieci minuti di toeletta, già erano in viaggio soffiando gagliardamente nei loro flauti a due buchi.

Nel regno della natura.
Nella flora ai lati del sentiero sempre novità e meraviglie botaniche. Questa erba, mi diceva il Sharupi, va bene contro il mal di testa, questa altra contro le dissenterie, quell’altra per conquistarsi l’affetto di una persona. E mentre io ero tutto intento ed appassionato nel raccogliere ecco che gli indios mandano un urlo d’allerta e poi ricadono in un profondo silenzio.Vedi, Padre, mi dice Sharupi, là, là, è molto rabbioso, molto velenoso.
Alzai gli occhi ed alla distanza di due metri un magnifico serpente verde attorcigliato sopra un ramoscello del camino, tranquillamente si pigliava il sole. Il giovane figlio di Sharupi senza tanta misericordia con un colpo di lancia l’atterrò e lo finì schiacciandogli miseramente la testa. La foresta dell’Oriente ecuatoriano è forse il luogo ove Iddio con la sua potenza creatrice ha maggiormente profuso la vivezza dei colori: uccelli dal piumaggio originalissimo, farfalle di tutti i disegni e di tutte le evanescenze della tavolozza pittorica, fiori i più finemente ed intensamente rossi, bianchi, scarlatto, giallo, e serpenti pure riproducenti i più vivi colori dell’iride. Appena ucciso il serpente, il giovane jivaro, sospendendolo con un laccio al collo, me lo presentò: lungo non più di un metro, di un vivissimo color verde vellutato, con un grazioso disegno sulla schiena, con due occhi cerulei sanguinei e con due denti velenosissimi al palato. Lo misi subito in formalina, mentre il vecchio Sharupi mi faceva la predica dicendomi: “Un’altra volta devi stare più attento, forse che sei kivaro per raccogliere tante erbe; forse che sei ammalato per portarle alla tua casa e perchè raccogliere i serpenti così cattivi, così velenosi? Il kivaro non fa così; il kivaro l’ammazza e poi lo getta via”. E continuava il poveretto con una eloquenza ciceroniana narrandomi minutamente tutto il processo interessantissimo della cura che fanno ì selvaggi contro la morsicatura dei serpenti, cura che io potei scrivere tutta e che a tempo opportuno potrà interessare la scienza ed il lettore.

Nella casa del grande Aiuiu.
Dopo circa due ore il canto del gallo ci annunciava la presenza della kivaria. Infatti al primo ruscello incontrato, tutti gli indios fecero sosta, si gettarono in acqua, si lavarono ben bene sopratutto le gambe ed i piedi, e fecero una toeletta da grande solennità con robusti pettini di legno, dipingendosi di rosso vivo la faccia coi disegni più grotteschi e primitivi. Dopo pochi minuti entrammo nell’orto dell’Aiuiu grande; un crocchio di bambini mi scorse e subito fuggirono precipitosamente nella casa. Certamente essi non avevano mai visto un missionario con la barba. L’Aiuiu, un pezzo di uomo tarchiato, vera stoffa da atleta ci accolse con una freddezza glaciale, come per dirci: che sei venuto a fare nella mia casa?

Come un loro stregone.
Incominciai subito a parlargli, a fargli intendere che ero venuto a salutarlo come amico, a conoscerlo e portargli le benedizioni di Dio sui suoi orti, sui suoi figli e sui suoi porci, e che per questo, alla sera, avremmo preparato un bell’altare, fatto catechismo ed al mattino seguente celebrata la S. Messa. Ormai il sole era caduto, ed il magnifico altipiano illuminato dal crepuscolo appariva in tutta la sua bellezza divinamente incantatore. Uscii all’aperto, nel gran tempio della Natura e pregai Dio piuttosto col cuore che colle labbra, affinché fosse fecondo il mio apostolato. L’ Aiuiu nerboruto mi stava spiando credendo che io facessi degli scongiuri come uno dei loro stregoni e malefiziassi la casa. Per buona fortuna gli si accostò il fedele Sharupi dicendogli che portavo molte cose, molte macchine, e subito dimenticando gli scongiuri e le superstizioni si accostò a me mostrando desiderio che a tutta la sua famiglia mostrassi le macchine. Non desideravo altro: in un minuto il gramofono era montato e spandeva le belle note della marcia reale italiana. Un’altra volta la musica aveva conquistato l’ambiente: i kivari erano insaziabili nell’udire la varietà dei suoni e dei canti, la gioia più viva traspariva dagli occhi, dalla bocca, da tutti i movimenti degli indi. Tra un disco e l’altro il segno di croce, qualche parola sul paradiso, sull’inferno, sulla passione e morte di Gesù Cristo, e sulla necessità di pregare.

Le vie della grazia.
L’orologio ormai segnava le dieci di notte, presi un poco di brodo e di yuca e mi sdraiai per terra a riparare le forze perdute. Mentre tranquillamente recitavo il mio rosario mi sento palpare la faccia e le braccia da una mano nerboruta, callosa. Attraverso la debole luce rossastra emanata da un tizzone intravidi l’ombra dell’Aiuiu grande. Fatti in là: amico sono, con te voglio bene conversare, e si sdraiò accanto a me mentre un silenzio sepolcrale interrotto solo dalla sinfonia degli insetti dominava nell’immenso caseggiato. L’Aiuiu grande si era riempito certamente la pancia con una decina di litri di ciccia, perché aveva un fiato micidiale. Avrei potuto fargli capire che non era quella l’ora di dar udienza, ma guai con un gran capo rifiutare la conversazione, sopratutto quando ancora non si conosce. Si corre rischio di perderne l’amicizia e di cadere nelle disgrazie per diversi anni. Le domande che mi fece furono molte ed alcune abbastanza sciocche. Perché era venuto, dov’era la mia terra nativa, se avevo una madre, dei fratelli, delle sorelle, se al mio paese ci sono molte guatuse e suini da cacciare, se gli schioppi costano poco o sono più a buon mercato che a Culuca, se ci sono molti specchi, coltelli, aghi, se ci sono serpenti, se avevo moglie… ed ogni tanto mi accarezzava colle sue mani ruvide la barba dicendomi che medicina avevo per farla crescere così lunga. Ogni tanto cercavo di condire la conversazione con qualche parola cristiana parlando di Torino, dell’Ausiliatrice, di Don Bosco. del grado di civiltà raggiunto nei nostri collegi e scuole professionali nell’arte meccanica, ecc. o nelle nostre scuole agricole colla produzione di generi alimentari, sforzandomi di convincerlo che la cosa più importante della vita dell’uomo è la bontà e l’amore a Gesù Cristo, la salvezza dell’anima, l’andare in Paradiso, ecc. Il gallo di mezzanotte col suo stridulo canto ormai ci avvisava che l’ora era tardissima. Colla promessa di un bel regalo persuasi l’Aiuiu a lasciarmi tranquillo, e dopo pochi minuti chiudevo la laboriosa giornata con una santa gioia nel cuore felicissimo d’avermi conquistato l’amicizia del più gran capo del Chupianza. Dopo tre ore già ero sveglio per preparare il mio altarino per la S. Messa. Il gran capo con parole forti come colpi d’acciaio sull’incudine raccomandò il massimo ordine ed il massimo rispetto sopratutto alle donne e quella mattina ebbi la dolcissima soddisfazione d’aver intorno a me ed all’altare della Redenzione una sessantina di jivaros, avidissimi dei misteri cristiani.

Amatissimo Padre, può immaginare con che amore, con che tenerezza loro parlai del gran mistero della Redenzione, della Passione e morte di Gesù Cristo: mi sembrava di averli tutti convertiti, di averli fatti cristiani, perché molti domandavano il battesimo!
Oh potessimo moltiplicare queste visite ardue e difficili alle case kivare sono sicuro che in breve avremmo il vicariato sparso di fiorenti comunità cristiane.

 

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Come Direttore dell’Istituto “Cornelio Merchan” fornisce notizie sulla Scuola – 1941)

(dal Bollettino Salesiano del maggio 1941)

Amatissimo Padre,

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Inizio anno scolastico al Cornelio Merchàn – In mezzo un Padre Crespi cinquantenne

un saluto cordialissimo dai 50 confratelli, dai 650 alunni delle nostre scuole elementari e professionali e dai 500 giovani dell’Oratorio festivo. La sua lettera dello scorso anno è stata oggetto di studio in tutte le conferenze mensili e ci ha ispirato la più efficace preparazione al nostro centenario. Grazie a Dio, le cose procedono in modo consolante.

Il santuario ha segnato il fervore della pietà eucaristica con 100.000 Comunioni: somma tutt’altro che indifferente se si pensa che attorno a noi svolgono contemporaneamente il sacro ministero con ammirabile zelo religiosi di prim’ordine, Gesuiti, Redentoristi, Domenicani, Mercedari…

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Scuola Agraria

All’Esposizione Agricola-Industriale, inaugurata dal Presidente della Repubblica e vari Ministri di Stato, la nostra Scuola Professionale ha riportato il primo gran premio assoluto su tutti i concorrenti; la nostra Scuola Agricola, quattro gran premi in avicultura, coniglicultura, suinicultura ed orticultura. Il nostro gran toro Holstein fu dichiarato fuori concorso, campione su 30 concorrenti, alcuni importati dagli Stati Uniti e dall’Argentina.

Con Decreto Ministeriale del 6 novembre u. s. è stato pareggiato il nostro studentato filosofico, il primo normale privato approvato dal Governo. In casa, molto buono spirito, fervore di pietà e molto entusiasmo per l’apostolato. Si prega, si studia e si lavora assai. Lei ci benedica, ci scriva qualche buona parola e mi creda, per tutti, aff.mo in G. C.

CARLO CRESPI, Direttore.