Lettera di Padre Crespi che segnala una grazia (8 agosto 1923)

La grande, potente, la buona Ausiliatrice, protettrice insigne dei missionari, volle in questi giorni dimostrare la sua paterna miracolosa assistenza, infrangendo le diaboliche arti di Satana, re e padrone assoluto dei Kivari.

S’andava cautamente per un strettissimo sentiero inciso nella roccia, con un abisso orribile ad un lato, quando dal monte s’abbassa un indio con due cavalli e ci viene incontro.

Passa per primo l’instancabile e pratico missionario Ernesto Tettamanzi, ritirandosi un poco in disparte. Viene seconda l’intrepida ispettrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Suor Carolina Mioletti; ma il suo cavallo si spaventa, si rizza in piedi, e durante questa manovra, il terreno cede.

Vedere la povera bestia cadere nel vuoto coll’intrepida suora che manda gemiti di soccorso, vederla rotolare per la rapidissima scarpata conducente a un spaventevolissimo abisso, fu un istante. Con fede intrepida s’invoca il nome dolcissimo della Madonna di Don Bosco: e il cavallo si libera dalla suora, e trova una grossa pietra d’appoggio e quivi tranquillamente s’arresta. La suora fa sforzi disperati per aggrapparsi ai cespugli; nella violenza della discesa ne sradica alcuni; ma, finalmente, s’ode la voce della vittoria del trionfo: « Mi sono aggrappata! mi sono aggrappata! » Sull’orlo dell’abisso, colle mani insanguinate, pallida, sorridente, sta afferrata a due robusti e pungenti rami. Si corre al difficile e pericoloso salvataggio, e poi, con uno sforzo sovrumano si riesce a risalire il sentiero della salvezza. Senz’indugio s’innalza una fervida prece di ringraziamento alla grande Ausiliatrice. Poteva essere una catastrofe: tutti i cavalli potevano spaventarsi e massacrarsi nella terribile gola: ma la Madonna vegliò e volle risparmiare le giovani energie, incamminate alla povera Missione dei Kivari.

Ausiliatrice potente, la vita che prodigiosamente ci conservasti possa essere tutta spesa nel far trionfare il tuo nome nelle foreste Amazzoniche.

Cuenca, 8 agosto 1923.

Sac. Dott. CARLO CRESPI, Missionario Salesiano.

 

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Prima)

Amatissimo Padre,

Lo avevo promesso alla nostra cara Madonna che, mentre a Torino riceveva l’apoteosi solenne e grandiosa di centinaia di migliaia di fedeli devoti, a Lei avrei fatto pur giungere l’umile, l’umilissimo omaggio dei miei carissimi Kibaros così superbi, così materialisti, così refrattari a qualsiasi forma di culto esterno.
Appena, quindi, ritornato dall’esplorazione alle origini del Santiago e spedito il materiale per l’esposizione di Roma, accompagnato da due « Indios » della Sierra m’internai nell’epoca più impropizia e più pericolosa tra le foreste che fanno capo alla sede missionaria d’Indanza.

Gualaceo capoluogo del Cantone Gualaceo
Gualaceo, capoluogo del Cantòn Gualaceo – Provincia di Cuenca

Sensazionale assalto di un toro infuriato.
Il viaggio di andata questa volta fu uno dei più disastrosi. Appena uscito da Gualaceo pacifico, tranquillo, nelle mani di Dio, come il magnifico sole che trionfante s’elevava nel vasto orizzonte, un boato spaventoso mi toglie dalla serena meditazione della prodiga natura. Non feci tempo a voltarmi indietro che un toro infuriato, dimenando spaventosamente le corna, per lo strettissimo cammino fu sopra la mia bestia paziente. Da una parte la roccia si elevava a picco, dall’altra l’abisso si sprofondava verso il fiume San Francisco. La morte era certa, inevitabile. Scendere a terra voleva dire o slanciarsi a capofitto nel burrone o gettarsi in balia alla furia del mostro; rimanere in sella voleva dire condividere le sorti della sanguinosa battaglia… La mia povera bestia impari alla lotta versava sangue da ogni parte. Innalzai il pensiero all’Ausiliatrice, offrii la mia vita in olocausto per la conversione del Kibaros, ed all’istante il mostro infuriato, data una terribile cornata alla pancia della mula salvatrice, sfiorando per un millimetro la mia gamba destra, alzandosi ferocemente sulle gambe posteriori ed emettendo boati spaventosissimi si voltò precipitosamente indietro, mentre robusti Indios che già avevano tesi robusti lacci riuscirono a farlo cadere ed a renderlo impotente. Levai gli occhi al Cielo, pensai alla grande parola di Don Bosco: « Abbiate fede e vedrete che cosa sono i miracoli », e continuai tranquillamente il cammino ripieno di una tenerezza, di una soavità, che credo solamente ai Missionari Iddio suole concedere.

La vergine foresta.
Lo spavento, però, prodotto nei miei poveri Indios che mi credevano schiacciato dalla orribile furia e «fatto polvere » secondo una loro frase, non mi permise di arrivare alla miserabile capanna, ove solevo risposare la notte. Una nebbia fittissima ed un nevischio ci accompagnò fino all’ultima cima della Cordigliera, e quando ci apprestavamo a discendere alla zona orientale, gli ultimi bagliori di un divino tramonto, fantasticamente colorato, ci annunciavano vicinissime le tenebre. Fu giocoforza innalzare la tenda militare in una spianata umidissima, freddissima, senza legna per accendere il fuoco, nella regione infestata dagli orsi.
Che fare? Per evitare la funesta umidità mi gettai colla corona in mano, con una diecina di camicie e panciotti che avrei dovuto regalare ai selvaggi, su due latte di petrolio e passai la notte. Verso le due un orribile temporale sembrava volerci annientare. Passò però presto, ed alla prima, bellissima aurora, celebrata la Santa Messa coll’altare rivolto al lontanissimo Oriente, potemmo riprendere la ripida discesa.

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Baños- cascata “Pailon del diablo”

Amatissimo Padre, non sto a descriverle la prodigiosa forza vegetativa di questa regione. Ci sono boschi preziosissimi dell’albero della China, ci sono legnami pregiati; e sopratutto qui impera la forza delle acque. Oh! se vedesse amatissimo Padre, che cascate magnifiche, e per abbondanza d’acque e per spontaneità di disegni e per altezze favolose! Quanti milioni di cavalli di forza elettrica si potrebbero sviluppare! E pensare che siamo appena a 20o chilometri dal Pacifico! Qui sopratutto si ammirano le più svariate forme di muschi, di licheni, di felci nane ed arborescenti! Può, quindi, immaginarsi con che avidità ho potuto lungo il cammino saziare la fame scientifica, al punto da fare tutto il viaggio a piedi per permettere il trasporto di tante meraviglie sulla mia mula salvatrice. Ho visto poi per la prima volta altre specie di orchidee, superbe, magnifiche, di un vivissimo color giallo, slancianti, dagli altissimi alberi, sul l’orlo di precipizi, la preziosissima inflorescenza. Ma come fare a raccoglierle? Anche questa volta per puro peccato scientifico fummo sorpresi dalla notte nella foresta, ma non soffrimmo tanto come nella precedente ed il giorno appresso, con qualche incidente di cadute, arrivammo alla sede della Missione, attesi dai confratelli Don Falco e Don Plà, ma sopratutto dai Kibaros e dai coloni.

Magnifica visione di fede.
Riposai un poco alla domenica, visitatissimo dai selvaggi, curiosi di sapere se avevo portato molte cose, e combinai con lo zelante Don Plà il piano di azione per il lavoro apostolico.
Il primo giorno ci slanciammo al nord, a marcie forzate, a piedi, e verso sera arrivammo alla imboccatura della bella valle, incisa dal fiume Juinganza, ove si va sviluppando una colonia di Indios Quichua. Appena ci videro i primi coloni, s’innalzò una voce concorde di giubilo, di festa, come all’apparizione di una visione celeste: giovani, adulti, vecchi venerandi ci si gettarono ai piedi, baciandoci religiosamente le mani, visibilmente commossi. Quando, poi, seppero che ci saremmo fermati tre giorni, che Don Plà avrebbe celebrato un triduo di predicazione per prepararli al Precetto Pasquale e che avrebbero avute due Messe al giorno, fu una festa di paradiso. Subito baldi giovanotti si sparsero nella foresta ad avvisare gli altri coloni e nella notte oscura e piovigginosa, come anime doloranti e fantasmi di morte, per sentieri pericolosi ed impossibili, ci vedemmo giungere tutti i cristiani alla capanna di ritrovo, fatta di bambù. Causa la stagione piovosa, si dovette subito pensare al luogo più decente da convertirsi in cappella.

Un pollaio… convertito in cattedrale.
Non rimaneva che un porticato ricoperto di paglia e disputato da porci, buoi e galline. Ma un pollaio ci parve più imponente. Sloggiammo subito, quindi, i superbi volatili, pulimmo magnificamente il terreno, con quattro pali improvvisammo l’altare, adornandolo con sempreverdi forestali e con fiori olezzanti, e sul pavimento gettammo le tende militari come pomposo tappeto. Alla Celeste Ausiliatrice, sorridente dall’altare, due miserabili candele legate ad un palo facevano luce, ma ai suoi piedi ardevano d’amore circa 30 cuori di poveri Indios, spinti dalla miseria nella foresta, ed esuli, erranti, l’invocavano come stella consolatrice. Terminato il Santo Rosario e la predica, spenti i lumi, ci addormentammo nel Signore e all’indomani, al primo sorgere dell’aurora, celebrammo le Sante Messe. Che musica! che concerti! Ogni tanto le vacche muggivano, i porci grugnivano all’insolita novità, qualche gallina voleva ritornare al regno perduto. Profanazione dei sacri misteri, parrebbe a prima vista! Eppure, credo siano state poche le Sante Messe celebrate ed ascoltate con tanta divozione, con tanto fervore, con tanto strazio di cuore; e Gesù benedetto discese sull’umile altare, come discendeva tanti secoli or sono nell’umile capanna di Betlemme.

In cerca dei selvaggi.
Terminata la Santa Messa, Don Plà rimase ad instruire i coloni ed io mi slanciai nel profondo della foresta in cerca dei lontani Kibaros per far loro un po’ di catechismo, ma sopratutto per fare spargere in tutta la valle la voce che dopo pochi giorni un Missionario sarebbe andato a visitarli nelle loro case per celebrare per la prima volta la Santa Messa e per portare le sante benedizioni di Dio. Potei infatti, dopo sei ore di marcia forzata, sotto una pioggia infernale, trovare una famiglia Kibara dispostissima verso i Missionari. La permanenza non si potè prolungare di molto, e subito dovetti, a rotta di collo, rifare la via del ritorno. Verso notte, più morto che vivo, arrivai alla cattedrale pollaio. I coloni mi aspettavano ansiosamente e preoccupati del lungo ritardo. Recitato il Santo Rosario e fatta un’efficace esortazione, si poterono udire tutte le confessioni. Il mattino seguente commovente fu la cerimonia della Comunione Pasquale e della distribuzione di un’immagine di Maria Ausiliatrice. In pochi minuti si poté scegliere definitivamente il luogo ove fabbricare una bella cappelletta, e con la più profonda commozione ci separammo da tanti amici, intraprendendo il faticosissimo calvario del ritorno alla sede missionaria.
Il lunedì seguente ci preparammo a visitare i coloni e Kibari del Tzarambiza, Partidero, e Peña Bianca. Sono queste le incantevoli posizioni che, come gemme preziose, brillano nella bellissima valle d’Indanza. I coloni sono pochi, una ventina in tutto, divisi in quattro aziende, nel modo più barbaro ed irrazionale, mancando tra di loro qualsiasi stimolo di emulazione. Questa volta pure mi volle accompagnare Don Plà e con grande sorpresa cinque robusti Kibaros, in alta tenuta, con una Kibaretta, incaricata di portare la cesta della mandioca e del banano: tre di essi erano i famosi traditori che nell’ultima escursione ci avevano abbandonati nel più fitto della foresta con pericolo della vita. Ci raggiunsero lungo il cammino con la più innocente faccia tosta: come nulla fosse succeduto, belli nei loro ornamenti e nelle slanciate fattezze del corpo.
Quando il selvaggio vuole, ha le ali ai piedi, e non c’è europeo che possa tenergli dietro. Non volli trascurare l’occasione di fare loro un po’ di bene, e lasciando indietro il mio compagno coi peones, caricati del bagaglio, decisi di seguirli, tenendo vari discorsi sulla morale cristiana e sulla necessità di viver bene. Alle tre già eravamo alla Kibaria di Antonio e mentre gli adulti, gridando come ossessi, si intrattenevano nei loro saluti rituali, io avevo radunati tutti i bambini, in vestito adamitico, per il catechismo. Dopo due ore mi vedo giungere i Peones senza Don Plà. Conscio del grave pericolo, mando subito alcuni veloci Kibaretti ad incontrarlo, ma dopo un’ora, quando l’ultimo crepuscolo mestamente illuminava l’immensa foresta, ridendo, sghignazzando, ritornano dicendo che non avevano incontrato nessuno.

Sentiero errato.
La notte si era fatta oscurissima ed era incominciata l’incomposta sinfonia di insetti e di batraci. Che fare? Non rimaneva che raccomandarlo alla Vergine Ausiliatrice! Il povero confratello nella bella età di 5o anni, inconscio delle gravi difficoltà dei sentieri Kibari, aveva creduto di poter giungere alla casa selvaggia da solo; invece la varietà delle vie aperte per la caccia lo condusse nel cuore della foresta oscura ed impenetrabile, senza una coperta per ripararsi dal freddo, senza un zolfanello, senza un’arma per difendersi. Da buon Missionario, rassegnato a tutto, si appiattò ai piedi di un albero gigantesco, e pose al suolo una medaglia della potente Ausiliatrice come sentinella e custode della sua vita. A peggiorare le condizioni venne una pioggia noiosa; forse qualche serpente velenoso gli passò appresso, forse qualche puma o tigre affamato da lontano avrà spiata la preda, ma vegliava, invocata con la miracolosa medaglia, la Vergine. Se il povero Don Plà passò la notte vegliando con il Rosario, io pure non potei chiudere un occhio. Verso le 4 al primo canto del gallo inviai abili guide in cerca di lui, e ritornarono, dopo un’ora, sconsolate. Intanto avevo celebrata la Santa Messa con un fervore specialissimo e, fatto un po’ di catechismo, mi accingeva a continuare l’escursione ad altre Kibarie. Dopo un’ora un Kibaretto mi raggiunge:
– É arrivato il Padre! E arrivato il Padre!…
Felicissimo gli mando indietro l’altare portatile e il vino per la S. Messa, ben nascosto, affinchè il Kibaro, ghiottissimo, non se lo beva tutto, e alcuni metri di tela, affinchè le donne gli dessero tutto quello che era necessario per rifarsi dalla terribile nottata.

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Indios fotografati da P. Crespi nel 1926

Circondato da 60 minacciosi selvaggi.
Continuai la difficile marcia sotto i dardi di una pioggia torrenziale noiosissima, e dopo 5 ore arrivai alla Kibaria di Raimondo, sulla via del Santiago. All’entrata un urlo furibondo mi accolse. Erano circa 6o selvaggi robustissimi, armati fino ai denti, venuti dal Pongo, sospettosi, guerrieri, pronti a far la festa a qualunque straniero. Con le mie buone maniere procuro di insinuarmi, e per tutta risposta non ho che parole insolenti o risate sgangherate. Mi avvicino ad uno di essi, che pareva dei migliori e teneva al collo un bell’ornamento.
– Che vuoi, gli dico, per regalarlo a me?
– Che hai, forestiero? – mi risponde con alterigia.
– Ho specchi, coltelli, aghi, machetes, polvere da schioppo, munizioni.
– Dammi la polvere!
– Quanta? – gli dico, mostrandogliene un pacco.
– Tutta…
Dalla risposta insolente capii che era impossibile qualunque trattativa. Estrassi la bellissima macchina fotografica da un cassone e tentai invitarli a posare innanzi alla medesima. Non l’avessi mai fatto! Un urlo compatto di protesta mi fece agghiacciare il sangue.
Può immaginare, amatissimo Padre, che sconforto, fare 12 ore di cammino a piedi, sotto un’acqua torrenziale, per poter portare la parola di pace e di amore ed essere ricevuti in un modo così brutale?

L’ora della morte
Quando però sembrava fallita la mia missione odo una voce tremula, dolorante!
– Padre, tu devi avere il rimedio infallibile!
Mi volto, mi accosto e vedo steso sopra un letto un povero Kibaro ischeletrito, con gli occhi infossati ed agonizzanti e col corpo negro come se fosse affetto da terribile malattia. Non lo riconoscevo più, però egli me lo disse chiaramente:
– Tu sei il Padre buono, che quando sono uscito a Gualaceo mi hai dati molti denari per comprare ciccia, grani e cibi per il viaggio. Ora sto per morire. Mi duole lo stomaco. Tu nel cassone devi avere il rimedio infallibile: tu lo hai perchè sei buono!
Esaminai lo stato di salute del povero infelice. Gli occhi annunciavano lo stato preagonico: una terribile febbre colerica lo aveva prostrato in un modo tale che sembrava un cadavere. Umanamente parlando, la morte era vicinissima, nessun rimedio avrebbe potuto salvarlo. Innanzi ad un fatto così tragico, e per dare ai terribili selvaggi che lo circondavano un esempio della potenza del Dio dei Missionari, avrei desiderato da Don Bosco un miracolo, strepitoso, di primissimo ordine. Giudicai invece, più prudente, raccomandargli l’anima, incoraggiarlo a pregare il buon Padre Iddio, affinchè non lo gettasse in braccio del demonio, ma l’accogliesse in paradiso. Il poveretto, ricaduto tra gli orrori dell’agonia, continuava a mormorare con gli occhi fuori dall’orbita:
– Il rimedio infallibile, il rimedio infallibile: alla Missione lo hai!
– Subito viene, mio fratello.
– Va’,… corri… portamelo per non morire!…
E così dicendo cadde altra volta come morto, mentre le donne innalzavano le lugubri e raccappriccianti note di un funebre canto.
Raccomandai per l’ultima volta l’anima a Dio; gli diedi l’assoluzione sub conditione, essendo battezzato, e tra le urla dei 60 Kibaros radunati, ripresi la via del ritorno con il fratello del moribondo. Dopo cinque ore di marcia forzata, ci raggiunsero nella foresta i cinque Kibaros amici, avvisandoci che il moribondo già si era spento. Li fermai e li invitai tutti a ripetere con me la preghiera a Dio, affinché l’accogliesse in paradiso. I loro discorsi, però, erano tutt’altro che di paradiso. Sembravano furie d’infermo, spiranti odio, vendetta, morte. Succede sempre così! Qualunque morte avvenga, questi selvaggi l’attribuiscono a stregoneria, e tutta la loro preoccupazione sta nello scoprire il preteso stregone per assassinarlo.
Al cadere del sole raggiungevo il carissimo Don Plà, che mi narrava la poco lieta avventura: e recitato il S. Rosario ed altre preghiere, ed ingoiati alcuni banani, ci gettammo in braccio a Morfeo.

……………………….

(Il seguito della lettera continua in “Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Seconda)

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Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Tra i Selvaggi di Gualaquiza)

Cuenca, 24 aprile 1924.

Amatissimo Padre,
Sono ritornato da una lunga e faticosa missione alla regione di Gualaquiza. Non sto a narrarle le peripezie del viaggio, i tragici passaggi di precipizi e neppure le festose accoglienze fatte a Monsignor Comin dai coloni di Granadilla, Aguacale, e del fervore religioso suscitato colla sua. calda parola, nonché delle nuove opere che provvidenzialmente vanno organizzandosi mercé le offerte dei benefattori.
Di Gualaquiza le voglio parlare, di questa valle incantevole, chiamata da un antico esploratore un «Paradiso terrestre », e dei carissimi Kibaros (o Kivaros). Chiunque vi arriva dopo un viaggio penoso e vi arriva nella nostalgica ora del tramonto, in una bella giornata serena, non può non sentire nel suo cuore una di quelle impressioni profonde che incantano, che trasportano in una atmosfera divina, nella contemplazione soave di qualche cosa di sovranamente bello.
La valle incantevole.
Il tersissimo cielo di zaffiro, con alcune nuvole laggiù nel lontano orizzonte, che in pochi istanti vi proiettano i migliori colori dell’iride nelle più sorprendenti e variabili sfumature: la bellissima cerchia di monti non brulli, non aridi, ma ricoperti da una vegetazione lussureggiante e sfoggianti al libero cielo vivissime macchie bianche, rosse, azzurre, gialle di colossali alberi in fiore e di graziose liane; il rumore caratteristico del torrente, che ha inciso nei secoli la bellissima valle e che, serpeggiando, scorre allietandola colle sue pittoresche vedute; la scomposta sinfonia di migliaia di coleotteri, uccelli latraci, che al cadere della sera innalzano a Dio il possente inno di gloria e d’amore, e la mesta campana della chiesetta, piccolo contributo dell’uomo in un’apoteosi così grandiosa dell’opera divina, ecco le gioie purissime che il Supremo artefice riserva ai poveri missionari.
Inoltratevi nella valle e vi giungerà dal bosco l’eco sonora di flauteros, uccelli intreccianti in pochissime note un grazioso concerto, e ad un segno dato verso le 6 un rumorosissimo fischio di sirena prodotto da migliaia di insetti, quasi monito ai coloni ad abbandonare gli ubertosi campi: e più tardi nella cupa notte il triste gemito dell’uccello ahú, secondo la tradizione infelice kibaro che piange la moglie convertita in luna!
Natura bella, natura placida, che aspetta ancora dalla mano dell’uomo l’opera perfezionatrice, e laggiù, lontano, sulle cime dei poggi e colli che l’adornano, sulle pendici dei monti abbassantisi alle valli incise dal Cuchipamba, dal Cuyes, dal Bomboiza, dal Zamora, il selvaggio kibaro non ancora tocco dalla civiltà come la foresta in cui vive, il selvaggio kibaro che disputa alla lontra il vivace pesce dell’azzurro torrente, al verdastro serpente l’uccello canoro, ed al giaguaro ed al tapiro i frutti spontanei della terra e l’abbondante selvaggina.
Il kibaro.
Chiunque va per la prima volta in Gualaquiza s’immaginerebbe di vedere dopo tanti anni di lavori, di sacrifizi, un piccolo villaggio con al centro una chiesetta ed intorno belle case di jivaros con orti prosperosi! Niente di tutto questo. Il Kibaro materialista, padrone assoluto ed indisturbato di centinaia di chilometri di terreni fertilissimi in splendide posizioni, non viene a mendicare al missionario un pezzo di terreno, una casetta, un sorso di acqua! No, assolutamente no. A due, tre, cinque, dodici ore di distanza dalla Missione, colà dove scorre un limpido torrente con grossi lumaconi mangerecci sulle pietre, con saporiti pesci negli oscuri gorghi, e la prodiga foresta gli dona un’abbondante selvaggina, in un luogo sano, ove anche le più tremende piogge torrenziali scorrono a valle e dalla nuda roccia sgorga la purissima acqua cristallina, egli costruisce la sua grande casa e vive indisturbato, signore e padrone assoluto senza dipendere da nessuno, senza subire minimamente l’influenza del potere civile, militare, religioso.
Re e padrone assoluto, sopratutto nella collina che si è scelta, ove nessuno dei Kibari, neppure parenti, può avvicinarsi, ove abbattuta l’inestricabile congerie di liane ed alberi giganteschi le sue mogli piantano la saporita yuca ed il dolce banano, e dove i suoi porci dalla carne gustosa possono scorazzare ad ore di distanza, sbarazzando l’infido suolo dai velenosi serpenti!
Re e padrone assoluto in sua casa, va superbo del suo lavoro, dei suoi prodotti, di tutto ciò che gli appartiene, disprezzando qualsiasi forma di civiltà che non comprende, che non gli serve. Presentategli un pezzo di tela finissima, dai più vivaci colori. Egli la piglierà in mano, ne osserverà i minimi intrecci dei fili e la paragonerà col suo rozzissimo itipi, e: – Puengarcià! (non è buona) – è la frase che vi dirà scrollando la testa e rimettendovi la tela in mano. Potete allora impiegare tutti gli argomenti da mercante, potete dimostrargli che è una tela di alto valore, usata dalle signore della più alta società! È tempo perso; – Puengarcià! (non è buona), e non si ragiona più. È questa ostinazione di giudizi che lo rende assolutamente ostile ad abbracciare qualsiasi costume in opposizione ai suoi tradizionali, e lo rende pure durissimo nell’accettare idee cristiane. Egli è l’impeccabile, il perfetto, e deve averla fatta ben grossa ed essere preso in fragrante delitto per arrendersi ad un’accusa qualunque.
L’inferno non è fatto pei kibari.
Un giorno, avvicinai alcuni dei più feroci Kibari del Vicariato, dominati dalle più terribili passioni e macchinanti l’uccisione di un nemico, e li condussi ad un quadro catechistico rappresentante i Novissimi. In alto, l’amabile figura di Gesù Redentore con un drappo bianco ai lombi; a sinistra, schiere di angeli che liberano dalle fiamme del Purgatorio le anime buone; a destra, i demoni che precipitano all’inferno i cattivi. Col dito mostravo loro gli angeli che portano al Paradiso. le anime dei buoni cristiani, ed i demoni che straziano le anime dei Kibari che rubano, che ammazzano che fanno tzanze1, che portano odio ai nemici, che non si ricordano mai del Signore e che tengono tante mogli invece di una sola. La mia calda parola sembrava li commovesse, per caso, però, uno dei più furbi scoprì che le anime dei dannati erano tutte vestite all’europea. La battaglia fu persa.
– Vedi, Padre, mi disse trionfante: il Signore è vestito da kibaro, e vuole molto bene ai Kibari, e chiama al Paradiso tutte le nostre mogli, vestite da angeli, mentre getta all’inferno coi demoni tutti i cristiani. L’inferno non è fatto per i Kibari! Ebbi un bel dimostrare il contrario; alcuni si arresero alle mie argomentazioni, colla speranza di avere qualche regaluccio; sono però sicurissimo che nella loro mente non ha fatto breccia la verità cristiana.
” Ne ammazzerò 2 delle 3 mogli!”.
La questione della poligamia è una delle più scottanti e difficili. Come togliere dalla loro testa l’idea poligamica, quando tra essi è stimatissimo colui che, avendo molte mogli, può avere molti orti, molti porci ed una forte schiera a difesa della sua vita? José Pukubaty, fratello del Kibaro Gioachino Bosco, di indole bonaria ed assolutamente incapace di fare guerra al suo simile, fu, in modo speciale, oggetto delle cure di un missionario anziano.
Un giorno, dopo una lunghissima argomentazione sull’idea poligamica, e sui gravissimi castighi che minaccia il Signore a coloro che non seguono la legge cristiana, profondamente commosso ed agitato proruppe in queste frasi: « Sì, Padre, hai ragione: vado subito a casa ed ammazzerò due delle tre mogli, e vivrò con una sola ». E ce ne vollero delle parole per distoglierlo dal delitto e per persuaderlo ad usare misure meno radicali e meno sanguinarie!
” Se mi dài la pianeta, ti regalo una gallina! ,,.
Il « Kibaro » è materialista, selvaggio, e purtroppo all’idea cristiana oppone un’anima dura, impenetrabile, più dura della cotenna del tapiro, con cui divide le gioie della foresta. Nelle lunghe esplorazioni compiute alle Kibarie del Bomboiza, Cuyes, Tunduli ecc., ho potuto constatare che il raggio della Fede non li ha toccati. Durante le escursioni apostoliche nell’estesa foresta molte volte fu necessario improvvisare un letto per le stanche membra ed un altare per la S. Messa. E piantati quattro pali nel suolo, intrecciatine due altri all’altezza di un metro, distese alcune foglie di banano ed adagiate le bianche tovaglie, ecco pronta la Sacra Mensa in un tempio che aveva per volta grandiosa l’immensa cappa del cielo, per ornamento la graziosa verzura della foresta tropicale, per colonne colossali tronchi di albero, per pavimento il nido delle formiche e le tane dei serpenti e per organo la scomposta sinfonia di centinaia di uccelli, come aeroplani volanti intorno all’ara del loro Creatore.
Eppure sul quel misero altare si compiva il Grande Miracolo, e può immaginarsi, amatissimo Padre, la commozione vivissima nell’offrire l’Augusta Vittima; attorniato da decine di selvaggi, seminudi, colle loro lance, coi loro fucili, in posizioni stranissime, non compresi dell’augusto Mistero, ma solo attratti dalla vivacità dei colori, dallo splendore del calice e dalla originalità dei movimenti. Oh! quando suonerà per questi infelici figli della foresta l’ora della Redenzione? Quando potremo loro aprire gli occhi alla Fede e mostrare la bellezza dei misteri cristiani?
Terminata la S. Messa, una delle donne mi si accostò con tutta semplicità e, toccando la pianeta:
– Padre, a mi dando, io gallina regalando. – (Padre, se mi dài la pianeta, ti do una gallina!).
Può immaginare la risposta e lo strazio del cuore nel constatare tanta ignoranza.
Una guida originale.
Quel giorno proseguii il viaggio verso il Zamora. Ad un dato punto la guida sparì per i suoi affari. Trovarsi in mezzo alla foresta, solo, senza guida, senza compagni, è una delle sorprese più sgradite. Fortunatamente il vento mi portava l’eco lontana delle furiose onde del Zamora, e dirigendomi verso il cupo suono trovai nella foresta dei selvaggi che stavano lavorando intorno ad una canoa, e potei, con regali, avere un vispo kibaretto come guida. Persuasissimo che sapesse almeno un po’ di spagnolo, gerundiando, gli domando con tutta gentilezza:
– Zamora cerca stando? (Il Zamora sta vicino?).
– Zamora cerca stando? – mi risponde il diavoletto con due occhi di fuoco, vestito come le anime del Purgatorio, e si mette per un sentiero stretto, fangoso, camminando come un veltro.
Io, carico come un somarello, lo seguo, accelerando il passo, inzaccherandomi orrendamente pur di raggiungerlo. Passiamo in mezzo ad una magnifica regione di bambù con spine acutissime, ed alti da 20 a 30 metri. Qua e là il sentiero scompare; un grosso tronco d’albero si sostituisce al cammino. La stanchezza incomincia a farsi sentire in un modo accasciante.
– Cerca stando? (sta vicino?) domando alla guida.
– Cerca stando? – e continua a camminare come una furia.
Il cuore incomincia ad aprirsi alla speranza: dimentico il calore, la stanchezza, e via per l’orribile sentiero. Qua e là qualche orma recente di tapiro americano, e la coda di qualche serpente che si nasconde nella foresta. Dopo un’altra camminata alla Maratona:
– Cerca stando? (sta vicino?) domando nuovamente alla guida.
– Cerca stando? (sta vicino?) – mi risponde, e continua velocemente.
Insospettito che mi conducesse a perdizione gli domando:
– Lejos stando? (sta lontano?)
– Lejos stando? – mi risponde, sempre camminando come una furia.
Il sospetto che nulla comprendesse del mio linguaggio incominciò a parermi realtà.
– Tonto siendo? (non hai intelletto?), gli dico con quel poco di fiato che avevo in petto.
– Tonto siendo? (non hai intelletto?) – mi risponde tranquillamente.
Il lupacchiotto, effettivamente, non comprendeva la mia lingua e ripeteva come un pappagallo tutte le parole, mostrando, in questo, un udito finissimo.
Sulle sponde del Zamora !
Fu giuocoforza rassegnarsi e continuare la marcia con santa pazienza.
Per buona fortuna la foresta incominciò a diradarsi, il sentiero a discendere, e dopo un’ora, più morto che vivo, bagnato come un pulcino potei arrivare sulle sponde bellissime del Zamora.
Il lupacchiotto si gettò subito in acqua nuotando come un ranocchio, ed io dimenticando ogni stanchezza ed ogni pena passata mi saziai del panorama divinamente sublime.
É il Zamora uno dei più bei fiumi dell’Oriente. alle volte maestoso, alle volte turbolento e rumoroso, scorre serpeggiando nel suo letto tra i monti pittoreschi. Sulle sue sponde la foresta tropicale perde il mistero e si mostra in tutta la sua bellezza, in tutta la sua grandiosità, con magnifici alberi curvantisi nell’onda e con altissime liane, vere chiome di giganti che si beano della soave frescura.
Come quasi tutti i fiumi orientali, il Zamora è prodigo di oro, e le sue sabbie opportunamente lavate abbandonano il prezioso metallo nelle mani di poveri coloni che vi arrivano dal lontano Sigsig. Al Zamora mi fermai alcune ore dilettandomi sopratutto delle pesche, che organizzavano i selvaggi nei piccoli affluenti, delle loro evoluzioni nell’acqua e sulle canoe.
Notte d’inferno !
L’imperversare però di milioni di moscherini pungentissimi e noiosissimi che si attaccavano alla faccia, alle orecchie, alle braccia, alle mani, con una crudeltà spietata, m’indusse a rifare il cammino. La mia piccola guida mi condusse ad una Kibaria, ove, provvidenzialmente, potei trovare il mio compagno. Fatto un po’ di catechismo e recitate alcune preghiere, stese sul suolo alcune foglie di banano ci addormentammo nella pace del Signore. Ma ecco scatenarsi un violento temporale: sinistri lampi e violentissime scariche elettriche scoppianti a poche centinaia di metri ci diedero l’impressione della tragicità della natura in queste spaventose foreste. Una pioggia violentissima incominciò a scatenarsi ed in poco tempo il grande capannone kibaro fu circondato da centinaia di porci selvatici che si accalcavano, che si mordevano, che emettevano grida infernali, cercando schivare la furia dell’acqua. Intanto in mezzo a questa terribile commozione degli elementi della natura il lontano Zamora s’ingrossava terribilmente, e ci faceva giungere un rumore cupo, assordante, come di centinaia di cannoni vomitanti fiamme e fuoco, rumore che si fece assai più distinto, quando, cessato il temporale e le piogge torrenziali, apparvero le brillantissime stelle. Dopo una notte così tragica, improvvisato un altare, celebrata la S. Messa, si poté riprendere la via del ritorno.
In compagnia di un porco selvatico!
Questa volta ci accompagnarono due selvaggi e un porco selvatico, e il viaggio fu amenissimo, perchè i Kibari dovendo guidare l’irquieto suino fino a Gualaquiza, colla speranza di un bel regalo si mostrarono veramente all’altezza dell’arduissimo compito. Potete immaginarvi quante avventure nel trascinare il simpatico animale, legato con una liana, non al muso, ma alla zampa destra e cercante ogni occasione per acquistare la perduta libertà tra la intricata vegetazione forestale! Quante volte abbiamo dovuto attaccarci anche noi alla corda per strapparlo da un nascondiglio, da un torrente!…
A Dio piacendo arrivammo al Bomboiza. I Kibari si gettarono in acqua col porco e furono all’altra riva tranquillamente; per noi però incominciarono le dolenti note.
Innanzi alla necessità, il selvaggio è superbo e pretendente. Il vecchio kibaro, padrone della canoa, non ci volle passare, e ci fu necessario colle belle maniere indurre il suo genero, pagandogli alcuni metri di tela per la moglie. Il furbacchiotto, però, invece di condurci alla riva ci portò su un isolotto ed incominciò a pretendere altri regali. Avrebbe meritato qualcosa d’altro, ma facendosi il cielo minaccioso e temendo l’ingrossare del fiume, fu giuocoforza cedere. Non mi rimaneva che il fazzoletto da naso ed un bel drappo rosso che avvolgeva la macchina fotografica, e facendo buon viso a cattivo giuoco, glielo posi sulle spalle, rendendolo oltremodo felice e premurosissimo nel passarci alla riva opposta. Dopo alcune ore, le campane della chiesetta della Missione ci accoglievano festosamente ed alla Vergine Ausiliatrice s’innalzava la nostra fervorosa preghiera di ringraziamento.
Un tamburo che ride, parla, canta !
Il sacrifizio, gli strapazzi del viaggio ci furono largamente ricompensati. Il giorno seguente incominciarono le visite alla Missione. S’era sparsa la voce che i missionari avevano portato un gran tamburo che rideva, che parlava, che cantava, che suonava, che faceva la guerra. Infatti nei nostri cassoni avevamo un gramofono con molti bei dischi. Quasi nessuno dei selvaggi aveva visto un simile istrumento. Come battezzarlo? La parola « gramofono » dei missionari era troppo difficile e sopratutto nuova; ed essi, senza alcun congresso glottologico, lo battezzarono col nome del più comune e più grosso istrumento musicale della loro razza, cioè di « Tunduli » (tamburo).
– Tunduli oyendo, tunduli oyendo – era la frase che ripetevano centinaia di bocche sbucate dalle più remote foreste, e le più belle suonate formarono la felicità dei poveri figli della foresta, sopratutto delle donne, che vinta la prima apprensione, scomparsa la paura che in un istrumento tanto strano ci fosse il demonio si divertivano un mondo ad udirlo.
L’ora della Redenzione ?
Amatissimo Padre, la recente visita di Monsignor Comin, le esplorazioni compiute, le novità introdotte, hanno suscitato in molti selvaggi un sentimento di simpatia verso i missionari. La razza kibara pur mostrandosi così superba, così feroce, non è destinata così presto a scomparire. In questi ultimi dieci anni aumentarono di qualche centinaio, e molti giovinotti, che più degli altri furono in contatto colla civiltà cristiana, mostrano una certa arrendevolezza e sarebbero felici se i loro figli o le loro figlie potessero essere educati da salesiani o da suore. É vero, sono velleità molte volte, sono frasi interessate, ma sono moralmente sicuro che il giorno in cui noi avremo alcuni sacerdoti ardenti, generosi, che con alto eroismo percorreranno periodicamente, con costanza, queste foreste, l’ora della Redenzione suonerà per questi infelici!
In questi giorni, i missionari hanno scoperto una orribile trama, ordita dai Kibari per annientare il potente Timasa: la parola di Cristo ha per ora disarmato gli assassini venuti alla Missione; ma quante stragi si eviterebbero, quanti odi si attutirebbero, se i missionari potessero arrivare alle loro case e lentamente condurli alla vera pace di Cristo!
Amatissimo Padre, animati dalla sua fervida parola, e mercé le offerte, raccolte da Monsignor Comin, in tutte le Missioni si stanno dissodando terreni, ingrandendo le case, aprendo cammini! È tutto un lavoro febbrile di preparazione per attendere i nuovi apostoli che il Signore si degnerà suscitare per svolgere un grande programma di evangelizzazione e redenzione di una razza tanto indomita e tanto superba.
Una fede invitta nell’efficacia del sistema educativo di Don Bosco ci apre il cuore alle più belle speranze e ci fa vedere vicino il giorno in cui la Vergine Ausiliatrice avrà l’umile ossequio dei Kibari superbi.
Ci benedica.

Prof. Don CARLO CRESPI.

  1. La tzanza è la pelle arrotondata del cranio di un nemico, con i capelli e senz’ossa, assai rimpicciolita anche per il processo speciale con cui viene preparata, che il Kibaro conserva, piena di sabbia, come trofeo di gloria. []

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Gli indios della Sierra Ecuadoriana – 1923 – Lettera tratta dal Bollettino Salesiano n. 3 del 1924).

Amatissimo Padre,

Dopo una rapida rassegna su ciò che di più caratteristico colpisce nella meravigliosa natura ecuatoriana, alcuni cenni sui non meno carattetistici costumi degli Indios abitanti nelle campagne della Sierra, specialmente nei dintorni di Quito. E dico caratteristici, perché se le belle città di Guayaquil, Quito, Cuenca, ecc. hanno una popolazione prevalentemente bianca con una educazione ispano-americana, con uno squisitissimo senso di ospitalità e uno spirito di lavoro, di coltura artistica e letteraria, che può competere con qualunque città europea, molti paesetti sparsi sulle erte pendici delle Ande e nelle fertili vallate albergano le preziose reliquie della primitiva razza americana, che nel contatto colla civiltà cristiana molto ha perduto dei primitivi ed originali costumi, non poco però ancora conserva di interessante per uno studioso.

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Vulcano Chimborazo
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Vulcano Tungurahua
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Vulcano Cotopaxi

Un po’ di storia.
Donde vennero i primitivi indios, in quale epoca incominciarono a stabilirsi nelle fertili pendici dei giganteschi vulcani, è ancora un punto troppo oscuro ed indeciso nella interessantissima storia americana. I più remoti ricordi storici dei più civili popoli antichi del Messico e Perù risalgono al 1000 dopo Cristo e la preistoria dell’Equatore solo ora, grazie agli studi di una giovanissima e preparatissima scuola nazionale, va lentamente risplendendo in tutta la sua verità. In mezzo al caos delle ipotesi avanzate dai diversi studiosi è chiaro che pochi anni prima della scoperta dell’America, cioè verso il 1457, Tupac-Jupanqui, 12° re degli Incas, e suo figlio, Huaina-Capac, con fortunate spedizioni militari riuscivano a sottomettere le già organizzate tribù della Sierra ed incorporarle al grande impero degli Incas del Perù.
Nel 1534 Francesco Pizzarro, avventuriero spagnolo, diede ordine a Diego de Almayo e a Sebastano Benalcazar di invadere i territori ecuatoriani ed il 6 dicembre dello stesso anno cadeva Quito ed incominciava la dominazione spagnola e la evangelizzazione delle numerose tribù conquistate.
Il 24 maggio 1822 il generale Sucre vinceva la battaglia del Pichincha e rendeva libera ed indipendente la eroica nazione ecuatoriana, incorporandola, o meglio confederandola alla Grande Colombia del generale Bolivar: otto anni dopo, l’Equatore si staccò dalla Grande Colombia, ed incominciò a governarsi da sè.
La dominazione degli Incas influì assai poco nelle diverse tribù ecuatoriane, e non riuscì neppure a generalizzare il loro idioma. Nell’anno 1583 il primo sinodo diocesano ordinava che si componessero catechismi differenti per ogni tribù; solo più tardi la lingua Kichua, fu generalizzata dai missionari e proprietari di aziende, e s’impose talmente da far scomparire le antiche lingue.

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1926 – Shuar fotografato da P. Crespi

Caratteri antropologici.
È ormai accertato dai dotti la provenienza di tutte le popolazioni indigene di America dall’Asia Orientale. Diverse furono le emigrazioni ed in diverse epoche e direzioni, prevalendo in generale quelle da nord a sud: asiatico è quindi il substrato antropologico e linguistico del Kichua della Sierra.
Di un bel color rame hanno il pelo lungo e lucido e lo sfoggiano specialmente gli uomini e giovanotti nella lunga e folta capigliatura spiovente alla Nazzarena sulle ben tarchiate spalle. La barba è ridotta od assente; ed hanno occhi negri, generalmente piccoli, pomelli prominenti, faccia larga, cranio brachicefalo, statura mediana con prevalenza del tipo basso, piede abbastanza piccolo.
L’indio della Sierra è di carattere malinconico, taciturno. All’arrivo del treno nei diversi paesetti voi li vedrete a centinaia, tutti rispettosi, tutti muti; parrebbero sempre sotto la minaccia di non so quale catastrofe, o sotto l’incubo di una delle così frequenti e poderose eruzioni vulcaniche, o mosse telluriche, che nell’andar dei secoli hanno cosparso di cenere le fertilissime campagne ed aperto nella squarciata roccia la voragine della morte. Sono muti, taciturni, specie innanzi allo straniero; ma buoni, educati, vigorosi, robusti nel trasportare sulle spalle i pesi più ingombranti.

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1926 – shuar fotografato da P. Crespi mentre attraversa un torrente con il suo fardello sulle spalle

La natura montagnosa dell’altipiano andino è tale che non permette un grande sviluppo di ferrovie e di strade mulattiere, e su per l’erte pendici dei monti va il povero Indio con un pesantissimo fardello sulle spalle, e cammina cammina per ore intiere, per giorni, per settimane. Al mercato di Quito è facile veder arrivare dalle più lontane valli, baldi giovanotti dalla magnifica capigliatura, uomini maturi, donne di tutte le età con carichi di raspadura o zucchero greggio, sacchi di frumento, orzo, mais, patate, erba medica, foglie di eucalipto, e persino con pietre da costruzione e mattoni. Non domandate a questi indios se sono stanchi, se sono malcontenti di questa vita randagia: fanciulletti di pochi anni, da una ereditaria tradizione familiare furono abituati a curvare le spalle al fardello; sulla strada polverosa, per il pericoloso sentiero andino, accanto al robusto indio, voi vedete il ragazzetto ancor tenero, che s’addestra a quella che sarà la dura vita del domani.

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1926 – ragazze shuar fotografate da P. Crespi

Vestito.
Il vestito dell’indio è semplice: un paio di calzoni corti, una camicia, una coperta caratteristica, detta poncho, con un foro nel mezzo e ricoprente la schiena, le spalle, il petto; sulla testa, un vecchio cappello di feltro. Le donne pure sono tradizionali nei loro indumenti: una sottana, un corpetto, con le braccia scoperte; e, sulle spalle, una specie di mantello che serve per involgere nelle marce i bambini o qualunque altro peso; e le vedrete nella costruzione dei palazzi governativi e civili, nella pavimentazione delle strade, accanto ai mariti e fratelli condividere le gioie del lavoro con badili, zappe, ecc.
L’india è un modello di attività e di amor materno: nella casa il suo lavoro intorno ai figli, nell’azienda il duro travaglio agricolo, ed in viaggio alla città per lo scambio dei prodotti, sempre col suo fardello sulle spalle, e nelle mani la rocca per filare la lana.

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Mamma shuar prepare il pranzo

Cibo e bevande.
L’indio è di una parsimonia veramente patriarcale. Durante i lunghi viaggi attraverso le Ande pittoresche osservate l’indio che vi accompagna con una gentilezza ed attenzione ammirevole: è l’ora di un breve riposo, il sole perpendicolare alla vostra testa e certi gemiti della umana macchina locomotrice dicono la necessità di rifornimento. L’Indio si getta per terra: apre il sacchettino che porta a tracollo. Non cercate pane, polenta, carne, formaggio, uova, qualche bevanda, no; poche manate di grani di mais, cotti nell’acqua semplice, divorate senza coltello e cucchiaio, con un appetito da cacciatori, vi diranno la sorprendente parsimonia di questo vostro preziosissimo amico di viaggio.
Alla sera pure ed al mattino, pochi ettogrammi di grani basteranno a saziargli la fame. Dategli un pezzettino di carne, gli avanzi di qualche dolce, e sopratutto un bicchierino di acquavite, e voi ne avrete fatto l’uomo più felice di questo mondo, l’uomo che durante il pericoloso viaggio vi assisterà con una fedeltà e intelligenza sorprendente.
Anche in famiglia il mais è la base del nutrimento: dal mais sopratutto l’indio prepara una bevanda molto alcoolica: la così detta ciccia, da non confondersi colla famosa ciccia dei Kivari. I grani di mais sono posti in acqua per 3 giorni; estratti, si lasciano germogliare sotto una stuoia. Incominciato il germoglio, si pongono a seccare al sole; poi, triturati in un mortaio, la grossolana farina, che se ne forma, si pone a bollire per alcune ore con acqua, zucchero greggio e sostanze aromatiche. Il liquido che ne resta si lascia raffreddare, si imbottiglia e, dopo una settimana circa, può esser servito come uno spumante delizioso.

In questione di bevande l’indio non va troppo pel sottile; ha una tendenza spiccatissima per l’alcoolismo, e quando può avere qualche piccolo risparmio in denari, difficilmente sa vincere la pericolosa tentazione: l’odore dell’acquavite lo trascina alla bettola e beve, beve, colla più grande voluttà, la velenosa bevanda che lo esalterà e che gli darà una vivacità di linguaggio, così insolita nei tempi di calma.

Oltre al mais, le patate, il lupino, le lenticchie e l’orzo sono parte importante della nutrizione. La carne ben raramente arriva alla mensa del poverello: se si eccettua qualche buon pezzo di maiale ogni tanto, e sopratutto qualche gustosa porzione di porcellino d’India, che cammina in tutte le capanne.

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Famiglia Shuar davanti alla propria abitazione

 L’abitazione.
L’Indio non ama i grandi palazzi, non ha bisogno d’architetti nè d’ingegneri per la sua capanna, sopratutto nell’aperta campagna. Pochi tronchi piantati per terra, ricoperti di paglia o di fango, e tutto è pronto. Finestre? Nessuna. Caminetto per il fumo? Neppure. Come letti, alcune pelli di pecora e stuoie gettate per terra: le lenzuola sono un ingombro, una buona coperta di lana o di tessuto grossolano è sufficiente per ripararsi dal freddo. Alcuni piatti ed alcune pentole, ecco il patrimonio dell’Indio che è felice e non desidera di più, e rifiuta assolutamente altre comodità. Entrate in una di queste capanne sopratutto durante una escursione, e vedrete il candido, spontaneo sorriso di questi poveri figli del campo: vedrete le mamme gettarsi in ginocchio ai vostri piedi, e chiedere la benedizione, vedrete gli uomini robusti levarsi il cappello e baciare con vero spirito di fede la mano sacerdotale. Oh la benedizione del sacerdote è preziosa e ricercata come una manna celeste! Oh quante volte passando anche per le vie delle città, sopratutto i cari bambini vanno a gara a gettarsi ai piedi del sacerdote con le mani giunte e con un’effusione di bontà sincera!

Religione.
La religione dell’Indio è veramente grande, veramente sentita. Entrate in una qualunque delle chiese della Sierra, in giorno di festa durante le sacre funzioni, e vi sorprenderà il profondo silenzio e la profonda divozione con cui si assiste ai sacri riti.
Nel maggio e giugno scorso ho visto l’entusiasmo religioso di un popolo minacciato dalle terribili scosse di terremoto e il vivo fervore con cui ci celebrarono le imponenti feste del Sacro Cuore di Gesù. Dalle più remote pendici dei monti vicini discesero questi figli del popolo con candele, con piatti d’incenso fumeggianti; e uniti al fior fiore dell’aristocrazia fecero echeggiare nella città per ore ed ore le più commoventi note d’invocazione alla Vergine Ausiliatrice. Scene indimenticabili, scene commoventi, che dicono lo sforzo magnifico operato dai Missionari nei secoli passati, e che dice sopratutto la grande Fede patriarcale, conservatasi fino a questi giorni, malgrado l’estrema scarsezza di operai evangelici, che li possano avvicinare con più frequenza.
A questa scarsezza è dovuta la permanenza di qualche superstizione, isolata a qualche paesetto remoto e rilevata dai missionari Lazzaristi e Redentoristi, che con immenso sacrificio cercano la pecorella smarrita nelle più inaccessibili contrade.
Dite a qualche indio che andrà all’inferno per suoi peccati e vi risponderà con sentimenti di fatalismo: – Se Iddio lo comanda che cosa dobbiamo fare? Il Signore disponga pure! – Oppure con tutta tranquillità si pacificherà, pensando che l’inferno è solamente per i bianchi!…
In qualche romita frazione non è difficile incontrare indios che raccolgano sassolini e li portino sulla cima del monte in onore dello spirito del monte, oppure altri che per impetrare da Dio la grazia di un felice viaggio pongano sassolini accanto ad un Crocifisso o un’immagine religiosa.
Resto del paganesimo è pure l’usanza, isolata, di dar da mangiare e da bere ai defunti; ed è ridicolo il costume vigente in qualche paese di castigare il Santo Patrono, interrandolo nell’arena, quando la siccità si prolunga, e di metterlo all’aperto, quando le piogge non cessano.

Cerimonie funebri.
Nella gran lotta per l’esistenza l’indio possiede ancora il mirabile e primitivo istinto preservatore, che purtroppo va perdendosi nei paesi civili. L’erba del campo, del prato, del bosco, ecco la farmacia del povero, che non ha medici e non vuole sapere delle loro cure. Con una memoria sorprendente, fanciulli di pochi anni già vi sanno dir il nome di moltissime erbe e sopratutto la loro efficacia curativa, ed effettivamente moltissime sono le guarigioni. Nel popolo esistono ancora degli anziani, detti curanderos, che molte volte possiedono specifici sorprendenti.
E quando la falce della morte entra in qualche capanna, unita alla rassegnazione cristiana, vi entra anche il tradizionale gemito di compassione. Vengono le donne piangenti, che con alte, disperate grida vanno esaltando le virtù dell’estinto, senza interruzione, cogli aggettivi i più affettuosi e soavi. In alcune parti, benché assai di rado, ancor vige l’antico costume di banchettare e ballare dopo la sepoltura, intorno alla tomba. Usanza generale obbliga tutti i parenti a radunarsi dopo il quinto giorno, a lavare tutta la roba dell’estinto e con un dado sorteggiare l’erede ed il pagatore delle spese funerarie. Il culto per i morti è commoventissimo e non c’è indio che il 2 di novembre non faccia recitare dal sacerdote un “Libera me Domine” e un “De profundis”.

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Ballo shuar al suono dei tamburi

Musica e balli.
L’indio è musico nato: la magnifica bellezza dei panorami andini, lo splendore dei tramonti, il clima soave della Sierra in eterna primavera, lo invitano al suono ed al canto. E con piccole cannucce perfettamente intonate, si fabbrica il suo Rondador ed all’alba e al tramonto, sulle pendici del Pichincha, del Cotopaxi, del Cimborazo, zuffola la mesta arietta, il suo simpatico San Juanito, che riflette l’animo triste e melanconico. Musica mesta, profondamente mesta in una scala incaica in re minore, colle sole note re, fa, sol, la, si, con sole 5 note in tempo forte. Anche nel sacro tempio è preferita la lode triste, che vien cantata a terze, con passione e dolore profondo, davvero commoventi.
Nelle occasioni più solenni l’indio ha pure la sua banda: pochi istrumenti gli bastano: una gran cassa, un cornetto, un trombone, un basso e un clarino costituiscono una musica facilmente mobile, di poca spesa e di pieno suo gradimento.
Le feste religiose sono celebrate con uno sfarzo esterno rumoroso: luminarie pittoresche, grandi colpi di mortaretti e di bombe, razzi esplodenti nel cielo e musica a gran forza, con prevalenza della gran cassa.
Non manca mai il ballo, eseguito con costumi più appariscenti e molte volte con una certa grazia e proprietà. Uno, gentile, è comune nei dintorni di Quito. Allegri giovanotti danzano intorno ad un tronco di verdeggiante albero, tenendo in mano un nastro colorato; a passo cadenzato e in un turno prescritto, ognuno va formando un leggiadrissimo disegno, attaccando ed intrecciando il nastro al tronco: in senso inverso e, sempre ballando, ognuno riprende il suo nastro, finché torna alla posizione primitiva. Balli, canti, feste religiose sono gli unici, innocenti divertimenti di un popolo che lontano dai sollazzi di una civiltà raffinata, non sa desiderare di più, e gode ed è felice di vivere così.

Amatissimo Padre, eccole alcune brevi notizie ed impressioni sull’indigeno e simpatico indio ecuatoriano, di quell’indio che tre secoli fa ancora non credeva in Dio, ed ora lo ama e lo adora con un profondissimo sentimento religioso, di quell’indio che tre secoli fa era immerso nelle più profonde tenebre del paganesimo ed ora si bea ai purissimi raggi del sole cristiano. Alcuni chilometri più abbasso del Tunguraghufa e Schangay altre tenebre, altre barbarie, altri dominii assoluti del demonio, i nostri carissimi Kivari. Quando spunterà per essi il giorno della Redenzione, quando la potente Ausiliatrice s’assiderà Regina e Sovrana in mezzo a queste impenetrabili foreste amazzoniche?

Amatissimo Padre, di loro e dell’eroico lavoro dei missionari, dirò in altra mia.

Prof. Don CARLO CRESPi Missionario Salesiano.

Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Resoconto del suo viaggio da Guayaquil a Quito – maggio 1923)

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Don Carlo a bordo del Piroscafo “Venezuela” – marzo 1923

 

Amatissimo Padre,

Mentre il Condor volteggia maestoso sulle pendici dei giganteschi vulcani, innalzantisi verso il cielo in una candidissima veste di neve, mentre il vorace Coccodrillo sulle rive del Guayas nella putrida melma, sonnecchiando, si bea degli ultimi raggi solari ed il Giaguaro, nell’immensa foresta, emette il terribile grido vespertino, ammonitore dell’insaziabile sua fame, e tutta l’innumerevole schiera dei serpenti, dal boa colossale alla vipera insidiosa, s’apprestano alla giornaliera opera distruggitrice ed avvelena-trice, il mio saluto commosso, cordiale. Non può immaginare quante cose avrei a dirle del lungo viaggio attraverso l’Atlantico ed il Pacifico, e soprattutto sulla traversata di quasi tutto l’Equatore, dalla tropicale Guayaquil alla temperata Quito, e come tante, tantissime volte, rapito nella sublime contemplazione della natura mi sono sentito schiacciato dall’Onnipotenza creatrice di Dio, umiliato innanzi alla vista di un mondo nuovo, ancora quasi completamente dalla scienza inesplorato. Veramente l’Ecuador offre al diligente osservatore meraviglie sopra meraviglie, bellezze sopra bellezze. L’alpinista qui trova un campo vastissimo d’escursioni, lo scienziato materiale inesplorato, il missionario un lavoro fecondo. Mi limiterò ad alcune osservazioni su ciò che di più caratteristico colpisce lo straniero in questa piccola Repubblica, grande di eroismo. Dal Guayas a Guayaquil. Lasciando il Pacifico e risalendo in alta marea il maestoso Guayas, subito lo sguardo rimane colpito dalla prodigiosa vegetazione delle sponde: platani colossali, manghi sviluppati, aranci, grande varietà di palme. Fissate l’occhio nella torbida onda e subito rimarrete colpiti dalle numerose schiere di delfini, assai più sviluppati di quelli dell’Atlantico e del Mediterraneo, e sfidanti la velocità del piroscafo con ritmiche capriole, come squadre di sottomarini. Non mirate gli orribili pescecani e neppure i pesce-spada, assai rari, guardate invece l’esercito immenso di pellicani solcanti l’onda e con velocità sorprendente caccianti l’incauto pesce che appare alla superficie.

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Il porto di Guayaquil negli anni ’20

La perla del Pacifico. Il piroscafo intanto lentamente vi ha condotti innanzi a Guayaquil, la perla del Pacifico, la città delle belle chiese, del lavoro febbrile, del commercio del cacao, zucchero, banano, e dei famosi cappelli Panama. A pochi metri dalla spiaggia il Collegio Salesiano Cristobal Colon con una magnifica chiesa in costruzione, all’altro lato della città l’Orfanotrofio Santistevan. Siamo in pieno clima tropicale: il termometro non discende mai sotto i 19 gradi e non sale mai sopra i 35 gradi: due stagioni solamente. L’estate secco, arido e senza una goccia di pioggia, ma con una ristorante brezza marina da maggio a dicembre; l’inverno con un caldo soffocante, con piogge periodiche e con un imperversare di zanzare ed altri piccoli insetti, delizia e meraviglia dello scienziato e del collezionista, tormento certo poco gustoso del passeggero, che molto volentieri farebbe a meno di tanti animaletti, uno più curioso ed interessante dell’altro. Volete pigliarvi la soddisfazione di vedere in America dei colossali coccodrilli di più di sei metri? risalite per poco gli affluenti del Guayas e vedrete dei magnifici esemplari del Crocodilus Occidentalis, accoccolati nella melma.

Mirate attentamente tra il folto fogliame della sponda e vi colpiranno pure delle meravigliose Iguane di circa un metro di lunghezza. Se siete curiosi di vedere il famoso Basilisco, abbiate pazienza; fate due passi nella foresta, naturalmente colla massima precauzione per non pestare la coda di una delle tanti serpi velenose, e ne vedrete dei leggiadrissimi, di un vivissimo color verde, tranquilli, pacifici, assolutamente inoffensivi. Se siete fortunati nelle vostre ricerche, non vi sfuggirà la vista di una graziosissima lucertolina l’Ameiva vulgaris, di un nero lucente, con punti azzurri e gialli. Per carità non datevi conto delle centinaia di migliaia di farfalle, che con ritmi e movimenti bizzarri vi circolano intorno: le migliori irradiazioni dell’iride dal supremo Artefice magnificamente intrecciate danno al vostro occhio un’impressione gradevolissima: bianchi leggiadrissimi con punti neri, verdi smeraldo, azzurri, rossi scarlatto, ed un’infinità di gradazioni dal giallo dorato al violetto lucente. Il piumaggio degli uccelli è meraviglioso: dal rosso del comunissimo Cardinale, al nero cupo del Gallinazo o catarstes atratus, rapace, fornito di un odorato finissimo, vero spazzino della città, chiamato foeteus, perchè ha una predilezione grandissima per i cavalli e i cani putrescenti. Nella notte poi in un trionfo magnifico di stelle dell’uno e dell’altro emisfero colla brillantissìma Croce del Sud un fenomeno curiosissimo che facilmente potrà trarvi in inganno. Nell’Ecuador tutto è colossale, e le lucciole, dall’addome fosforescente, non solo timidamente volano rasente terra, ma s’innalzano tra il vigoroso palmizio di cocco e con movimenti rettilinei vi danno la bellissima impressione di stelle cadenti: moltissimi stranieri restano veramente ingannati. Persino le blatte sono esageratamente sviluppate. Aprite un armadio con un po’ di farina, e le vedrete correre in tutte le direzioni, vivaci, grosse il triplo di quelle europee.

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Vulcano Chimborazo

Verso la capitale. Ma è ormai tempo di abbandonare la città: se avrete la sfortuna di arrivarvi d’inverno, è assolutamente necessario muovervi. Il magnifico Cimborazo vi invita: il mostro gigante, che s’innalza a ben 6100 metri e che supera di ben 3000 metri le più alte cime della sierra, vi si profila nell’immenso orizzonte in un copioso ammanto di neve: se riuscite a scorgerlo dal mare ditevi fortunati, perchè è bello, è grandioso, è sublime, ma raro, prezioso. Le nubi, gelose molte volte, troppe volte, lo nascondono nella loro veste cinerea. Via quindi da Guayaquil e subito ai monti. Una ferrovia, una delle più alte del mondo, vi trasporta fino alla capitale, a Quito. Se non vi viene il male della montagna, se l’ardente calore non vi ammazza, gustate tutta la natura nel suo magnifico splendore. Nella zona palustre nidi grossi di formiconi tra i rami degli alberi, eserciti immensi di uccelli acquatici, farfalle dai più variopinti colori, ninfee magnifiche, salvinie, ecc. Poco per volta si profilano le caratteristiche coltivazioni tropicali: banani giganteschi, aranci frondosissimi, canna da zucchero, juca, ananasso e, nel bosco, bianchi fiocchi che vi indicano lo sviluppo dei cotone selvatico; più in alto il cacao, la pianta principe, il vero oro dell’Ecuador nei secoli passati, ed ora purtroppo deprezzato da una concorrenza fenomenale all’estero.

Nel cuore della foresta. Il treno cammina, cammina; e, senza accorgervi, v’interna nelle gole dell’alta montagna, nella zona delle foreste vergini. Lo scrosciare spaventoso dei torrenti dalle curve più bizzarre, le ripide cascate di centinaia e centinaia di ruscelli che s’abbassano a valle, picchi inaccessibili, magnifiche palme che preziosissime sarebbero nei migliori giardini europei, anturium, dalle foglie larghe un metro, centinaia di bromegliacee fiorenti sugli alti alberi, splendidi liane come lunghi cordoni di navi innalzantisi dall’umida terra all’alta cima, passiflore e tasconie dai fiori vivissimi, e migliaia e migliaia di piante sparse nell’impenetrabile foresta ed ognuna in lotta gigantesca coll’altra per innalzarsi e far brillare nel libero cielo il magnifico fogliame e la caratteristica fioritura: ecco la natura nel suo massimo splendore. Benedetto sia Iddio che tante cose ha create!

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Il monte “Nariz del Diablo”.

La ” Nariz ” del diavolo. Saliamo, saliamo ancora: la magnifica vegetazione si fa meno lussureggiante; agli alberi succedono gli arbusti. Il ricino, da cui si estrae un olio già famoso in Italia, nell’Ecuador cresce spontaneo ed è un bell’alberello legnoso di alcuni metri di altezza. Osservate per terra: il colore dei fiori incomincia a divenire più uniforme, predomina un giallo vivace, segno di stanchezza. La macchina del treno, pure, dà segni di stanchezza, si prepara a fare una pericolosa salita, la famosa Nariz (il naso) del diavolo, monte a picco in forma di naso. Il treno sale lentamente, lentamente, e questa lentezza vi riempie di uno spavento, di una suggestione glaciale. Non osservate fuori del finestrino: un orribile abisso vi si para dinanzi. Non pensate che il freno potrebbe rompersi, che un carrozzone potrebbe staccarsi dalla locomotiva e, nella corsa vertiginosa lungo le rotaie, trascinarvi e massacrarvi nella valle…

La regione del Cimborazo. L’aspra salita è compiuta: l’aria si fa più fresca, la vegetazione sempre più scarsa. Siamo vicini al magnifico Cimborazo a quota 3000 metri, ed il colosso s’innalza ancora, ed è alto, altissimo. Appuntate un binoccolo e vedrete qualche Condor che volteggia sulle pendici, vedrete un ghiacciaio colossale con un’orrenda spaccatura e nascondente chissà quale precipizio. Il treno cammina ancora rimanendo ad una quota di circa 3000 metri e percorre il grande altipiano andino: lasciate la gentile città di Riobamba con una bella chiesa salesiana in costruzione, ed osservate la nuova vegetazione: il terreno è coltivato. Oh non cercate quassù il mais dalle pannocchie da terra promessa, l’erba medica sviluppata, il lupino, il frumento, l’orzo in produzione rigogliosa! Li troverete certo in qualche azienda, o fattoria, più lontana dalla ferrovia. Discendete dal treno, pigliate una manata di terra: è nerastra; è la cenere che le imponenti e relativamente recenti eruzioni vulcaniche hanno rovesciata a tonnellate, rendendo impossibile una pronta coltivazione.

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Tunguragna in eruzione

La regione di Tunguragna. Avanti ancora un poco e vi si profilerà un altro colosso, il divino Tunguragna, ancora in eruzione. Com’è magnifica, com’è stupenda la vista di questo gigantesco colosso, innalzantesi ben 3000 metri sopra tutta la immensa cordigliera delle Ande, rivestito di neve e con un pennacchio di fumo a volte di nero carico, a volte leggero, mandante ogni tanto bellissimi riflessi infuocati, che nella notte gettano una luce rossastra, sempre sinistra, sempre insidiatrice, sempre minacciosa di chissà quali spaventosi fenomeni tellurici. Strati immensi di ceneri, bombe colossali gettate dalla potenza eruttiva a centinaia di metri, chilometri e chilometri di lava andesitica, recente ed antica, vi diranno tutta la maestosità dei fenomeni tellurici susseguitisi nei secoli. Nell’alto altipiano della Sierra, non cercate la vegetazione lussurreggiante: una graminacea di un color grìgiastro, Stipa Ichu, vi si distende per chilometri fin quasi alla regione delle nevi.
Arrivati ad Ambato, la gentilezza insistente dei contadini vi offrirà per pochi soldi qualche grappolo d’uva, non certo come quella delle feraci colline piemontesi; fragole grossissime, ma di un sapore un po’ agro, pere, mele. Qui non si vende al minuto; bisogna comperare addirittura un canestro di alcuni chili; siate quindi compiacenti; prima di arrivare a Quito, avrete con che far passare il tempo. Un botanico però ha da che perdere la testa: ogni decina di chilometri incontra novità, meraviglie. In mezzo alla natura del triste panorama e lontano dai centri abitati, bellissime gigliacee, composite curiose, solanacee arboriformi; e, rampicante sugli arbusti, una liana dagli smaglianti colori rossi, la tasconia, nelle sue differenti specie. Delle fucsie esistono bellissime varietà. Sulle rocce umide, larghissime incrostazioni verdi: è la fegatella stellata, una graziosa crittogama. Intorno alle case s’erge maestoso, gigante, l’eucaliptus. Che magnifica pianta sempre verde, che preziosità per la sierra, così povera di legname da costruzione!
Siamo arrivati nei dintorni di Quito. Boschi interi di questo prezioso albero la circondano da ogni parte. L’eucaliptus, che arriva anche a 40 metri di altezza, serve, oltre che a costruire case e fornire legna da ardere, a curare alcune malattie, tra cui le affezioni pettorali per la preziosa essenza di Eucaliptol che contengono le foglie.

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Quito con il Cotopaxi sullo sfondo

Quito. Quito, una delle più alte città del mondo, vi offre un soggiorno delizioso: magnifiche le chiese, ricche di quadri di valore, preziose le biblioteche dei religiosi e dei privati, e sopratutto la Nazionale; interessanti sopratutto le viste panoramiche dei vulcani. Il Pichincho è, a poche ore di strada; il Corazon, l’Illiniza, il Caiambe la rallegrano colle loro bellissime cime. Fate poche ore fuori della città, sulla strada della Maddalena, e vi apparirà il Colopaxi in tutto il suo splendore: un gran cono, geometricamente quasi perfetto, ricoperto da un candidissimo ammanto di neve. Ora riposa nella gelida veste; pochi anni or sono diede uno degli spettacoli più maestosi di attività. Fate pochi passi lungo le grandi spaccature aperte dai torrenti, e potrete comodamente raccogliere felci, tasconie, fucsie, solanacee arboriformi. Prodigiosa sopratutto è la vegetazione dei muschi: alle falde del Pichincho, ne potei raccogliere ben 20 specie sulla corteccia di un vecchio albero. I fichi d’India, i cactus, e sopratutto l’agave americana, coltivata come confine tra aziende particolari e sfruttata per la fabbricazione della corda, vi diranno che siamo in un paese tropicale, con una media di temperatura di 12 gradi. Lungo le strade mulattiere e nelle profonde valli incise splendidi ceppi di arundo nitida con spighe meravigliose. Salite le falde del Pichincho ed incontrerete campi coltivati fino a quasi 4000 metri con mais, frumento, orzo, e sopratutto patate. Volete ricrearvi l’animo? Passate alcune ore all’Alameda, ove esiste il magnifico Osservatorio Meteorologico ed astronomico, fondato dal celebre Garcia Moreno, circondato dall’orto botanico, fondato dal non meno celebre Padre Sodiro, gesuita. Pochi minuti di strada vi portano al Collegio Salesiano di Quito, con buone Scuole professionali, con un nuovo e fiorente Oratorio festivo. Nella chiesa un prezioso ricordo: il quadro di Maria Ausiliatrice, donato da Don Bosco morente ai primi salesiani partenti per l’Ecuador e l’eco dell’ultima parola del nostro Fondatore: « Benedico Quito, la città del Sacro Cuore! ».

Sac. Dott. CARLO CRESPI Missionario Salesiano.