Molto presto, dopo l’arrivo di Don Carlo in Ecuador, cominciarono a sorgere dei conflitti con Mons. Comin e con il suo Vicario, P. Albino del Curto. Egli scoprì molto presto le limitazioni di Mons. Comin, al punto di scrivere in forma confidenziale ai Superiori di Torino:
“Manca una testa che d’accordo con i superiori di Torino organizzi un piccolo programma e abbia a seguirlo. Mi si stringe il cuore a dirlo e a ripeterlo un’altra volta: Con Mons. Comin (malgrado la sua virtù e santità) si potrà realizzare ben poco, anche con grandi mezzi. È necessario un superiore, che dipenda dal Capitolo Superiore, che imponga e controlli un programma prudente. Il povero Monsignore ha dei momenti in cui sembra esaurito, durante i quali perde il senso della responsabilità e della gestione; quindi, ci si può immaginare che cosa ne sarà di questa Missione. Per quanto mi riguarda, se non avessi una grazia specialissima di Dio e una particolare assistenza di Maria Ausiliatrice, unite alle poche disposizioni impartite da Torino, non muoverei un passo, data l’incredibile indecisione di Monsignore e la fuga da qualsiasi responsabilità di iniziativa”. (lettera del 14/09/1925 da Quito a don Ricaldone).
Davanti alle opposizioni e alle critiche, don Carlo mantiene un atteggiamento altamente evangelico che lo portano ad evitare i confronti e le asprezze. Così scrive al Superiore:
“Ciò nonostante, mi sforzerò di mantenere sempre la santa pace di Dio. Oh se sapesse quante volte devo tacere, nascondere, comportarmi come se non vedessi e portare come unico testimonio della mia attività lo sguardo di Dio. La generosità fino all’eroismo con i miei oppositori è l’arma che io ho scelto: pregare per loro, aiutarli in tutto, sacrificarmi: ho qui la mia vendetta. Nei primi anni risono permesso qualche critica alla buona. Ora io non parlo, lavoro, lavoro senza un minuto di riposo per poter vedere finalmente queste missioni su una base di progresso e di bene. (Lettera – incompleta – del 7/04/1928 a qualche Superiore di Torino).
Scrivendo da New York, si lamenta della situazione dei pettegolezzi e e dei fraintendimenti che ci sono tra i salesiani dell’Ecuador per gli ostacoli che frappongono al lavoro della comunità. Così si esprime con nel cuore la serenità del Vangelo:
“Reverendo don Ricaldone, per i nuovi studi e per la nuova vita, ho bisogno di pace. Sensibilissimo a tutto ciò che è l’onore della Congregazione, nei sei anni spesi generosamente per migliorare la situazione dei missionari, prima nel lavoro, e solo da ultimo negli onori e nei pesi della giurisdizione, avendo come oppositori, fin dal primo anno fino ad oggi, il Vicario, e soprattutto il pro-Vicario; avrò commesso errori, tuttavia mi permetto di richiedere la sua attenzione sulle abitudini, fatali sistemi in voga in questa Repubblica: da 25 anni si fa una caccia inesorabile a chiunque emerga un poco tra i salesiani (cita poi degli esempi). Con lettere o parole si interviene nella lotta tra preti, coadiutori, laici esterni; tutto si esagera e e male male si interpreta. Poco si lavora e molto si mormora. Mi ritiro nella foresta a fare un po’ di bene: non voglio più fare ombra a nessuno: Pace, pace almeno per i morti (lettera del 29/05/1929 a don Ricaldone da New York – incompleta).
Da ciò si arguisce che nella vita religiosa salesiana vi fosse un ambiente un po’ turbolento, per la sete di potere di alcuni salesiani che porta a disprezzare gli altri religiosi, virtuosi e intraprendenti. Il padre Crespi soffre davanti a questo panorama affatto incoraggiante. D’altra parte alle autorità del Vicariato sembrava che P. Crespi fosse troppo indipendente.
Don Carlo esprime il suo punto di vista in una lettera a don Ricaldone, esprimendo con grande sincerità la sua percezione della situazione. Apre così il suo cuore al Rettore Maggiore:
“Sono già diciassette anni che vedo in Monsignore (Comin) un’alternanza di atteggiamenti di approvazione o disapprovazione circa tutto quello che io ho fatto, a tal punto che basta una piccola imperfezione, vera o presunta che sia, per scatenare una burrasca alla quale, alcune volte partecipano superiori e inferiori. Le dirò chiaramente che, a mio avviso, considero tutto ciò una prova del Signore che, sopportata con pazienza, rassegnazione, umiltà, mi procura non solo particolarissime grazie spirituali, ma addirittura dei finanziamenti per le opere intraprese (Cuenca, lettera del 19/02/1939 a don Ricaldone).
Padre Crespi ammette che qualche prima valutazione espressa appena arrivato in Missione, senza che se ne rendesse conto, può aver ferito la suscettibilità delle autorità del Vicariato. Lasciamo a lui la parola:
“Ammetto che nella mia prima visita nel territorio della Missione nel 1923, realizzata con lo stesso Monsignore, mi permisi di insistere sullo sviluppo di un programma salesiano con scuole, ospedali, scuole di catechismo, ecc., in una forma che fu immediatamente interpretata come la peggiore intromissione; tuttavia, rendendomi conto della sensibilità di Monsignore, cercai di tenere un basso profilo, e nulla più. Tutte le opere portate a compimento in 17 anni ebbero approvazione iniziale di Monsignore e dell’Ispettore. La raccolta di fondi e il loro impiego e la loro amministrazione ebbero certamente una certa indipendenza fino alla realizzazione definitiva, però sempre sotto gli occhi dei superiori che mi hanno manifestato molta fiducia” (Cuenca lettera del 19/02/1939).
Tuttavia già all’inizio del 1925, don Carlo cominciò a percepire l’ambiente missionario e le difficoltà del lavoro nel Vicariato. Con semplicità e chiarezza, si confida con don Rinaldi “Pensa un po’ alla mia situazione: l’ultimo, il più giovane di tutti i missionari, senza nessuna esperienza, senza alcuna autorità ufficiale, e (devo) risolvere tutti i problemi più gravi con i benefattore, le autorità religiose e civili” (Quito, lettera del 16/09/1925 a don Rinaldi).
Padre Crespi si rende conto che sta lavorando molto e aiutando il Vicariato in modo significativo, con iniziative che non si erano mai sviluppate nel breve passato delle Missioni. Per questo, si confida con il Rettore Maggiore, senza nessuna verve polemica:
“Ho iniziato un lavoro che nessuno dei missionari ha mai pensato, tanto meno mons. Comin e P. Albino (Del Curto); anzi, avendo la più segreta opposizione e nessun appoggio morale, e senza imbarazzo, nel nome di Dio, di Don Bosco e di Domenico Savio, il mio Angelo protettore, ho potuto raccogliere solo in mezzi finanziari, almeno quattro volte tanto quello che si è raccolto nei 30 anni precedenti” (medesima lettera pag. 2).
Con grande carità fraterna don Carlo mantiene un silenzio prudente:“A viva voce le dirò molto, però, molte cose solo se il bene delle anime e il bene della Congregazione lo richiederanno. Per ora sto quieto, tranquillo, lavorando, preoccupandomi almeno di lavorare per il bellissimo ideale missionario” (Quito 16/09/1925 a don Rinaldi).
Con molto amore e con sano realismo, p. Crespi si rendo conto dei limiti di chi sta a capo del Vicariato, che esprime in modo aperto al Superiore generale:
“Ora, tutto questo lavoro ha l’esigenza di essere organizzato, come le ho già anticipato, perché Monsignore è l’ uomo più indeciso che io abbia mai conosciuto, senza alcun spirito di iniziativa. Poveretto! Soffre, non ha molta salute e i missionari non gli danno certamente consigli, ogni tanto si trova in un tale stato d’animo, che gli risulta assolutamente impossibile la riorganizzazione della Missione. Parlo con i fatti che documentano le mie affermazioni e parlo solo per il bene di queste Missioni” (medesima lettera pag. 3).
Nonostante tutto, Don Carlo è disposto a farsi carico dei lavori che furono necessari, secondo il mandato dei Superiori per il bene del popolo Shuar, e perciò prosegue con grande trasparenza:
“Ripeto ingenuamente ciò che ho già detto a don Ricaldone: Don Nai (Ispettore) mi chiese se me la sentivo di accettare questa responsabilità che avevo già preso in via informale, e io gli ho risposto che sono pronto a prendere qualsiasi croce, anche se pesante, per il bene degli shuar, purché i superiori aiutino, sostengano, dirigano (medesima lettera pag. 3).
Quindi, con animo evangelico p. Crespi esprime la sua totale disponibilità nella mani della Provvidenza divina, che non sottrae la sua chiaroveggenza della storia dalla pastorale del Vicariato. Così si possono capire le sue parole: “Io non so quanti giorni di vita mi darà il Signore, né se mi concederà di vedere i frutti del nostro lavoro, però posso certamente dirle che la messe è molta, mancano gli operai, manca soprattutto una dirigenza. Con 18 missionari e delle buone direttive si fanno miracoli!” (medesima lettera pag. 3).
P. Crespi, con questa lettera tanto citata e chiarificatrice con una confessione del suo atteggiamento religioso e credente nei confronti dei superiori che pone in evidenza la sua personalità cristiana e salesiana:
“Le dico chiaramente che, pro bono pacis, in due anni io non ho scritto nessuna lettera a nessuno dei missionari per stimolarli, entusiasmarli o per farli produrre maggiormente. Tentai il primo mese, ma poi ho capito che avrei accorciato di dieci anni la vita di Monsignore e di P. Albino, dimostrandosi in ciò di un assolutismo incredibile: siamo noi i superiori, che centri tu. Questa fu la risposta. Stetti zitto, parlai solo con il buon esempio e con un lavoro generoso cercando di fare una vera opera di preparazione per il futuro lavoro dei missionari. Davanti a tanti peccati incontrati nella vita, davanti a tanti atti amorosissimi della Divina Provvidenza, mi sono fatto un poco bambino: non mi preoccupo più di nulla, mi lascio sballottolare dalle Sante ispirazioni: confido molto nella preghiera, soffro molto e poi realizzo” (medesima lettera pagg. 2-3).
Don Carlo insiste nel desiderio di entrare nell’anonimato, “ritirandomi completamente in una vita di sacrificio e di preghiera, evitando tutta la pubblicità e qualsiasi cosa che possa indurre al risentimento e alla gelosia. Se sapesse, don Ricaldone, di quante ignobili calunnie, pettegolezzi, adesso mi rendo conto di essere stato oggetto. Quante cose vengono a me riferite alle quali, nell’intensità del lavoro e dell’apostolato, io non ho mai pensato negli otto anni passati in continua immolazione” (Gualaceo, lettera del 6/02/1931 a don Ricaldone).
Va notato che P. Crespi nel 1934 già stava incanalando i suoi sforzi alla realizzazione delle sue opere a Cuenca, nonostante le obiezioni di Mons. Domingo Comin. A questo proposito, scrisse a Monsignore che ” è indispensabile avere a Cuenca una Scuola Agricola e una Scuola di Arti e Mestieri che siano una base per l’impulso e lo stimolo delle opere orientali: mantenendo a Cuenca una buon numero di missionari potremo certamente organizzare meglio le opere interne. Monsignore, avalli l’idea l’appoggi presso i superiori.
Cuenca è e deve essere missionaria, assolutamente missionaria, esclusivamente missionaria. Per questo io dispongo di finanziamenti finalizzati alle Missioni, perché da qui devono partire e ritornare i missionari. Da qui e solo da qui deve partire lo spirito e l’iniziativa missionaria: Cuenca deve essere una via molto organizzata per lo sviluppo delle nostre scuole agricole e professionali nell’Oriente ecuadoriano” (Cuenca, lettera a Mons. Comin del 10/06/1934, pagg. 1-2).