Gli anni dal 1915 al 1921 misero in evidenza la determinazione e la forte tempra di Carlo Crespi! É straordinario come nel giro di quegli anni inquieti (il mondo stava conoscendo gli orrori della 1^ guerra mondiale), il giovane salesiano sia riuscito contemporaneamente a completare gli studi teologici; abbia fatto il servizio militare con le conferenze di cui si è già detto; abbia insegnato al Collegio Manfredini; abbia frequentato l’università con la discussione della tesi in meno di 4 anni; si sia diplomato al Conservatorio e abbia trovato anche il tempo di partecipare a speciali corsi di ingegneria e idraulica. Questa mole di impegni brillantemente portati a termine sta a comprovare che don Carlo aveva doti di intelligenza fuori del comune e veramente degne di attenzione. Non per nulla qualche mese dopo la sua laurea, quando i suoi superiori, in vista dell’Anno Santo del 1925 e del 50° delle Missioni salesiane, vollero programmare una documentata Mostra Missionaria da tenersi a Roma (1925) e a Torino (1926), pensarono subito a lui e lo ricuperarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare scienze naturali, matematica e musica. Fu a questo punto che Carlo Crespi venne chiamato dai superiori a occuparsi delle missioni ecuadoriane, poiché in quel periodo la più significativa missione salesiana tra gli amerindi era quella dell’Oriente ecuadoriano, e di essa bisognava raccogliere la migliore documentazione, anche a livello scientifico. Era l’anno 1921.
A Torino don Carlo conferì con il Rettore Maggiore, don Rinaldi (che il 29 aprile del 1990 verrà dichiarato Beato), con l’addetto alle missioni, don Ricaldone e, in particolare, con mons. Domenico Comin, vicario apostolico di Mendez e Gualaquiza (Ecuador), che ne doveva appoggiare l’opera. Viaggi, esplorazioni, ricerche, studi e quant’altro doveva nascere dall’opera di Carlo Crespi, ebbero da quel momento il via ufficiale. Seppure mancassero quattro anni alla progettata esposizione, chiesero a Don Carlo di occuparsene direttamente, affinché svolgesse al completo un lavoro scientificamente serio e credibile.
Si trattava di:
- creare un clima di simpatia e di interesse a favore dei salesiani operanti nella missione ecuadoriana di Mendez, valorizzandone le imprese tramite documentazioni scritte e orali, e provvedendo ad una congrua raccolta di fondi;
- di progettare uno studio scientifico del territorio in parola, al fine di convogliare i risultati non solo nelle mostre di Roma e Torino, ma soprattutto in un Museo permanente e in un opera “storico-geo-etnografica” precisa.
Per tutto il 1922 si buttò a capofitto nell’impresa avviando una missione scientifica propedeutica che egli stesso così riassume: “Con i dovuti permessi acquistai proiettori e diapositive missionarie sulla Patagonia, sul Mato Grosso e organizzai conferenze e feste missionarie nelle diocesi di Milano, di tutta la Lombardia e oltre. La propaganda con conferenze fruttò 15.000 lire e diversi industriali del milanese offrirono alcuni quintali di tessuti per il valore di 80.000 lire, che più tardi vennero ripartiti tra gli indios”.
Come ci ha già abituati a vederlo operare nel quinquennio precedente, sembrava un vulcano in eruzione: ha letteralmente girato l’Italia in lungo e in largo per promuovere le Missioni e per raccogliere fondi. Ovunque proiettava interessanti pellicole della Patagonia, della Terra del Fuoco, sugli indios del Mato Grosso, del Brasile. Alle proiezioni alternava brillanti conferenze e geniali esecuzioni musicali.
A metà del 1922, dopo aver steso, d’accordo con il Governo ecuadoriano, un piccolo progetto di colonizzazione, si reca a Roma per chiedere alle Autorità di Governo formali aiuti. E il Governo fu veramente prodigo nel contribuire alla realizzazione del suo progetto.
Infatti, don Carlo se ne tornò a Torino con macchine fotografiche, un proiettore cinematografico, una macchina da scrivere con i caratteri idonei a scrivere in lingua shuar, (il dialetto degli indios della foresta amazzonica dell’Ecuador orientale), bussole, teodoliti1, livelli, pluviometri, una grande cassa di medicinali e apparecchiature mediche, apparecchiature agricole, tende da campeggio. Da parte sua il Rettore dell’Università di Padova gli rilasciò una lettera di raccomandazione in cui, tra le altre cose, lo definiva uno scienziato di chiara fama.
Poste così le premesse, dopo un anno, don Carlo si prepara a partire per l’Ecuador, non prima, però, di aver ottenuto dal suo superiore l’assicurazione che avrebbe esercitato il suo apostolato tra i Kivaros; temeva, infatti, il “solerte pioniere” di venire poi “imboscato”, come era capitato ad altri confratelli, in qualche istituto scolastico d’oltre oceano.
“Ora – scriverà infatti al Rettore Maggiore, il Beato don Filippo Rinaldi – vorrei una parola che mi assicuri che la mia povera opera sarà veramente spesa tra i Kivaros, perché solo per loro ho tenuto tante conferenze, lascio la famiglia, lascio la patria, lascio soprattutto splendidi ideali scientifici e musicali…, solo per seguire questa fortissima vocazione”.
Il 22 marzo del 1923 s’imbarca, con altri confratelli, sul piroscafo “Venezuela”, alla volta di Guayaquil, il porto fluviale e marittimo più importante dell’Ecuador, di fatto la capitale commerciale ed economica del Paese, soprannominata per la sua bellezza: “la Perla del Pacifico”.
Il 24 aprile sbarcava a Guayaquil con 120 casse di materiali vari da sdoganare, per la forte somma di 25.000 lire, e con l’assillo di superare le innumerevoli resistenze poste dal Governo anticlericale. A tale scopo si trasferisca a Quito per chiedere al Governo il visto d’ingresso e l’esonero dagli obblighi doganali. La cosa non si prospettava così facile come a prima vista poteva sembrare; esisteva infatti il divieto di ingresso di sacerdoti e religiosi stranieri. Questa resistenza burocratica durò fino al mese di agosto. Don Carlo, nel frattempo, ne approfittò per creare un clima favorevole nei rapporti col Governo. Cominciò allora a dare concerti di pianoforte in tutte le ambasciate e nei teatri; le principali famiglie della capitale seguirono con molto interesse le sue geniali esecuzioni. Allo stesso scopo non mancò di comporre per i soldati la magnifica marcia trionfale intitolata “24 Maggio”.
Per nulla turbato, sfruttando la musica e le cognizioni scientifiche, organizzò subito nella capitale ecuadoriana una serie di concerti e di conferenze con i quali, in poco tempo, tranquillizzò il governo circa la sue intenzioni ottenendo, così, lo sdoganamento gratuito, e coprì le spese di trasporto di tutto il materiale fino a Cuenca con altrettante conferenze a Guayaquil e Quito.
“Don Crespi – riferisce chi lo conobbe e gli fu amico – si sentiva del tutto felice perché gli vibrava nel profondo la vocazione apostolica. Egli, infatti, all’impegno scientifico e organizzativo per le esposizioni di Roma e Torino, aggiunse un vasto impegno di azione missionaria; non solo per documentare quanto avevano già fatto o venivano facendo gli altri, ma per fare quanto più poteva lui stesso a duraturo beneficio delle missioni, dei poveri e degli indios. Dal momento in cui mise piede in Equador, si può dire che egli si immedesimò nel Paese e nel Popolo di adozione. Per sessant’anni operò tenacemente radicato e “inculturato” nell’ambiente e nella società di elezione, così da essere ufficialmente riconosciuto «il miglior regalo fatto dall’Italia dei grandi esploratori all’Ecuador che egli smisuratamente amò e di cui volle farsi concittadino”.
Ecco in prospettiva ciò che significava l’approdo di Carlo Crespi oltre oceano nel 1923: impasto dell’uomo con la terra, con le genti, con gli indios, con le selve, con la natura e con tutto, da cui sarebbero poi anche scaturite ricerche, studi, rapporti scientifici, soppesati in primo luogo nel vissuto di ogni giorno.
Non ci dovremo stupire, di conseguenza, se i rapporti scientifici di Carlo Crespi risulteranno intrisi di esistenziale, di concreta quotidianità, di spirito missionario, di pionierismo e di avventura: in una parola, di umano.
Non è detto che la cultura venga meno quando scende dalla cattedra e si esprime invece nell’esperienza e nel dialogo. Crespi ebbe il talento della semplicità, che comunica più dei linguaggi eruditi; ma ebbe insieme anche il talento dell’erudizione, quanta gli serviva per dare spessore scientifico alla sua semplicità.
- Strumenti ottici a cannocchiale per la misurazione degli angoli azimutali e zenitali, usato per rilievi geodetici e topografici. Questi rilievi costituiscono la necessaria premessa scientifica a qualsiasi intervento sul territorio che si prefigga di realizzare lavori topografici, necessari sia per la produzione cartografica che per la realizzazione di grandi opere ingegneristiche. [↩]