Don Carlo Missionario (parte prima)
“Ricordo la mia partenza da Genova il 22 marzo dell’anno 1923. Dopo tante lotte e tanti dolori per trionfare della mia vocazione, mi sembrava ancora impossibile di poter realizzare l’ideale che segretamente nutrivo nel cuore da anni. Quando, tolti i ponti che ancora ci tenevano avvinti alla terra natia, il bastimento incominciò a muoversi, l’anima mia fu pervasa da una gioia così travolgente, così sovrumana, così ineffabile, che tale non l’avevo mai provata in nessun istante della mia vita, neppure nel giorno della mia prima Comunione, neppure nel giorno della mia prima Messa. In quell’istante cominciai a comprendere che cosa era il missionario e che cosa a lui riservava Iddio. Molti intorno a me piangevano dirottamente. I fazzoletti sventolavano, salutando. Su centinaia di volti si leggeva il profondo dolore della separazione. Nessuno, credo, aveva in quell’istante, come me, il cuore così traboccante di gioia. Eppure io aveva lasciata una madre e dei fratelli carissimi; lasciavo la culla della Congregazione, lasciavo dei superiori tanto cari, sapevo di non andare ad una festa, ma nell’ignoto, in una regione ove tanto avrei sofferto; eppure ricordo che, non potendo più resistere alla gioia, e trattenere un inno di riconoscenza al Signore, sgorgante da tutte le fibre del mio essere, scesi nella deserta sala dei concerti, mi sedetti al piano, ed intonai un grandioso pezzo lirico che tutta interpretasse la infinita gioia del mio cuore.
Pazzia ? Sì, santa pazzia, incomprensibile per coloro che mai hanno sentito il sorriso di Dio; non però per i missionari, che hanno ascoltato le mistiche parole di Gesù e che per un ideale divino hanno saputo abbandonare tutti gli ideali mondani”.1
Giovanni Bosco, quando voleva parlare del come ha realizzato la sua opera, faceva riferimento ai suoi moltissimi sogni premonitori. Anche Padre Carlo Crespi quando parlava della sua vocazione missionaria faceva riferimento a un sogno che egli chiama “rivelatore”. Ecco come molti anni dopo ne parlerà lui stesso: «Quando studiavo nel collegio milanese di S. Ambrogio mi ero appena addormentato quando la Vergine mi mostrò una scena: da un lato il demonio cercava di prendermi e trascinarmi; dall’altro, il Divin Redentore con la croce mi mostrava un’altra strada. Subito dopo ritrovai vestito da sacerdote, con la barba, sopra un vecchio pulpito con attorno a me una moltitudine di persone desiderose di ascoltare la mia parola. Il pulpito non si trovava in una chiesa, ma in una capanna. Subito dopo mi svegliai. Alcuni compagni che stavano in dormitorio con me, ma che erano svegli, ascoltarono la mia predica e il giorno seguente me la raccontarono».
Questo sogno influì sulla vocazione di Carlo? Quello che è certo è che l’educazione ricevuta nel collegio salesiano lo aiutò a far luce dentro di sé e a renderlo attento al Signore che chiama. L’opposizione risoluta del padre e la felicità contenuta della madre lo fecero riflettere e alla fine decise. A suo padre che lo interrogava sul suo futuro rispose: “Vedi, papà, la vocazione non te la impone nessuno; è Dio che chiama; io mi sento chiamato a diventare salesiano!” Il sogno rivelatore aveva instillato nella sua anima un forte desiderio missionario che, negli anni della formazione, aveva condizionato e indirizzato il suo curriculum formativo.
Gli anni dal 1915 al 1921 evidenziarono la determinazione e la forte tempra di Carlo Crespi! É straordinario come nel giro di quegli anni inquieti (il mondo stava conoscendo gli orrori della 1^ guerra mondiale), il giovane salesiano sia riuscito contemporaneamente a completare gli studi teologici; abbia fatto il servizio militare promuovendo e realizzando corsi formativi per i soldati; abbia insegnato al Collegio Manfredini; abbia frequentato l’università con la discussione della tesi in meno di 4 anni; si sia diplomato al Conservatorio e abbia trovato anche il tempo di partecipare a speciali corsi di ingegneria e idraulica. Questa mole di impegni brillantemente portati a termine, oltre che a comprovare che don Carlo aveva doti di intelligenza fuori del comune e veramente degne di attenzione, focalizzò l’attenzione dei superiori su di lui.
Qualche mese dopo la sua laurea, quando, in vista dell’Anno Santo del 1925, Pio XI volle programmare a Roma una documentata Esposizione Internazionale Vaticana, i salesiani fecero propria l’iniziativa, anche in funzione del 50° delle Missioni salesiane, con una Mostra Missionaria da tenersi a Torino (1926). A tale scopo i superiori pensarono subito a don Carlo Crespi e lo ricuperarono dal Collegio Manfredini di Este, dove era stato assegnato per insegnare scienze naturali, matematica e musica.
Fu a questo punto che don Carlo venne chiamato a occuparsi delle missioni ecuadoriane, poiché, in quel periodo, la più significativa missione salesiana tra gli amerindi era quella dell’Oriente ecuadoriano, e di essa bisognava raccogliere la migliore documentazione, anche a livello scientifico. Era l’anno 1921. Da parte sua il Rettore dell’Università di Padova gli rilasciò una lettera di raccomandazione in cui, tra le altre cose, lo definiva uno scienziato di chiara fama. Poste così le premesse, dopo un anno, don Carlo si prepara a partire per l’Ecuador, non prima, però, di aver ottenuto dal suo superiore l’assicurazione che avrebbe esercitato il suo apostolato tra i Jivaros2. Temeva, infatti, di venire poi “imboscato”, com’era capitato ad altri confratelli, in qualche istituto scolastico d’oltre oceano. “Ora – scriverà infatti al Rettore Maggiore, il Beato don Filippo Rinaldi – vorrei una parola che mi assicuri che la mia povera opera sarà veramente spesa tra i Jivaros, perché solo per loro ho tenuto tante conferenze, lascio la famiglia, lascio la patria, lascio soprattutto splendidi ideali scientifici e musicali…, solo per seguire questa fortissima vocazione”.
Don Crespi – riferisce chi lo conobbe e gli fu amico – si sentiva del tutto felice perché gli vibrava nel profondo la vocazione dell’apostolo. Egli, infatti, all’impegno scientifico e organizzativo per le esposizioni di Roma e Torino, aggiunse un vasto impegno di azione missionaria; non solo per documentare quanto avevano già fatto o venivano facendo gli altri, ma per fare quanto più poteva lui stesso a duraturo beneficio delle missioni, dei poveri e degli indios. Dal momento in cui mise piede in Ecuador, si può dire che egli si immedesimò nel Paese e nel popolo di adozione e di cui volle farsi concittadino”.
Ecco in prospettiva ciò che significava l’approdo di Padre Crespi oltre oceano nel 1923: impasto dell’uomo con la terra, con le genti, con gli indios, con le selve, con la natura e con tutto, da cui sarebbero poi anche scaturite ricerche, studi, rapporti scientifici, soppesati in primo luogo nel vissuto di ogni giorno. Non ci dovremo stupire, di conseguenza, se i suoi rapporti scientifici risulteranno intrisi di esistenziale, di concreta quotidianità, di spirito missionario, di pionierismo e di avventura: in una parola, di umano.
Esaurito il compito di collezionista fornitore e animatore delle grandi mostre internazionali, egli non volle restare in Italia e nel 1927 elesse Ecuador a sua seconda Patria; si stabilì a Cuenca, nell’Azuay, dove continuò a occuparsi di scienze, ma con il cuore mai smesso dell’apostolo. Quando don Carlo arrivò nel vicariato di Mendez per preparare il materiale dell’esposizione vaticana, si viveva ancora in una situazione precaria, sotto l’incubo di cruente razzie indiane.
La realtà vissuta dai missionari salesiani in quel periodo, da don Carlo viene così descritta al suo Rettore Maggiore: “Amatissimo Padre, col 1° marzo 1924 si compiono 30 anni dacché i Missionari salesiani, invitati dal Governo Ecuadoriano per incarico della S. Sede, assumevano l’evangelizzazione della razza Kivara in Gualaquiza. Le difficilissime condizioni politiche, la morte di molti missionari, la mancanza di mezzi finanziari e sopratutto il carattere eccezionalmente selvaggio dei Kivaros, hanno isterilita la già difficile opera missionaria sopratutto durante la guerra. Ora però che il Vicario Apostolico, Monsignor Comin, ha potuto ottenere nuovi operai, ora che zelanti comitati missionari d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba, Ecuador, hanno voluto con raro sentimento altruistico ascoltare il commovente appello del Pastore dei Kivaros, ed insieme col preziosissimo obolo della preghiera donargli anche oggetti, tessuti, paramenti per le poverissime chiese e denari per il consolidamento delle opere esistenti ed allestimento delle nuove, un santo alito di vita è penetrato e la Missione va riorganizzandosi verso nuove conquiste. Amatissimo Padre, permetta che dica nuove conquiste, perché se la Missione dei Kivaros non può presentare, come le altre, intere tribù convertite alla Fede ed alla Civiltà, questo però può affermare, di aver compiuto mirabilmente l’opera di preparazione. Mercè difficilissime esplorazioni si son potute stabilire le sedi di Gualaquiza, Indanza, Mendez, sedi che permettono di avvicinare in tutta la loro estensione i kivaros, arrivando ai confini delle Missioni Francescane e Domenicane.
Tra i coloni di Rosario. Nel dicembre scorso ebbi la fortuna di accompagnare Mons. Comin in visita a Gualaquiza. Non sto a narrarle le difficoltà del viaggio. Chi si abbandona ai pericolosi cammini deve essere disposto a tutto, a ricevere dei colpi poco graditi da rami sporgenti nel sentiero che s’infossa e s’incassa nella roccia, delle bastonate nella schiena da non voluti archi trionfali, cioè dai tronchi d’albero caduti ed ingombranti il cammino, e molte volte anche a cadute poco gradite nel fango colla povera bestia impossibilitata a rialzarsi. Prima di arrivare alla zona dei Kivaros, passato il freddo Paramos delle Cordigliere, il missionario passa attraverso piccole possedimenti di coloni, il cui nucleo più importante è posto nelle ridenti posizioni di Aguacate e Rosario. A quest’ultima posizione arrivammo verso sera quasi improvvisamente. Ci scorse però un piccolo indio, il quale si attaccò alla corda della campana, ed in breve fu organizzato un ricevimento cordialissimo all’illustre Pastore. Si poté subito attendere alle confessioni, ed all’indomani numerose furono le S. Comunioni. La chiesa, una miserabile capanna, in parte scoperta, senza pavimento, senza arredi, senza porte, mercé la generosità degli amici delle Missioni, sarà presto riedificata in posizione migliore.
Tragico passaggio. Intanto ai rintocchi della campana si radunavano sulla collina opposta i coloni di Aguacate addetti sopratutto alla coltivazione della paja toquilla, con cui si tessono i famosi cappelli di Panamà. Tra le due colline corre uno dei torrenti più rapidi e spaventosi dell’Oriente Ecuatoriano. Dalle piogge notturne era notevolmente ingrossato e l’eco cupa dell’onda si ripeteva nelle valli incrociantisi. L’unico ponte era caduto e rimaneva un solo palo, in parte già lesionato attraverso le sponde. S’immagini Lei, amatissimo Padre, lo spavento nel doversi cimentare a un passaggio tanto pericoloso. I buoni coloni per l’occasione, credendo di farci un regalone, avevano messo all’altezza di un metro dalla trave una liana di nessuna resistenza. Fu giocoforza passare, e non so ciò che provò Monsignore. Benché mi fossi messo al passaggio con tutta tranquillità, quando fui nel mezzo sentii il sangue ritirarmisi completamente. Il palo incominciava a muoversi ed a scricchiolare: la violenza spaventosa dell’onda che sbatteva contro le rive macigni colossali con rumori assordanti e che roteava nei gorghi spaventosi alberi giganteschi, appariva in tutta la sua tragicità. Una leggiera mancanza d’equilibrio, una piccola incertezza nell’incrociare i piedi, ci avrebbe dato inesorabilmente in braccio alla morte più crudele. La Vergine però ci assistette maternamente, e potemmo risalire ad Aguacate non senza aver dato ordine che fosse posto provvisoriamente un buon cordone d’acciaio regalato dal nostro Governo Italiano e si provvedesse presto al rifacimento del ponte a costo dei più grandi sacrifici.
La nuova chiesetta di Aguacate. Nella nuova chiesetta ci attendeva un buon numero di coloni. Dopo la S. Messa un bel gruppo di bambini ci intratteneva con dialoghetti e poesie. Mancava solo la musica per completare l’accademia. Fu estratto quindi dai cassoni un grammofono e per lunghe ore i migliori canti risuonarono nella valle, tra la viva compiacenza di molti, che mai avevano visto un simile strumento musicale. Monsignore s’interessò vivamente delle condizioni religiose e morali di questa nuova residenza missionaria. Vi stabilì definitivamente un sacerdote, organizzò il servizio religioso, le scuole per l’educazione dei piccoli indigeni, una incipiente farmacia e lasciò denari e tessuti affinché, terminato il ponte di Aguacate, si risolva il problema della viabilità, e la colonia si avvii ad un benessere religioso e materiale.
Tra i selvaggi. Dopo due giorni si proseguì il cammino nella foresta e si arrivò dopo il passaggio del terribile Cutan, zona orribilmente pantanosa, alla sede della Missione. L’aver cambiato il giorno d’arrivo non permise un ricevimento rumoroso; appena però nei giorni seguenti si sparse la notizia della venuta del Vescovo, i Kivaros vennero da tutte le parti. Amatissimo Padre, pare impossibile che gli sforzi organizzati di un secolo di evangelizzazione abbiano così poco influito sulla natura feroce e barbara di questi selvaggi3! Come dissi l’affluenza fu grande, ma affluenza interessata: «Obispo venendo, mucho regalando». – Viene il Vescovo, molto regalerà! -. Era questa la frase che si ripeteva tra di loro e colla speranza di regali si poté far loro un po’ di bene, organizzare istruzioni catechistiche e sopratutto la frequenza domenicale.
Sentiamo il tamburo! Fu di grande interesse sopratutto il grammofono. Quasi nessuno aveva visto ed udito un simile strumento, e subito fu battezzato col vocabolo Kivaro «Tùnduli», cioè tamburo, «Tùnduli oyendo! Tùnduli oyendo!» era la frase che con insistenza puerile andavano ripetendo bocche di selvaggi, sbucati dalle più remote foreste. E Monsignore stesso molte volte s’adattò a caricare la macchina ed a cambiare i dischi. Graditissimi sopratutto alcuni canti, le voci di guerra, i suoni confusi, le risa sgangherate. Qualche donna sopratutto aveva una gran paura che nel disco ci fosse il demonio, e stava ben aderente al marito, o nascosta per paura di qualche brutto scherzo. Il problema di attrarre i selvaggi alla Missione è il più arduo e il più difficile. Le Jivarie più vicine sono a circa 2 ore dalla casa nostra, le altre tutte più lontane da 3 a 12 ore. Ora per ottenere che vengano almeno qualche volta è necessario avere grandi attrattive, cibi abbondanti per sfamarli, ciccia per dissetarli e regali in specchi, aghi, ami, tessuti, ed anche medicinali per poterli opportunamente curare. Solo con questi mezzi abbondanti si può sperare di averli qualche ora con noi, di averli attenti per qualche minuto al catechismo, e di udirli ripetere magari macchinalmente alcune delle preghiere, che il compianto Monsignor Costamagna fece comporre nella loro lingua.
Salviamo i giovani! Don Bosco, parlando della civilizzazione dei selvaggi dell’America del Sud, disse chiaramente che la conversione degli adulti sarebbe stata difficilissima e che i giovani avrebbero formate le nuove generazioni. Ai giovani soprattutto gli sforzi dei missionari. Mercé difficili esplorazioni alle Kivarie, si sono potuti studiare ottimi elementi che aprono il cuore alla più bella speranza. È certo difficile indurli a vivere col missionario. L’incanto della foresta troppo influisce sulla loro anima, avida di libertà; però alcuni birichini già si sono indotti a convivere coi missionari. E una vita collegiale, tutta singolare, a cui il sacerdote non solo deve mantenere lautamente i selvaggetti, e fare grandi spese per procurare loro anche delle distrazioni, ma è necessario che ogni tanto paghi le mamme, affinché permettano ai figli di rimanere alla Missione. La riorganizzazione della Missione richiede, quindi, dei grandi mezzi. Le coltivazioni dei canapi devono essere estese, affinché abbondanti siano i frutti per mantenere i selvaggi di passaggio; le comunicazioni colle diverse Kivarie devono essere più rapide con sentieri praticabili e ponti sicuri; i locali delle Missioni devono essere rinnovati secondo le nuove esigenze. Si fa quindi vivo appello agli amici d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba e del mondo intero, che già generosamente vollero aiutare il povero Vescovo dei Kivaros e gli permisero d’iniziare un nuovo lavoro, affinché continuino ad assisterlo colle preghiere e con offerte adeguate ai nuovi ed urgenti bisogni”.
Fin dai primi itinerari, Carlo Crespi non si limita ad ammirare, ma raccoglie, classifica, appunta, fotografa, filma e documenta qualunque cosa attragga le sue attenzioni di studioso. Questo è quel mondo magnetico che già gli vibrava nel cuore ancor prima di arrivarci e del quale così scriveva il 19 marzo del 1922: “In questi giorni una voce nuova, insistente, mi suona nell’animo, una sacra nostalgia dei paesi di missione; qualche volta anche per il desiderio di conoscere in particolare cose scientifiche. Oh Signore! Sono disposto a tutto, ad abbandonare la famiglia, i parenti, i compagni di studi; il tutto per salvare qualche anima, se questo è il tuo desiderio, la tua volontà”.
Anche gli indios, che i suoi confratelli fino a quel momento hanno considerato soprattutto come selvaggi da restituire a salvezza, sono da lui considerati in un ottica antropologica e culturale, con il dovuto rispetto per le loro tradizioni, usi e costumi. A conferma di tale atteggiamento nei confronti dei Kivaros, riportiamo il brano che segue, da lui scritto dopo un’esperienza fatta tra gli stregoni di Arapicos.
“Molto si è parlato delle difficoltà di questa missione ed io non voglio nascondere che il Kivaro, il quale non fu mai dominato militarmente, né dagli ìncas, né dagli spagnoli, né dagli ecuadoriani, è fiero e superbo della sua libertà e dimostra quasi un disprezzo per tutto ciò che non è esclusivamente retaggio della sua tribù. La prodigiosa fertilità della terra, che abita, ed il clima invidiabile, lo rendono quasi sprezzante della nostra opera caritativa. La libertà stessa dei costumi e la mancanza di un culto lo rendono quasi insensibile alle dolcezze della nostra religione. Però, più si studia da vicino, e più ci si convince che, pure essendo un albero silvestre, su di lui si potrà certamente innestare con efficacia il buon virgulto di Cristo. La festa del Corpus Domini dell’anno scorso mi trovavo in missione tra i selvaggi di Arapicos. Nella sera precedente era arrivato alla Kivaria del Ciriapa un loro capo; mi accorsi che il poveretto era infermo e che già gli stregoni si tenevano pronti per curarlo. Per non destare sospetti, facendomi vedere molto stanco, stesi per terra alcune foglie di banano, mi ci sdraiai sopra, facendo finta di dormire. Gli stregoni, credendomi addormentato, spenti i lumi, incominciarono la loro cura a base di invocazioni, di scongiuri, di strilli, e di sputi che durarono tutta la notte. Verso l’aurora, cessato l’effetto del narcotico, se ne andarono; ma io rimasi così seccato e sopratutto così inorridito da tali pratiche superstiziose e selvagge, che, fatto innalzare l’altarino per la Santa Messa, tenni loro una lunga istruzione sulla necessità di usare delle vere medicine per guarire, e nei casi difficili di ricorrere alla Vergine Santissima Ausiliatrice. Prima di partire, regalai loro alcune immagini della Celeste Patrona che io, con fede viva, avevo fatto deporre sulla tomba di San Pietro in Roma. Verso sera ripartii per un’altra kivaria, e, radunati i bambini, incominciai ad istruirli sulla Passione di Cristo. Intanto s’era fatto scuro. Sorbito un po’ di brodo, mi ero sdraiato per terra stringendo la corona del Rosario. Ma non potevo pigliar sonno. Avevo un triste presentimento. Infatti, verso mezzanotte odo in lontananza una voce lugubre, straziante e prolungata di donna: « Il Kivaro Mascianda sta per morire! ». Sveglio i selvaggi; una donna sale all’aperto, e, mettendo le mani alla bocca in forma di tromba, intreccia un dialogo. Che era successo? Uno degli stregoni, malgrado la mia predica, volle sfidare la fede, e, fatti i soliti scongiuri, appena ingoiato il narcotico, ebbe un assalto epilettico, stramazzò al suolo tramortito con la bocca spalancata, con gli occhi fuori dell’orbita. Le donne spaventate gridavano come ossesse; io volevo discendere per assistere l’infermo. La mia fedele guida si rifiutò assolutamente d’insegnarmi la strada, dicendomi che gli stregoni mi avrebbero accusato di essere io la causa di quella morte, e che forse avevano ordito un tradimento. Consigliai di far trasportare l’infelice alla casa paterna, e, alla prima aurora discesi. Quale non fu la mia meraviglia, quando, penetrando all’improvviso nella casa del sinistro, vidi che i selvaggi avevano raccolto tutte le immagini dell’Ausiliatrice, e che, appesele ad una stuoia, le avevano circondate di fiori ed illuminate con torce di resina forestale. Mentre le donne attendevano alle faccende domestiche, due selvaggette con le mani giunte pregavano come avevo loro insegnato al mattino precedente. A questa vista rimasi commosso. Non potei trattenere le lacrime. Invitai i due angioletti ad Innalzare una fervida preghiera alla Vergine. Pochi minuti dopo giungeva la notizia che lo stregone era rinvenuto. La Madonna aveva voluto fare la grazia completa. Lo stregone, da quel giorno, si fece amico sincero dei Missionari
I primi contatti con gli Shuar li ha con quelli che vivono nella zona di Bomboiza, Chuchumblesa, Cuyes e Calagràs, luoghi quasi impenetrabili. È ricevuto con difficoltà ma senza minacce. Porta con sé alcune cose che gli piacciono molto: stoffa, munizioni, specchi, aghi. Con l’aiuto degli shuar che lo accompagnano fa loro capire che è missionario, che vuol loro molto bene, che vuole parlare loro di Dio.
A buon diritto si può affermare che don Carlo fu un antesignano della evangelizzazione delle etnie Ashuar e Shuar (abitanti delle foreste amazzoniche dell’Ecuador orientale) mediante l’“inculturazione”4, termine che costituisce una conquista di oggi, soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Egli, cioè, sosteneva che, come nel giorno di Pentecoste, tutti devono poter ricevere e comprendere la fede nella “propria cultura e nel proprio linguaggio”.
A conferma della fondatezza di questa sua intuizione, mi piace citare il prof. Bruno Luiselli, professore ordinario di letteratura latina, all’Università “La Sapienza” e docente all’Istituto patristico “Augustianum” di Roma, il quale, in un suo libro, La formazione della cultura europea occidentale (Herder, Roma 2003), spiega come nei primi secoli il cristianesimo si sia diffuso tra gli illetterati e i poveri parlando con la loro lingua e attraverso la loro cultura. Fin dall’inizio la dinamica dell’inculturazione fu un’esigenza ovvia, anche se non teorizzata. Luiselli afferma, inoltre, che “Paolo è il primo ad enunciare l’assunzione di elementi di cultura pagana da parte del cristianesimo, appunto l’ara al dio sconosciuto e il verso del poeta-filosofo greco Arato: «di quel dio noi siamo la stirpe». L’Apostolo – continua il cattedratico – proclama che quell’altare che i pagani hanno dedicato al dio che non conoscono, essi lo hanno inconsapevolmente eretto al vero Dio. Paolo enuncia quindi l’assunzione di realtà pagane per servirsene ai fini dell’annuncio cristiano. Ma vorrei dire che l’inculturazione nella storia del cristianesimo si manifesta ancora prima del discorso all’Areopago. Si realizza la primissima volta proprio nell’Incarnazione stessa, quando la Parola con la P maiuscola, Dio, assume la natura umana e si esprime con la parola dell’uomo, nel tempo, nel luogo e nella cultura particolari in cui Gesù ha vissuto. «La Parola si fece carne e venne ad abitare tra noi», dice Giovanni”.
E’ quindi importante sottolineare come in questo duplice intento di penetrazione e di civilizzazione, don Carlo si sia preoccupato di non commettere gli errori della colonizzazione che, prima in Nord America, poi in Patagonia e, da ultimo, nella Terra del Fuoco, cancellò in poco tempo le etnie indie5. Preoccupazione abbastanza scontata oggi, ma frutto di una notevole sensibilità umana e cristiana negli anni ’20 quando, da parte della cultura bianca imperversava un’abominevole “antropofagia” delle culture aborigene che, in certi momenti, non disdegnò neppure di macchiarsi di orrendi misfatti che portarono ad un vero e proprio genocidio.
Con altri salesiani, e segnatamente con un gruppo missionario più illuminato, C. Crespi reagì al vecchio “eurocentrismo ed etnocentrismo che considerava la cultura europea il modello da imporre ai popoli di tutto il mondo, mentre classificava come barbari e, al limite selvaggi, i detentori di culture diverse. Tutt’altro spirito mosse invece da Mendez e da Gualaquiza i missionari salesiani”6.
Il nostro Crespi, più che pronunciarsi in teoria su tale linea, l’attestò con la prassi, con i suoi articoli sempre riguardosi verso gli indios, con le sue lettere e conversazioni, che ebbero sempre riferimenti espliciti a favore delle loro etnie. Tra le più nette prese di posizione, figura la presente: “L’opera dei missionari e, in particolare del Governo, dovrebbe – come non fece negli Stati Uniti ed in Argentina – preoccuparsi di limitare l’invasione bianca, in modo che restino agli indi territori sufficienti per il loro sviluppo ed il loro avvenire familiare (…) Il Kivaro è un vero re della foresta, padrone dei sentieri, delle acque, di tutti gli elementi che lo circondano (…) Egli intende mantenere rigorosamente tutte le proprie tradizioni familiari e razziali”7. Egli amò fondere il calore dell’avventura al freddo resoconto scientifico. I reperti da lui raccolti ed esposti poi nelle mostre di Roma e Torino nascondevano, infatti, spessori di vita e di amore. I risultati furono presto tangibili: raccolse oltre 600 varietà di coleotteri alcuni dei quali, fino ad allora sconosciuti, oggi portano il nome scientifico di “crespiani”. Raccolse arboscelli, felci, licheni, muschi. Preparò 60 gabbie di magnifici uccelli. Scatto migliaia di foto. Trovò migliaia di oggetti di appartenenza indiana. Scavò anche alla ricerca di reperti archeologici. Infine poté disporre di un pronto repertorio di vegetali, animali e di oggetti vari, sia in originale che in riproduzione fotografica. La gran parte di questi oggetti, prima di essere spedita in Italia, fu resa accessibile al pubblico in una simpatica Esposizione Orientalista sulla piazza della cattedrale di Guayaquil, nella casa del poeta Rendon, dove rimase per 40 giorni con oltre 30.000 visitatori, ai quali tenne 120 conferenze.
Ma ormai don Carlo era lanciato, a fine ’24 condusse una campagna nella capitale in appoggio alla costruzione della strada Pan-Mendez, mentre nei ritagli di tempo scrisse a raffica una serie di memorabili articoli pubblicati sul Touring Club Italiano e dal “Bollettino Salesiano”, seguiti con molta attenzione e apprezzati dagli studiosi competenti.
A fine anno organizzò un’équipe cinematografica per realizzare nella selva ecuadoriana la prima pellicola sull’ambiente e sulla vita dei “Kivaros”.
- Tratto dal discorso che don Carlo tenne, la sera del 10 ottobre 1926, ai confratelli che, come lui, l’indomani sarebbero ripartiti per le missioni. [↩]
- tristemente famosi per l’arte crudele di rimpicciolire le teste dei nemici, chiamate “tsantsas” al volume di un pugno [↩]
- Ogni qual volta nei suoi scritti ricorrerà il termine «selvaggio» egli non intende esprime un giudizio negativo, ma riferirsi al senso etimologico del termine, ovvero «abitante della selva» [↩]
- L’inculturazione si concretizza anzitutto nel tentativo di tradurre in un’altra cultura il messaggio cristiano e l’insegnamento della fede; si riferisce a una presentazione adattata della Buona Novella, in un linguaggio e in simboli che sono intelligibili per la gente alla quale la Buona Novella viene proclamata [↩]
- Le isole meridionali dell’arcipelago della Tierra del Fuego, per esempio, erano abitate, da non meno di 6.000 anni, dagli Alakaluf e dagli Yámanas, che «osservarono impotenti lo sgretolarsi della propria cultura all’arrivo dei primi coloni, verso il 1880». Erano cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna, dalla Francia e allevatori di pecore dall’Inghilterra, per riempire «di lana pregiata le industrie britanniche ». Soprattutto questi ultimi, non soffrendo la presenza degli indios – che rubavano gli ovini, prede molto più facili da cacciare degli abituali guanachi, del resto allontanati dalla presenza delle greggi –, decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli, seni, o testa che provassero la morte di un aborigeno. Inoltre, da tempo i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano ad ucciderli con «ejercicios de tiro». Nel giro di dieci anni, i circa 3.000 Yámanas che subirono l’impatto con i coloni, erano diventati 1.000, nel 1910 meno di cento [↩]
- Presencia Salesiana en el Ecuador – Edibosco, Cuenca 1987, pag. 35. [↩]
- Entrevista con el P. Carlos Crespi, in “El Commercio” Quito16 aprile 1928 [↩]