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Interessi scientifici in un cuore di missionario. Quando don Carlo arrivò nel vicariato di Mendez per preparare il materiale dell’esposizione vaticana, si viveva ancora in una situazione precaria, sotto l’incubo di cruente razzie indiane. La realtà vissuta dai missionari salesiani in quel periodo, da don Carlo viene così descritta al suo Rettore Maggiore: “Amatissimo Padre, col 1° marzo 1924 si compiono 30 anni dacché i Missionari salesiani, invitati dal Governo Ecuadoriano per incarico della S. Sede, assumevano l’evangelizzazione della razza Kivara in Gualaquiza. Le difficilissime condizioni politiche, la morte di molti missionari, la mancanza di mezzi finanziari e sopratutto il carattere eccezionalmente selvaggio dei Kivaros, hanno isterilita la già difficile opera missionaria sopratutto durante la guerra. Ora però che il Vicario Apostolico, Monsignor Comin, ha potuto ottenere nuovi operai, ora che zelanti comitati missionari d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba, Ecuador, hanno voluto con raro sentimento altruistico ascoltare il commovente appello del Pastore dei Kivaros, ed insieme col preziosissimo obolo della preghiera donargli anche oggetti, tessuti, paramenti per le poverissime chiese e denari per il consolidamento delle opere esistenti ed allestimento delle nuove, un santo alito di vita è penetrato e la Missione va riorganizzandosi verso nuove conquiste.
Amatissimo Padre, permetta che dica nuove conquiste, perché se la Missione dei Kivaros non può presentare, come le altre, intere tribù convertite alla Fede ed alla Civiltà, questo però può affermare, di aver compiuto mirabilmente l’opera di prepara-zione. Mercè difficilissime esplorazioni si son potute stabilire le sedi di Gualaquiza, Indanza, Mendez, sedi che permettono di avvicinare in tutta la loro estensione i kivaros, arrivando ai confini delle Missioni Francescane e Domenicane.
Tra i coloni di Rosario. Nel dicembre scorso ebbi la fortuna di accompagnare Mons. Comin in visita a Gualaquiza. Non sto a narrarle le difficoltà del viaggio. Chi si abbandona ai pericolosi cammini deve essere disposto a tutto, a ricevere dei colpi poco graditi da rami sporgenti nel sentiero che s’infossa e s’incassa nella roccia, delle bastonate nella schiena da non voluti archi trionfali, cioè dai tronchi d’albero caduti ed ingombranti il cammino, e molte volte anche a cadute poco gradite nel fango colla povera bestia impossibilitata a rialzarsi. Prima di arrivare alla zona dei Kivaros, passato il freddo Paramos delle Cordigliere, il missionario passa attraverso piccole possedimenti di coloni, il cui nucleo più importante è posto nelle ridenti posizioni di Aguacate e Rosario. A quest’ultima posizione arrivammo verso sera quasi improvvisamente. Ci scorse però un piccolo indio, il quale si attaccò alla corda della campana, ed in breve fu organizzato un ricevimento cordialissimo all’illustre Pastore. Si poté subito attendere alle confessioni, ed all’indomani numerose furono le S. Comunioni. La chiesa, una miserabile capanna, in parte scoperta, senza pavimento, senza arredi, senza porte, mercé la generosità degli amici delle Missioni, sarà presto riedificata in posizione migliore.
Tragico passaggio. Intanto ai rintocchi della campana si radunavano sulla collina opposta i coloni di Aguacate addetti sopratutto alla coltivazione della paja toquilla, con cui si tessono i famosi cappelli di Panamà. Tra le due colline corre uno dei torrenti più rapidi e spaventosi dell’Oriente Ecuatoriano. Dalle piogge notturne era notevolmente ingrossato e l’eco cupa dell’onda si ripeteva nelle valli incrociantisi. L’unico ponte era caduto e rimaneva un solo palo, in parte già lesionato attraverso le sponde. S’immagini Lei, amatissimo Padre, lo spavento nel doversi cimentare a un passaggio tanto pericoloso. I buoni coloni per l’occasione, credendo di farci un regalone, avevano messo all’altezza di un metro dalla trave una liana di nessuna resistenza. Fu giocoforza passare, e non so ciò che provò Monsignore. Benché mi fossi messo al passaggio con tutta tranquillità, quando fui nel mezzo sentii il sangue ritirarmisi completamente. Il palo incominciava a muoversi ed a scricchiolare: la violenza spaventosa dell’onda che sbatteva contro le rive macigni colossali con rumori assordanti e che roteava nei gorghi spaventosi alberi giganteschi, appariva in tutta la sua tragicità. Una leggiera mancanza d’equilibrio, una piccola incertezza nell’incrociare i piedi, ci avrebbe dato inesorabilmente in braccio alla morte più crudele. La Vergine però ci assistette maternamente, e potemmo risalire ad Aguacate non senza aver dato ordine che fosse posto provvisoriamente un buon cordone d’acciaio regalato dal nostro Governo italiano e si provvedesse presto al rifacimento del ponte a costo dei più grandi sacrifici.
La nuova chiesetta di Aguacate. Nella nuova chiesetta ci attendeva un buon numero di coloni. Dopo la S. Messa un bel gruppo di bambini ci intratteneva con dialoghetti e poesie. Mancava solo la musica per completare l’accademia. Fu estratto quindi dai cassoni un grammofono e per lunghe ore i migliori canti risuonarono nella valle, tra la viva compiacenza di molti, che mai avevano visto un simile strumento musicale. Monsignore s’interessò vivamente delle condizioni religiose e morali di questa nuova residenza missionaria. Vi stabilì definitivamente un sacerdote, organizzò il servizio religioso, le scuole per l’educazione dei piccoli indigeni, una incipiente farmacia e lasciò denari e tessuti affinché, terminato il ponte di Aguacate, si risolva il problema della viabilità, e la colonia si avvii ad un benessere religioso e materiale.

Tra i selvaggi. Dopo due giorni si proseguì il cammino nella foresta e si arrivò dopo il passaggio del terribile Cutan, zona orribilmente pantanosa, alla sede della Missione. L’aver cambiato il giorno d’arrivo non permise un ricevimento rumoroso; appena però nei giorni seguenti si sparse la notizia della venuta del Vescovo, i Kivaros vennero da tutte le parti. Amatissimo Padre, pare impossibile che gli sforzi organizzati di un secolo di evangelizzazione abbiano così poco influito sulla natura feroce e barbara di questi selvaggi!1 Come dissi l’affluenza fu grande, ma affluenza interessata: «Obispo venendo, mucho regalando». – Viene il Vescovo, molto regalerà! -. Era questa la frase che si ripeteva tra di loro e colla speranza di regali si poté far loro un po’ di bene, organizzare istruzioni catechistiche e sopratutto la frequenza domenicale.

Sentiamo il tamburo! Fu di grande interesse sopratutto il grammofono. Quasi nessuno aveva visto ed udito un simile strumento, e subito fu battezzato col vocabolo Kivaro «Tùnduli», cioè tamburo, «Tùnduli oyendo! Tùnduli oyendo!» era la frase che con insistenza puerile andavano ripetendo bocche di selvaggi, sbucati dalle più remote foreste. E Monsignore stesso molte volte s’adattò a caricare la macchina ed a cambiare i dischi. Graditissimi sopratutto alcuni canti, le voci di guerra, i suoni confusi, le risa sgangherate. Qualche donna sopratutto aveva una gran paura che nel disco ci fosse il demonio, e stava ben aderente al marito, o nascosta per paura di qualche brutto scherzo. Il problema di attrarre i selvaggi alla Missione è il più arduo e il più difficile. Le Jivarie più vicine sono a circa 2 ore dalla casa nostra, le altre tutte più lontane da 3 a 12 ore. Ora per ottenere che vengano almeno qualche volta è necessario avere grandi attrattive, cibi abbondanti per sfamarli, ciccia per dissetarli e regali in specchi, aghi, ami, tessuti, ed anche medicinali per poterli opportunamente curare. Solo con questi mezzi abbondanti si può sperare di averli qualche ora con noi, di averli attenti per qualche minuto al catechismo, e di udirli ripetere magari macchinalmente alcune delle preghiere, che il compianto Monsignor Costamagna fece comporre nella loro lingua.
Salviamo i giovani! Don Bosco, parlando della civilizzazione dei selvaggi dell’America del Sud, disse chiaramente che la conversione degli adulti sarebbe stata difficilissima e che i giovani avrebbero formate le nuove generazioni. Ai giovani soprattutto gli sforzi dei missionari. Mercé difficili esplorazioni alle Kivarie, si sono potuti studiare ottimi elementi che aprono il cuore alla più bella speranza. È certo difficile indurli a vivere col missionario. L’incanto della foresta troppo influisce sulla loro anima, avida di libertà; però alcuni birichini già si sono indotti a convivere coi missionari. E una vita collegiale, tutta singolare, a cui il sacerdote non solo deve mantenere lautamente i selvaggetti, e fare grandi spese per procurare loro anche delle distrazioni, ma è necessario che ogni tanto paghi le mamme, affinché permettano ai figli di rimanere alla Missione. La riorganizzazione della Missione richiede, quindi, dei grandi mezzi. Le coltivazioni dei canapi devono essere estese, affinché abbondanti siano i frutti per mantenere i selvaggi di passaggio; le comunicazioni colle diverse Kivarie devono essere più rapide con sentieri praticabili e ponti sicuri; i locali delle Missioni devono essere rinnovati secondo le nuove esigenze. Si fa quindi vivo appello agli amici d’Italia, Spagna, Stati Uniti, Messico, Cuba e del mondo intero, che già generosamente vollero aiutare il povero Vescovo dei Kivaros e gli permisero d’iniziare un nuovo lavoro, affinché continuino ad assisterlo colle preghiere e con offerte adeguate ai nuovi ed urgenti bisogni”.
- Quando don Carlo chiama gli Shuaras «selvaggi», il termine non lo intende in senso dispregiativo, ma nel senso etimologico, ovvero «abitanti delle selve», in quanto era il loro habitat naturale. [↩]