In una delle sue escursioni missionarie del lontano 1925, don Carlo manifesta i suoi sentimenti e atteggiamenti cristiani. Ammirando dalla vetta la cordigliera del Cutucù, scrive dalla pienezza di un cuore credente:
“A destra e a sinistra dell’immens0 e realmente colossale complesso montagnoso, si incontra l’estesa e interminabile pianura amazzonica al cui interno vi sono migliaia e migliaia poveri selvaggi che non hanno mai visto un missionario cattolico e chissà mai se lo vedranno. In uno spettacolo sublime, pieno di profondo significato, e che naturalmente impone alle forze dello spirito di lavorare per la grande causa delle missioni (“Attraverso la cordigliera del Cutucù”, a don Rinaldi, pp. 16-17)”.
D’altra parte, le difficoltà della natura e la mancanza delle condizioni minimali di sussistenza, mettono in evidenza di quale tempra sia costituita la personalità cristiana e religiosa di don Carlo, nello stesso giorno del suo compleanno:
“È il giorno del 29 maggio, giorno del mio compleanno; un nuovo anno di vita iniziato tra la feroce rabbia degli elementi della natura, riparati sotto alcune foglie di palma, sferzati da un vento e da una pioggia interminabili, con una spazio appena sufficiente per allungare le membra intorbidite e con l’aria intossicata da un fumo asfissiante che divora i nostri polmoni e quelli delle povere cuoche che, invano, soffiano sulla legna che non vuol accendersi. I miei uomini non si mostrano scontenti; senza far niente, di rilassano e mangiano: io devo fare buon viso al brutto tempo e ripetere con la serafica semplicità del Gran Patriarca San Francesco: questa è la perfetta letizia (dalla medesima lettera sopra riportata)”.
Nel mezzo della selva don Carlo approfitta per acquisire elementi linguistici e mitologici del popola shuar e, nello stesso tempo, spiega alcuni concetti del cristianesimo, mediane il quale don Carlo Aggiunge, “… passiamo il resto della giornata conversando con i poveri selvaggi1, senza venir meno, da parte mia, allo sforzo di intrattenerli con brillanti narrazioni della Storia Sacra, che i selvaggi ascoltano con una avidità veramente ammirabile: le prime pagine della genesi relative alla creazione dell’universo e, soprattutto, il grande dramma della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, adattata alla sua capacità di capirlo. Sono narrazioni tali che lo commuovono fino alle lacrime” (dalla medesima lettera).
Dopo di che, vediamo che nel P. Crespi si unisce l’ansia scientifica con l’ardore missionario di annunciare il messaggio cristiano offrendo la parola di salvezza. Tutta questa notevole attività di don Carlo è sostenuta dalla una vita interiore per il desiderio di avere sempre su di sé la luce di Gesù. Dopo il suo viaggio a New York, dove è andato per partecipare al Movimento scientifico americanista e per far una promozione missionaria, che gli permetta di raccogliere fondi per le Missioni, scrive al Rettore Maggiore: “In questi quaranta giorni mi sono tenuto in particolare modo in comunione con Dio e ho dedicato molto tempo alla preghiera perché il Signore benedica la mia buona volontà e i santi propositi che sempre mi animano per sacrificarmi generosamente per la ” Evangelizzazione degli Shuar” (lettera del 20/11/ 1928 a don Rinaldi)”.
Don Carlo, come credente sente la presenza di Dio che lo accompagna nelle diverse situazioni e attività. Così scrive a don Ricaldone (che dal 1932 al 1951 diventerà Rettore Maggiore dei Salesiani come 4° successore di don Bosco):
“Per me, più lavoro e più vedo l’intervento di Dio e più sento crescere in me il desiderio di sacrificarmi totalmente per la causa santa della Redenzione degli Shuar. Mi sembra di vedere vicino il sorgere di una grande colonia agricola, l’arrivo di milioni di finanziamenti e di vedere, finalmente, Maria Ausiliatrice come Patrona di queste terre che sono sotto la schiavitù del demonio. E tutto ciò non per una vana vena poetica, ma perché tocco con mano tutti i giorni cosa sono i miracoli, veri e documentabili. Oh, come sorride don Bosco dal cielo, oh la grazia sublime della vocazione (lettera da Cuenca del 20/12/1924)”.
Il P. Crespi cerca di dare un percorso storico alla sua proposta di lavoro che incrementi “il nostro programma di evangelizzazione mediante quello secondario del progresso” (lettera a don Ricaldone da Guayaquil del 22/10/1925). Poi, in modo evidente, don Carlo guarda verso il futuro missionario in Ecuador e si apre con il Superiore scrivendogli:
“La cosa importante è che si lavori con metodo e con un programma preciso. Le ispirazioni giornaliere del Signore me fanno sentire ogni giorno di più, in modo palpabile, il futuro della nostra opera in queste terre. Tuttavia è importante che si trovi un nucleo che si sintonizzi con le indicazioni dei Superiori maggiori e che diventi un suo fedele interprete, solo così i morti potranno risuscitare (così si esprime nella stessa lettera)”.
Don Carlo è convinto che il lavoro acquisisca spessore quando è fatto da salesiani veramente credenti nel Signore:
“Ogni giorno vado pensando e toccando con mano, che non si può fare vera opera di evangelizzazione perché non si ha la fede dei santi. Da un lato, mi sforzo ogni giorno di fare il possibile di alimentare lo spirito di fede mediante la Santa Messa, la meditazione, le pratiche di pietà. I suggerimenti della Grazia si fanno ogni giorno più frequenti, ogni giorno cresce di più l’amore al sacrificio, salvaguardia di ogni virtù (Lettera del 7/07/1928 a qualche Superiore di Torino).
Si tratta, quindi, delle grazie ordinarie della vita spirituale, don Carlo sente che vi sono doni e carismi speciali che il Signore gli va regalando per crescere nell’intensità della consegna al lavoro apostolico raccomandato. Sono certe qualità peculiari della sua vita spirituale che lo conducono ad una crescente immolazione nel cammino della missione salesiana.
Nel campo della obbedienza religiosa, don Carlo preferisce lasciare da parte tutti i suoi piani e le sue aspirazioni allo scopo di seguire la volontà di Dio, espressa mediante i Superiori.
Così scrive da Quito a don Ricaldone con il suo caratteristico stile:
“Io sono disposto a tornare in Italia tra due ore, domani, tra un anno, tra dieci o mai: rifletta, si consulti (riferisce ciò che ha detto al Visitatore Salesiano, don Mai, e ciò che gli ha risposto ), e mi dica in nome di Dio la santa parola dell’obbedienza. E lui ci ha riflettuto per un giorno, si è consultato con tutti e arrivò a questa conclusione: in nome di Dio ti dico ritarda il tuo viaggio, se fossero i superiori, se fosse soprattutto don Ricaldone, ti direbbe quello che ti dico in questo momento: continua gli accordi con il Governo, organizza i lavori, prepara il campo ai futuri missionari (…). Ho obbedito, però appena riceva la mia lettera e mi avvisi per cablogramma, io sono disposto a sospendere qualsiasi lavoro e a obbedire, convintissimo che nessuno è necessario in questo mondo e che la mia obbedienza sarà più accetta al Signore e più preziosa per la causa degli shuar del martirio (estratto della lettera del 14/09/1925, da Quito, a don Ricaldone).
Da queste parole si intuisce un profondo spirito di fede di don Carlo, che accetta senza condizioni la volontà di Dio espressa attraverso le parole dei superiori: le loro decisioni sono l’espressione di ciò che il Signore sta esprimendo al suo consacrato. P. Crespi sa relativizzare la sua opera, convinto che nessuno è necessario, malgrado le sue innumerevoli qualità. L’attitudine alla consegna totale e incondizionata dsi manifesta nella risposta che dà al Visitatore, Padre Nai:
“Risposi che io non desidero altro che sacrificare completamente per la causa degli shuar: che dopo tre anni di duro lavoro, non solo non ho diminuito il mio zelo, ma al contrario è centuplicato, al meno nel desiderio, e che con l’auto di Dio in dieci anni di lavoro serio, metodico, noi potremo scrivere pagine gloriose per la Congregazione in queste terre così aride. La fede, il sacrificio, un uno spirito di pietà estremamente coltivato devono trionfare su tutti gli ostacoli e darci la “vittoria” (Lettera del 14/09/1925)”.
La dedizione, la disciplina, la fede e l’amore cristiano confluiscono in don Carlo, nella sua ansia di servire le missioni in modo pianificato, ordinato e coerente, allo scopo di stabilire un processo di progresso spirituale e materiale del popolo shuar. Concludendo la medesima lettera P. Crespi fa una professione di fede ardente, disposto a dare la vita, se è necessario, per Cristo e per il Vangelo. Così si esprime con il suo consueto entusiasmo e decisione:
“In verbo tuo laxabo rete (sulla tua parola lancerò le reti): Io non desidero altro che lavorare, che spendermi per i selvaggi fino all’ultima energia che il Signore mi ha dato, desidero morire martire per la fede di Cristo, oggi, domani, in qualsiasi momento in cui il Signore lo vorrà. Qualsiasi sacrificio, qualsiasi croce, qualsiasi responsabilità, io li accetto dalle mani dei Superiori come dalla stessa mano di Dio” (lettera del 14/09/1925).
Mi preme evidenziare che il suo lavoro scientifico ed economico in favore delle missioni conta sempre sull’appoggio dei Superiori di Torino: a mo’ di esempio, si ci si riferisce a un frammento di una delle lettere del Rettore Maggiore di allora, don Pedro Ricaldone:
“Le tue notizie me interessano molto perché mi comunicano belle speranze circa lo sviluppo della nostra opera tra questi poveri shuar. Mi congratulo per tutto quello che hai potuto ottenere, sia qui che li, per portare a termine velocemente tutti quei lavori in cui ti sei impegnato. Dobbiamo credere che il Signore vorrà benedire abbondantemente la tua laboriosità (lettera da Torino di don Ricaldone del 2/07/1932)”.
- il termine “selvaggio”, come già espresso in altre pagine, è da don Carlo usato nel senso etimologico di “abitante della selva” [↩]