In parallelo con le esplorazioni nell’alto Rio Santiago, affluente del Rio delle Amazzoni, e nella valle dello Zamorra, fino alla sua confluenza con il Rio Paute, quando questi due colossi fluviali profondi da 30 a 50 metri, si fondono in un urto formidabile di onde a formare il Rio Santiago, affluente del “Amazzoni”, Carlo Crespi sviluppò una coraggiosa geografia economica. Infatti, a questo proposito il quotidiano “El Commercio” di Quito ci ha tramandato un’interessante intervista da lui rilasciata nel 1928, dopo essersi portato in sopralluogo nelle regioni orientali lo stesso Governatore dell’Azuay di cui necessitava l’appoggio.
”Dal 14 al 26 marzo del 1928 sottopose dettagliatamente agli occhi del rappresentante civile tutte le realizzazioni ed i progetti per lo sviluppo della regione : strade, ponti villaggi, impianti idrici e tecnici, linee telefoniche, scuole, chiese, ambulatori e centri sanitari, centrali idroelettriche, colonie agrarie, fattorie”. Al giornalista che gli chiedeva se non stesse esagerando nel realizzare tutti quei programmi, il nostro missionario non esitò a rispondere “Piaccia o no, i coloni di fatto stanno già penetrando nella regione, urge quindi prevenire la trasformazione del territorio, sia in loro difesa, sia in difesa degli indios che della terra sono i veri padroni”.
Scopo del suo adoperarsi era la realizzazione della difficilissima strada già ricordata Pan-Mendez, anche perché prevedeva la costruzione di un grande ponte sul fiume Namangosa, oltre ad un’altra dozzina di ponti, dai trenta ai sessanta metri, su torrenti e fiumi che incrociavano il suo tragitto.
Queste opere, già gravose in zone progredite, toccavano l’impossibile in zone vergini e in situazioni precarie. Da tempo i salesiani si stavano battendo per la realizzazione di quest’opera, ma i lavori erano fermi da alcuni anni per mancanza di mezzi. Fu appunto Carlo Crespi a riprendere e a condurre a termine la coraggiosa impresa, dopo essersi adoperato in ogni modo, non solo in Ecuador, ma anche in Italia e negli Stati Uniti, a raccogliere fondi “Pro camino de Mendez”.
Come anticipato, egli riuscì a condurre sul luogo una commissione governativa con a capo lo stesso Governatore della Provincia di Azuay e a stipulare un regolare contratto, non solo per la sovvenzione della strada, ma anche per realizzare il programma di sviluppo e convivenza tra indios e coloni, dentro e oltre le valli dello Zamorra e dell’Upano.
Di questa grandiosa opera dalla forte valenza sociale, civile e, per qualche verso, anche politica, lo stesso Bollettino Salesiano del 1° gennaio 1932 ne dà notizia come segue:
“Un’opera di civiltà nelle foreste equatoriali”.
Segnaliamo ai nostri ottimi Cooperatori un’opera di civiltà compiuta dai nostri missionari nelle foreste dell’Equatore. Il problema della colonizzazione dell’Oriente. A parte il lato religioso della conversione dei numerosi indi selvaggi o semiselvaggi che vivono nell’Oriente Ecuadoriano, il problema ha anche un aspetto politico e civile.
L’Equatore per consolidare i suoi diritti sulla regione cerca di fondarvi «Colonie nazionali» e proteggervi in qualche modo anche le Missioni Cattoliche.
I Salesiani hanno nella parte sud-est della Regione Orientale il Vicariato Apostolico di Mendez e Gualaquiza. Oggi una zona speciale, nel cuore del Vicariato – Mendez – può aspirare con qualche fiducia ai benefici della civiltà in un prossimo avvenire; di anno in anno i coloni si fanno più numerosi, grazie alle inizia-tive sviluppate colà dai nostri missionari. Di una di queste vogliamo appunto informare i lettori del nostro Bollettino.
Storia retrospettiva.
Bisogna dar merito a Mons. Giacomo Costamagna di aver tratto dall’oscurità cotesta fertile terra. Egli bramava estendere alla regione di Mendez i benefici dell’evangelizzazione, e benché avesse, oltre Gualaquiza, fondato già la missione di Indanza, pure desiderò estendere ad altri siti il dono della fede.
Nel 1915 mandò a Mendez D. Albino Del Curto, che era allora Superiore della missione di Indanza, in compagnia di D. Torka per esplorare la regione. Da Indanza a Mendez vi erano quattro giorni di viaggio a piedi, che diventavano di più se non era possibile il guado dei fiumi, ingrossati da piogge torrenziali. I due missionari trovarono in tutta la regione una guarnigione militare di 5 uomini e una trentina di cercatori d’oro disseminati lungo le rive del Namangosa. Uno solo di questi poteva dirsi un colono nel vero senso della parola avendo una capanna e campi coltivati a banane, yuca (mandioca) ed altre coltivazioni. Era questa l’unica popolazione civile, venuta da paesi distanti almeno 100 km. e non aveva neppure il carattere di «permanente», perché i cercatori vi restavano di solito varie settimane e poi ritornavano alle loro case.
Sparsi nelle valli vi erano i Kivaros, e i due missionari ne trovarono un forte numero (varie centinaia), dei terribili selvaggi, dediti agli sfoghi brutali di odii e vendette. Spiriti superbi, attivi e assai pretendenti; dallo sguardo fiero, penetrante che riguardavano il bianco con diffidenza e sospetto; di cuore duro, insensibile davanti alle necessità altrui. Anche rimunerati, rifiutavano prestare ad altri – il più piccolo servizio, mentre erano assai facili ad insultare chi loro avesse negato il più insignificante favore. Tale era la regione di Mendez al 1916, quando i primi missionari vi si stanziarono. Vi si trovarono nel più completo isolamento: gli unici posti di rifornimento erano: Macas a 8o km. a nord, piccola colonia pur essa segregata, e El Pan ad occidente sulle Ande, al quale si doveva accedere allora pel sentiero dell’orso ed era considerato eroismo avventurarsi per esso. I missionari dovettero far tutto da sé, metter mano ogni giorno alla scure per disboscare, costruirsi le case, preparare piantagioni per viveri. La guarnigione militare recava loro qualche aiuto di quando in quando; i selvaggi poco o nulla diedero alla missione.
Una strada fra selve e dirupi.
La vita e lo sviluppo della missione esigeva anzitutto una via di comunicazione col mondo civile, tanto più se si voleva creare in quel luogo un centro di colonizzazione. Ed il nostro Mons. Costamagna dava incarico a Don Albino Del Curto di studiare il tracciato di essa e la sua possibilità.
Subito il missionario si accinse al lavoro ed abbozzò il tracciato Pan-Mendez: la via avrebbe sorpassata l’ ultima catena andina all’altezza di 4000 m. sul mare, quindi avrebbe preso la direzione del Rio Negro e del Chupianza per mettere capo a Mendez. Mons. Costamagna aveva una fede a tutta prova nella Provvidenza Divina e ordinò a Don Del Curto di incominciare i lavori; egli stesso mise in mano il primo aiuto 400 lire per una strada che ne doveva costare assai più di 100 mila! Albino Del Curto, uomo di bella intelligenza e di grande spirito di sacrifizio, si accinse con tenacia all’impresa. Egli intuì la grande importanza che la strada avrebbe avuto per la colonizzazione e civilizzazione delle terre orientali, e ne interessò prima di tutto l’opinione pubblica della nazione e i pubblici poteri; dovette vincere aspre opposizioni e polemiche, ma finalmente vide accettato il suo progetto e la futura strada annoverata fra quelle d’importanza nazionale.
Il Governo prometteva dapprima un contributo mensile; più tardi stipulò con Don Carlo Crespi un regolare contratto per la sovvenzione della strada.
Le difficoltà che l’opera presentava sono facilmente comprensibili: bisognava penetrare nella fitta e oscura foresta priva di sentieri, vincere gli ostacoli di rocce, di terreni franabili, di torrenti. Quanti viaggi e quanti pericoli non dovette incontrare il valoroso missionario; più volte si vide la morte vicina o per la mancanza di viveri o per la natura selvaggia del luogo. Un giorno chi l’accompagnava per la foresta, vedendo le gravissime asprezze del sentiero, esclamò con spontaneità: « Ni el diablo cuando era joven hubiera pasado por acá = Neppure il diavolo quando era giovane sarebbe passato per di qua ». Del Curto non si scoraggiò mai ed ora ha quasi ultimata la sua impresa: due chilometri appena per un terreno non difficile e Mendez sarà raggiunta.
Il ponte sospeso sul ” Paute”.
Per rendere efficiente la strada, ormai giunta a due km. dalla mèta, era necessaria la costruzione di un solido ponte che allacciasse le alte rive del Paute (o Namangosa), il più importante fiume che, insieme con l’ Upano e il Zamorra, forma il Santiago che si getta nel Rio delle Amazzoni. Qui si concentrarono tutte le energie del nostro missionario Giacinto Panchieri, il quale non trovò certo nè facile, nè semplice quel lavoro. Si trattò anzitutto del trasporto dei cavi metallici e delle traversine di ferro; finché si dovette usare della ferrovia il trasporto fu facilitato dal Governo fino a Huigra, ma di là a Mendez fu impresa da ammattire. Tutto doveva essere portato con bestie da soma e il viaggio, quando andava bene, durava non meno di 10 giorni.
I cavi e le spranghe di ferro presentavano poi un continuo pericolo per le stesse bestie, che sotto la pioggia torrenziale sprofondavano nel fangale fino al ventre; e non poche vi lasciarono la vita. Donde la difficoltà di trovar un numero di bestie sufficienti e di sfuggire ad un nolo costosissimo. La strada, poi, perché ancora distante dal Paute, non permetteva alle bestie di giungere fino ai cantieri del ponte; era d’uopo trasportare tutto, nell’ultimo tratto, a spalla d’uomo. Gli operai addetti al trasporto giungevano immancabilmente alla missione con le spalle piagate. Ma anche il bel ponte fu allestito e inaugurato il 6 settembre dell’anno scorso (1931). Esso ebbe il nome dalla città di Guayaquil, che contribuì alla costruzione con l’offerta di 12 mila sucri (circa 5o mila lire) sostenendo con generosità i missionari salesiani nella loro ardua fatica: ma la spesa complessiva di circa 5o mila sacri fu sostenuta in gran parte dal povero Vicariato Apostolico.
Il bel ponte di 89 m. di luce è campato sulle due alte sponde rocciose a circa 46 m. sul livello normale delle acque, sempre profonde e turbinose. È formato da 6 cavi di acciaio di 24 millimetri, fissati alla roccia delle rive e trattenuti da massicciate di cemento del peso di 40 tonnellate: sulla sponda sinistra il ponte ha un sostegno di rinforzo di altri 6 cavi (3 per lato) di speciale robustezza. L’apertura netta del ponte è di m. 2,5o; è sorretta da traverse di ferro distanti fra loro 2 metri. Sul margine sporgente di queste, sostenute da cavi d’acciaio, corre una specie di ringhiera alta m. 1,20 ai due lati del ponte. Sulle traverse sono fermate tavole di legno incorruttibile di 4 centimetri.
Visto di fianco, dal fondo del fiume, il bel ponte mette un senso di brivido per essere campato a tanta altezza sopra acque vorticose, e fa pensare con ammirazione all’audace coraggio del Panchieri nel costruirlo, senza pure avere a sua disposizione i mezzi perfezionati che l’industria moderna offre nei paesi civili.
Speranze.
La strada e il ponte hanno richiesto il loro tempo: 15 anni! Frattanto la Missione di Mendez s’è molto trasformata: ai Salesiani si sono aggiunte le Figlie di Maria Ausiliatrice; intorno alle case spiccano parecchi ettari di terreno coltivato a prato, banane, yuca, caffè, canna da zucchero, ecc.
Vi sono scuole per bambini di coloni e di kivari, ospedale e chiesetta. E presso vi è la Colonia dei civili, che di anno in anno va ingrossandosi e consolidandosi. Oggi le speranze di un raggio di civiltà in quelle terre sono più che mai consolanti, tanto più che anche il kivaro, che pareva inflessibile, si è piegato. E scomparsa in lui la diffidenza che lo separava dal missionario, ed ha con questi relazioni di filiale intimità. Presta il suo braccio per i lavori agricoli e aiuta nelle costruzioni delle case. Due internati per kivaretti sono oggi sotto, la direzione dei missionari e delle Figlie di Maria Ausiliatrice; e giovani e adulti accorrono alla scuola di religione nei giorni di festa. Attorno alla missione aumentano ogni giorno le famiglie cristiane di quegli indomiti selvaggi che conducono una vita esemplare.