Nell’ambito geografico, vanno annoverate le prime esplorazioni nell’Oriente ecuadoriano (comprensiva di zone contese e poi ottenute dal Perù[1]), ma vanno soprattutto incluse le imprese promozionali nel territorio, tramite le quali garantì, con altri confratelli benemeriti, vie di comunicazione, tecnologie e strutture varie nelle stesse aree già note, ma non ancora facilmente accessibili e vivibili, all’infuori degli indios.
Cuenca, 24 aprile 1924.
Amatissimo Padre, sono ritornato da una lunga e faticosa missione alla regione di Gualaquiza. Non sto a narrarle le peripezie del viaggio, i tragici passaggi di precipizi e neppure le festose accoglienze fatte a Monsignor Comin dai coloni di Granadilla, Aguacale, e del fervore religioso suscitato colla sua calda parola, nonché delle nuove opere che provvidenzialmente vanno organizzandosi mercé le offerte dei benefattori. Di Gualaquiza le voglio parlare, di questa valle incantevole, chiamata da un antico esploratore un «Paradiso terrestre», e dei carissimi Kibaros (o Kivaros). Chiunque vi arriva dopo un viaggio penoso e vi arriva nella nostalgica ora del tramonto, in una bella giornata serena, non può non sentire nel suo cuore una di quelle impressioni profonde che incantano, che trasportano in una atmosfera divina, nella contemplazione soave di qualche cosa di sovranamente bello.
La valle incantevole. Il tersissimo cielo di zaffiro, con alcune nuvole laggiù nel lontano orizzonte, che in pochi istanti vi proiettano i migliori colori dell’iride nelle più sorprendenti e variabili sfumature: la bellissima cerchia di monti non brulli, non aridi, ma ricoperti da una vegetazione lussureggiante e sfoggianti al libero cielo vivissime macchie bianche, rosse, azzurre, gialle di colossali alberi in fiore e di graziose liane; il rumore caratteristico del torrente, che ha inciso nei secoli la bellissima valle e che, serpeggiando, scorre allietandola colle sue pittoresche vedute; la scomposta sinfonia di migliaia di coleotteri, uccelli latraci, che al cadere della sera innalzano a Dio il possente inno di gloria e d’amore, e la mesta campana della chiesetta, piccolo contributo dell’uomo in un’apoteosi così grandiosa dell’opera divina, ecco le gioie purissime che il Supremo artefice riserba ai poveri missionari. Inoltratevi nella valle e vi giungerà dal bosco l’eco sonora di flauteros, uccelli intreccianti in pochissime note un grazioso concerto, e ad un segno dato verso le 6 un rumorosissimo fischio di sirena prodotto da migliaia di insetti, quasi monito ai coloni ad abbandonare gli ubertosi campi: e più tardi nella cupa notte il triste gemito dell’uccello ahú, secondo la tradizione infelice kibaro che piange la moglie convertita in luna! Natura bella, natura placida, che aspetta ancora dalla mano dell’uomo l’opera perfezionatrice, e laggiù, lontano, sulle cime dei poggi e colli che l’adornano, sulle pendici dei monti abbassantisi alle valli incise dal Cuchipamba, dal Cuyes, dal Bomboiza, dal Zamora, il selvaggio kibaro non ancora tocco dalla civiltà come la foresta in cui vive, il selvaggio kibaro che disputa alla lontra il vivace pesce dell’azzurro torrente, al verdastro serpente l’uccello canoro, ed al giaguaro ed al tapiro i frutti spontanei della terra e l’abbondante selvaggina.
Il kibaro. Chiunque va per la prima volta in Gualaquiza s’immaginerebbe di vedere dopo tanti anni di lavori, di sacrifizi, un piccolo villaggio con al centro una chiesetta ed intorno belle case di jivaros con orti prosperosi! Niente di tutto questo. Il Kibaro materialista, padrone assoluto ed indisturbato di centinaia di chilometri di terreni fertilissimi in splendide posizioni, non viene a mendicare al missionario un pezzo di terreno, una casetta, un sorso di acqua! No, assolutamente no. A due, tre, cinque, dodici ore di distanza dalla Missione, colà dove scorre un limpido torrente con grossi lumaconi mangerecci sulle pietre, con saporiti pesci negli oscuri gorghi, e la prodiga foresta gli dona un’abbondante selvaggina, in un luogo sano, ove anche le più tremende piogge torrenziali scorrono a valle e dalla nuda roccia sgorga la purissima acqua cristallina, egli costruisce la sua grande casa e vive indisturbato, signore e padrone assoluto senza dipendere da nessuno, senza subire minimamente l’influenza del potere civile, militare, religioso. Re e padrone assoluto, sopratutto nella collina che si è scelta, ove nessuno dei Kibari, neppure parenti, può avvicinarsi, ove abbattuta l’inestricabile congerie di liane ed alberi giganteschi le sue mogli piantano la saporita yuca ed il dolce banano, e dove i suoi porci dalla carne gustosa possono scorazzare ad ore di distanza, sbarazzando l’infido suolo dai velenosi serpenti!. Re e padrone assoluto in casa sua, va superbo del suo lavoro, dei suoi prodotti, di tutto ciò che gli appartiene, disprezzando qualsiasi forma di civiltà che non comprende, che non gli serve. Presentategli un pezzo di tela finissima, dai più vivaci colori. Egli la piglierà in mano, ne osserverà i minimi intrecci dei fili e la paragonerà col suo rozzissimo itipi, e: – “Puengarcià!” (non è buona) – è la frase che vi dirà scrollando la testa e rimettendovi la tela in mano. Potete allora impiegare tutti gli argomenti da mercante, potete dimostrargli che è una tela di alto valore, usata dalle signore della più alta società! È tempo perso; – “Puengarcià!” (non è buona), e non si ragiona più. È questa ostinazione di giudizi che lo rende assolutamente ostile ad abbracciare qualsiasi costume in opposizione ai suoi tradizionali, e lo rende pure durissimo nell’accettare idee cristiane. Egli è l’impeccabile, il perfetto, e deve averla fatta ben grossa ed essere preso in fragrante delitto per arrendersi ad un’accusa qualunque.
L’inferno non è fatto pei kibari. Un giorno, avvicinai alcuni dei più feroci Kibari del Vicariato, dominati dalle più terribili passioni e macchinanti l’uccisione di un nemico, e li condussi ad un quadro catechistico rappresentante i Novissimi. In alto, l’amabile figura di Gesù Redentore con un drappo bianco ai lombi; a sinistra, schiere di angeli che liberano dalle fiamme del Purgatorio le anime buone; a destra, i demoni che precipitano all’inferno i cattivi. Col dito mostravo loro gli angeli che portano al Paradiso. le anime dei buoni cristiani, ed i demoni che straziano le anime dei Kibari che rubano, che ammazzano, che fanno tzanze[2], che portano odio ai nemici, che non si ricordano mai del Signore e che tengono tante mogli invece di una sola. La mia calda parola sembrava li commovesse, per caso, però, uno dei più furbi scoprì che le anime dei dannati erano tutte vestite all’europea. La battaglia fu persa.
– Vedi, Padre, mi disse trionfante: il Signore è vestito da kibaro, e vuole molto bene ai Kibari, e chiama al Paradiso tutte le nostre mogli, vestite da angeli, mentre getta all’inferno coi demoni tutti i cristiani. L’inferno non è fatto per i Kibari! Ebbi un bel dimostrare il contrario; alcuni si arresero alle mie argomentazioni, colla speranza di avere qualche regaluccio; sono però sicurissimo che nella loro mente non ha fatto breccia la verità cristiana.
” Ne ammazzerò 2 delle 3 mogli!”. La questione della poligamia è una delle più scottanti e difficili. Come togliere dalla loro testa l’idea poligamica, quando tra essi è stimatissimo colui che, avendo molte mogli, può avere molti orti, molti porci ed una forte schiera a difesa della sua vita? José Pukubaty, fratello del Kibaro Gioachino Bosco, di indole bonaria ed assolutamente incapace di fare guerra al suo simile, fu, in modo speciale, oggetto delle cure di un missionario anziano. Un giorno, dopo una lunghissima argomentazione sull’idea poligamica, e sui gravissimi castighi che minaccia il Signore a coloro che non seguono la legge cristiana, profondamente commosso ed agitato proruppe in queste frasi: « Sì, Padre, hai ragione: vado subito a casa ed ammazzerò due delle tre mogli, e vivrò con una sola ». E ce ne vollero delle parole per distoglierlo dal delitto e per persuaderlo ad usare misure meno radicali e meno sanguinarie!
” Se mi dài la pianeta, ti regalo una gallina!,, Il « Kibaro » è materialista, selvaggio, e purtroppo all’idea cristiana oppone un’anima dura, impenetrabile, più dura della cotenna del tapiro, con cui divide le gioie della foresta. Nelle lunghe esplorazioni compiute alle Kibarie del Bomboiza, Cuyes, Tunduli ecc., ho potuto constatare che il raggio della Fede non li ha toccati. Durante le escursioni apostoliche nell’estesa foresta molte volte fu necessario improvvisare un letto per le stanche membra ed un altare per la S. Messa. E piantati quattro pali nel suolo, intrecciatine due altri all’altezza di un metro, distese alcune foglie di banano ed adagiate le bianche tovaglie, ecco pronta la Sacra Mensa in un tempio che aveva per volta grandiosa l’immensa cappa del cielo, per ornamento la graziosa verzura della foresta tropicale, per colonne colossali tronchi di albero, per pavimento il nido delle formiche e le tane dei serpenti e per organo la scomposta sinfonia di centinaia di uccelli, come aeroplani volanti intorno all’ara del loro Creatore. Eppure sul quel misero altare si compiva il Grande Miracolo, e può immaginarsi, amatissimo Padre, la commozione vivissima nell’offrire l’Augusta Vittima; attorniato da decine di selvaggi, seminudi, colle loro lance, coi loro fucili, in posizioni stranissime, non compresi dell’augusto Mistero, ma solo attratti dalla vivacità dei colori, dallo splendore del calice e dalla originalità dei movimenti. Oh! quando suonerà per questi infelici figli della foresta l’ora della Redenzione? Quando potremo loro aprire gli occhi alla Fede e mostrare la bellezza dei misteri cristiani? Terminata la S. Messa, una delle donne mi si accostò con tutta semplicità e, toccando la pianeta:– Padre, a mi dando, io gallina regalando. – (Padre, se mi dài la pianeta, ti do una gallina!). Può immaginare la risposta e lo strazio del cuore nel constatare tanta ignoranza.
Una guida originale. Quel giorno proseguii il viaggio verso il Zamora. Ad un dato punto la guida sparì per i suoi affari. Trovarsi in mezzo alla foresta, solo, senza guida, senza compagni, è una delle sorprese più sgradite. Fortunatamente il vento mi portava l’eco lontana delle furiose onde del Zamora, e dirigendomi verso il cupo suono trovai nella foresta dei selvaggi che stavano lavorando intorno ad una canoa, e potei, con regali, avere un vispo kibaretto come guida. Persuasissimo che sapesse almeno un po’ di spagnolo, gerundiando, gli domando con tutta gentilezza:
– Zamora cerca stando? (Il Zamora sta vicino?).
– Zamora cerca stando? – mi risponde il diavoletto con due occhi di fuoco, vestito come le anime del Purgatorio, e si mette per un sentiero stretto, fangoso, camminando come un veltro.
Io, carico come un somarello, lo seguo, accelerando il passo, inzaccherandomi orrendamente pur di raggiungerlo. Passiamo in mezzo ad una magnifica regione di bambù con spine acutissime, ed alti da 20 a 30 metri. Qua e là il sentiero scompare; un grosso tronco d’albero si sostituisce al cammino. La stanchezza incomincia a farsi sentire in un modo accasciante.
– Cerca stando? (sta vicino?) domando alla guida.
– Cerca stando? – e continua a camminare come una furia.
Il cuore incomincia ad aprirsi alla speranza: dimentico il calore, la stanchezza, e via per l’orribile sentiero. Qua e là qualche orma recente di tapiro americano, e la coda di qualche serpente che si nasconde nella foresta. Dopo un’altra camminata alla Maratona:
– Cerca stando? (sta vicino?) domando nuovamente alla guida.
– Cerca stando? (sta vicino?) – mi risponde, e continua velocemente.
Insospettito che mi conducesse a perdizione gli domando:
– Lejos stando? (sta lontano?)
– Lejos stando? – mi risponde, sempre camminando come una furia.
Il sospetto che nulla comprendesse del mio linguaggio incominciò a parermi realtà.
– Tonto siendo? (non hai intelletto?), gli dico con quel poco di fiato che avevo in petto.
– Tonto siendo? (non hai intelletto?) – mi risponde tranquillamente.
Il lupacchiotto, effettivamente, non comprendeva la mia lingua e ripeteva come un pappagallo tutte le parole, mostrando, in questo, un udito finissimo.
Sulle sponde del Zamora ! Fu giuocoforza rassegnarsi e continuare la marcia con santa pazienza. Per buona fortuna la foresta incominciò a diradarsi, il sentiero a discendere, e dopo un’ora, più morto che vivo, bagnato come un pulcino potei arrivare sulle sponde bellissime del Zamora. Il lupacchiotto si gettò subito in acqua nuotando come un ranocchio, ed io dimenticando ogni stanchezza ed ogni pena passata mi saziai del panorama divinamente sublime. É il Zamora uno dei più bei fiumi dell’Oriente. alle volte maestoso, alle volte turbolento e rumoroso, scorre serpeggiando nel suo letto tra i monti pittoreschi. Sulle sue sponde la foresta tropicale perde il mistero e si mostra in tutta la sua bellezza, in tutta la sua grandiosità, con magnifici alberi curvantisi nell’onda e con altissime liane, vere chiome di giganti che si beano della soave frescura. Come quasi tutti i fiumi orientali, il Zamora è prodigo di oro, e le sue sabbie opportunamente lavate abbandonano il prezioso metallo nelle mani di poveri coloni che vi arrivano dal lontano Sigsig. Al Zamora mi fermai alcune ore dilettandomi sopratutto delle pesche, che organizzavano i selvaggi nei piccoli affluenti, delle loro evoluzioni nell’acqua e sulle canoe.
Notte d’inferno ! L’imperversare però di milioni di moscerini pungentissimi e noiosissimi che si attaccavano alla faccia, alle orecchie, alle braccia, alle mani, con una crudeltà spietata, m’indusse a rifare il cammino. La mia piccola guida mi condusse ad una Kibaria, ove, provvidenzialmente, potei trovare il mio compagno. Fatto un po’ di catechismo e recitate alcune preghiere, stese sul suolo alcune foglie di banano ci addormentammo nella pace del Signore. Ma ecco scatenarsi un violento temporale: sinistri lampi e violentissime scariche elettriche scoppianti a poche centinaia di metri ci diedero l’impressione della tragicità della natura in queste spaventose foreste. Una pioggia violentissima incominciò a scatenarsi ed in poco tempo il grande capannone kibaro fu circondato da centinaia di porci selvatici che si accalcavano, che si mordevano, che emettevano grida infernali, cercando schivare la furia dell’acqua. Intanto in mezzo a questa terribile commozione degli elementi della natura il lontano Zamora s’ingrossava terribilmente, e ci faceva giungere un rumore cupo, assordante, come di centinaia di cannoni vomitanti fiamme e fuoco, rumore che si fece assai più distinto, quando, cessato il temporale e le piogge torrenziali, apparvero le brillantissime stelle. Dopo una notte così tragica, improvvisato un altare, celebrata la S. Messa, si poté riprendere la via del ritorno.
In compagnia di un porco selvatico! Questa volta ci accompagnarono due selvaggi e un porco selvatico, e il viaggio fu amenissimo, perchè i Kibari dovendo guidare l’irrequieto suino fino a Gualaquiza, colla speranza di un bel regalo si mostrarono veramente all’altezza dell’arduissimo compito. Potete immaginarvi quante avventure nel trascinare il simpatico animale, legato con una liana, non al muso, ma alla zampa destra e cercante ogni occasione per acquistare la perduta libertà tra la intricata vegetazione forestale! Quante volte abbiamo dovuto attaccarci anche noi alla corda per strapparlo da un nascondiglio, da un torrente!… A Dio piacendo arrivammo al Bomboiza. I Kibari si gettarono in acqua col porco e furono all’altra riva tranquillamente; per noi però incominciarono le dolenti note. Innanzi alla necessità, il selvaggio è superbo e pretendente. Il vecchio kibaro, padrone della canoa, non ci volle passare, e ci fu necessario colle belle maniere indurre il suo genero, pagandogli alcuni metri di tela per la moglie. Il furbacchiotto, però, invece di condurci alla riva ci portò su un isolotto ed incominciò a pretendere altri regali. Avrebbe meritato qualcosa d’altro, ma facendosi il cielo minaccioso e temendo l’ingrossare del fiume, fu giocoforza cedere. Non mi rimaneva che il fazzoletto da naso ed un bel drappo rosso che avvolgeva la macchina fotografica, e facendo buon viso a cattivo gioco, glielo posi sulle spalle, rendendolo oltremodo felice e premurosissimo nel passarci alla riva opposta. Dopo alcune ore, le campane della chiesetta della Missione ci accoglievano festosamente ed alla Vergine Ausiliatrice s’innalzava la nostra fervorosa preghiera di ringraziamento.
Un tamburo che ride, parla, canta ! Il sacrificio, gli strapazzi del viaggio ci furono largamente ricompensati. Il giorno seguente incominciarono le visite alla Missione. S’era sparsa la voce che i missionari avevano portato un gran tamburo che rideva, che parlava, che cantava, che suonava, che faceva la guerra. Infatti nei nostri cassoni avevamo un grammofono con molti bei dischi. Quasi nessuno dei selvaggi aveva visto un simile strumento. Come battezzarlo? La parola « grammofono » dei missionari era troppo difficile e sopratutto nuova; ed essi, senza alcun congresso glottologico, lo battezzarono col nome del più comune e più grosso strumento musicale della loro razza, cioè di « Tunduli » (tamburo). – “Tunduli oyendo, tunduli oyendo” – era la frase che ripetevano centinaia di bocche sbucate dalle più remote foreste, e le più belle suonate formarono la felicità dei poveri figli della foresta, sopratutto delle donne, che vinta la prima apprensione, scomparsa la paura che in uno strumento tanto strano ci fosse il demonio, si divertivano un mondo ad udirlo.
L’ora della Redenzione ? Amatissimo Padre, la recente visita di Monsignor Comin, le esplorazioni compiute, le novità introdotte, hanno suscitato in molti selvaggi un sentimento di simpatia verso i missionari. La razza kibara pur mostrandosi così superba, così feroce, non è destinata così presto a scomparire. In questi ultimi dieci anni aumentarono di qualche centinaio, e molti giovanotti, che più degli altri furono in contatto colla civiltà cristiana, mostrano una certa arrendevolezza e sarebbero felici se i loro figli o le loro figlie potessero essere educati da salesiani o da suore. É vero, sono velleità molte volte, sono frasi interessate, ma sono moralmente sicuro che il giorno in cui noi avremo alcuni sacerdoti ardenti, generosi, che con alto eroismo percorreran-no periodicamente, con costanza, queste foreste, l’ora della Redenzione suonerà per questi infelici. In questi giorni, i missionari hanno scoperto una orribile trama, ordita dai Kibari per annientare il potente Timasa: la parola di Cristo ha per ora disarmato gli assassini venuti alla Missione; ma quante stragi si eviterebbero, quanti odi si attutirebbero, se i missionari potessero arrivare alle loro case e lentamente condurli alla vera pace di Cristo! Amatissimo Padre, animati dalla sua fervida parola, e mercé le offerte, raccolte da Monsignor Comin, in tutte le Missioni si stanno dissodando terreni, ingrandendo le case, aprendo cammini! L tutto un lavoro febbrile di preparazione per attendere i nuovi apostoli che il Signore si degnerà suscitare per svolgere un grande programma di evangelizzazione e redenzio-ne di una razza tanto indomita e tanto superba. Una fede invitta nell’efficacia del sistema educativo di Don Bosco ci apre il cuore alle più belle speranze e ci fa vedere vicino il giorno in cui la Vergine Ausiliatrice avrà l’umile ossequio dei Kibari superbi. Ci benedica.
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[1] Il protocollo di Rio de Janeiro distaccò nel 1942 l’ampia fascia di territori a est e a vantaggio del perù, disegnando nuovi confini dalla confluenza del Guepì col Putumayo, in direzione Sud-sudovest, fino agli indeterminati limiti inclusi tra i fiumi Santiago e Cenepa. A monte di questa zona corre a Ovest la Cordigliera del Condor, collaterale ai fiumi Zamora e Upano nelle cui valli sorgono rispettivamente Gualaquiza e Mendez, centri del Vicariato affidati ai Salesiani. L’eplorazione di P. Crespi si irradiò verso Est da tali centri.
[2] La tzanza è la pelle arrotondata del cranio di un nemico, con i capelli e senz’ossa, assai rimpicciolita anche per il processo speciale con cui viene preparata, che il Kibaro conserva, piena di sabbia, come trofeo di gloria.