Don Carlo e la sua concezione missionaria dell’Evangelizzazione e della Civilizzazione (da “Lettura critica delle lettere del Servo di Dio P. Carlo Crespi” di P. Alberto Henriques).

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Don Carlo nel 1923, qui fotografato sul piroscafo alla partenza per l’Ecuador

Secondo i parametri teologici e culturali della prima metà del secolo XX, padre Crespi mette a fuoco, seppure con qualche anticipazione profetica, l’attività missionaria come un’estensione del compito di salvezza di Cristo che abbraccia il cammino dei popoli della selva, dalla loro situazione naturale fino alle condizioni della loro vita civilizzata, in sintonia con la civilizzazione occidentale europea. In questo passaggio si va progressivamente annunciando la fede e la morale cristiana. Come si diceva in quell’epoca, i popoli della “selva” dovevano entrare per il sentiero del progresso e delle scoperte tecnologiche.
Fin dal 28 di Giugno del 1923, il P. Crespi, dopo aver conversato con scienziati ed esploratori del popolo amazzonico e, dopo aver letto nelle biblioteche gli studi sulle missioni dell’Oriente ecuadoriano, da Quito formula per iscritto al P. Filippo Rinaldi, Rettore Maggiore, una diagnosi dettagliata della situazione delle missioni salesiane nel Vicariato.
Prima ancora di entrare fisicamente nel terreno della missione, don Carlo evidenzia le cause delle difficoltà che incontra il lavoro missionario salesiano in Ecuador. Così scrive nella lettera sopra richiamata:
“Secondo me, la causa della poca incidenza delle missioni salesiane in Ecuador si può sintetizzare nei seguenti punti:

  1. la mancanza di un piano organico e di un unico progetto di civilizzazione, dovuto al continuo cambio di superiori delle missioni.
  2. La mancanza di scrittura della lingua degli indigeni. La lingua scritta porta con sé la civilizzazione che permette di trasmettere i propri pensieri e le proprie convinzioni religiose e civili. Non si è ancora realizzata una scuola per insegnare la scrittura della lingua shuar. Costerà sacrificio, sarà necessario conquistarsi la fiducia dei nativi, acquisire maggiori mezzi  (non a caso aveva portato dall’Italia il grafofono), ma solo operando in questa direzione si potrà imparare la lingua, prerequisito necessario per la loro conversione.
  3. Il non aver realizzato delle aziende agricole per la coltivazione dei migliori prodotti tropicali, azienda che possano fornire mezzi materiali sufficienti per lo sviluppo delle missioni.
  4. Il non aver messo a disposizione i mezzi sufficienti E il non aver pensato, neppure una volta, ad attrarre i nativi alla religione con le bellezze del culto esterno.
  5. Il non avere pensato nulla in ordine alla costituzione familiare, come è stato fatto per i “bororos”1 dagli stessi salesiani in Brasile. Quando avremo sgombrato una parte dell’ immensa foresta equatoriale e avremo realizzato dei buoni allevamenti di bestiame, avremo i mezzi sufficienti; allora sì che potremo promuovere il matrimonio cristiano, come è stato fatto per i bororos, regalando loro il terreno sufficiente, la casa, gli strumenti di lavoro ecc. .
  6. L’aver pensato in questi otto anni quasi esclusivamente alle strade……… che cosa si è fatto di veramente organico in questi 25 anni? Che cosa di veramente cristiano e di religioso hanno imparato gli shuar?
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Foto di un tipico Shuar tratta dal lungometraggio di don Carlo

Il P. Crespi progetta di impegnarsi  a fondo per portare al popolo Shuar  i presupposti della scrittura, della tessitura, dell’agricoltura e dell’allevamento, solo così lo shuar  comincerà a vedere che il civilizzato sta meglio di lui, solo così potranno stabilirsi attorno alla Missione nuove famiglie cristiane che vivano della stessa Missione e che nella Missione trovino la loro felicità.
L’insistenza di P. Crespi si muove nella linea di un lavoro pianificato nella direzione di uno sviluppo europeo che permetta l’evangelizzazione delle tribù autoctone. Ecco perché P. Crespi, ancora prima di partire dall’Italia, quando sollecitava aiuti dai diversi Ministeri italiani per la sua opera missionaria, parlava di un “magnifico programma di civilizzazione cristiana” (cfr. lettera del 10 marzo 1923 al Rettore Maggiore, don Rinaldi).

L’azione di civilizzazione richiederà, poi, strade, luce elettrica, poste, telefono a livello di infrastrutture, mentre, a livello educativo saranno necessarie scuole agricole e scuole di arti e mestieri, così che le popolazioni indigene possano arrivare alle nuove tecnologie dell’epoca. All’interno di questo processo di trasformazione, il Vangelo potrà essere annunciato con i frutti positivi sperati.

Nella cultura di allora si guarda al cammino di acculturazione delle popolazioni indigene verso i modelli della produzione e del consumo tipici della civiltà occidentale, perché in questo contesto di modernizzazione si arrivi a introdurre i gruppi amazzonici alla conoscenza e alla pratica del cristianesimo.
Senza dubbio, l’orizzonte cognitivo di P. Crespi è condizionato dalla sua epoca e non gli si poteva chiedere di adottare appieno le prospettive antropologiche di “inculturazione” che verranno realizzate solo nella seconda metà del 1900.

Comunque egli aveva già intuito che la strada da seguire nell’opera di evangelizzazione tra le popolazioni indigene sarebbe stata quella dell’ “inculturazione”, processo che richiede conoscenza, scambio e arricchimento reciproco delle culture che si incontrano, nello specifico, quella shuar e quella cristiana, legando le credenze ancestrali al cristianesimo, arricchendo questa fede di elementi tradizionali autoctoni. Il processo di inculturazione avrebbe previsto diverse fasi: quella dell’immersione del Cristianesimo nella specifica cultura del popolo con la conseguente interazione tra fede e cultura; ed infine la trasformazione, cioè l’arricchimento reciproco della cultura e del Cristianesimo.
Questa strada sarà intrapresa con decisione nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II; prima, infatti, prevaleva una sorta di “colonizzazione cristiana”, che tendeva a demonizzare i miti indigeni e ad imporre i riti occidentali. La nuova via sarà, appunto, quella di utilizzare e di dare valore alla cultura religiosa locale, sicché anche i miti indigeni sono trasformati in storie di salvezza, letti alla luce del Vangelo. Il Cristianesimo non è più allora una religione degli stranieri, ma entra in loro, diviene una dimensione che gli appartiene. In particolare, il Cristianesimo darà una forza tutta speciale alla cultura Shuar e tutte le tradizioni ne usciranno arricchite da questa preparazione per arrivare a Cristo.

  1. sono un gruppo etnico del Brasile che vive sparso in 8 villaggi nelle zone centrali del Mato Grosso, studiati dall’antropologo e etnologo Paul Rivet, dal punto di vista etnografico e linguistico tra il 1901 e il 1906 []