I primi contatti con gli Shuar li ebbe con quelli che vivono nella zona di Bomboiza, Chuchumblesa, Cuyes e Calagràs, luoghi quasi impenetrabili. Fu ricevuto con difficoltà ma senza minacce. Porto con sé alcune cose che gli piacciono molto: stoffa, munizioni, specchi, aghi. Con l’aiuto degli shuar che lo accompagnano fa loro capire che è missionario, che vuol loro molto bene, che vuole parlare loro di Dio. A buon diritto si può affermare che don Carlo fu un antesignano della evangelizzazione delle etnie Ashuar e Shuar, che abitano nelle foreste amazzoniche dell’Ecuador orientale, mediante la cosiddetta “inculturazione”1, termine che costituisce una conquista di oggi, soprattutto a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II. Egli, cioè, sosteneva che, come nel giorno di Pentecoste, tutti devono poter ricevere e comprendere la fede nella “propria cultura e nel proprio linguaggio”.
A conferma della fondatezza di questa sua intuizione, mi piace citare il prof. Bruno Luiselli, professore ordinario di letteratura latina, all’Università “La Sapienza” e docente all’Istituto patristico “Augustianum” di Roma, il quale, in un suo libro, La formazione della cultura europea occidentale (Herder, Roma 2003), spiega come nei primi secoli il cristianesimo si sia diffuso tra gli illetterati e i poveri parlando con la loro lingua e attraverso la loro cultura. Fin dall’inizio la dinamica dell’inculturazione fu un’esigenza ovvia, anche se non teorizzata. Luiselli afferma, inoltre, che “Paolo è il primo ad enunciare l’assunzione di elementi di cultura pagana da parte del cristianesimo, appunto l’ara al dio sconosciuto e il verso del poeta-filosofo greco Arato: «di quel dio noi siamo la stirpe»”. L’Apostolo – continua il cattedratico – proclama che quell’altare che i pagani hanno dedicato al dio che non conoscono, essi lo hanno inconsapevolmente eretto al vero Dio. Paolo enuncia quindi l’assunzione di realtà pagane per servirsene ai fini dell’annuncio cristiano. Ma vorrei dire che l’inculturazione nella storia del cristianesimo si manifesta ancora prima del discorso all’Areopago. Si realizza la primissima volta proprio nell’Incarnazione stessa, quando la Parola con la P maiuscola, Dio, assume la natura umana e si esprime con la parola dell’uomo, nel tempo, nel luogo e nella cultura particolari in cui Gesù è vissuto. «La Parola si fece carne e venne ad abitare tra noi», dice Giovanni”.
E’ quindi importante sottolineare come in questo duplice intento di penetrazione e di civilizzazione, don Carlo si sia preoccupato di non commettere gli errori della colonizzazione che, prima in Nord America, poi in Patagonia e, da ultimo, nella Terra del Fuoco, cancellò in poco tempo le etnie indie2. Preoccupazione abbastanza scontata oggi, ma frutto di una notevole sensibilità umana e cristiana negli anni ’20 quando, da parte della cultura bianca imperversava un’abominevole “antropofagia” delle culture aborigene che, in certi momenti, non disdegnò neppure di macchiarsi di orrendi misfatti che portarono ad un vero e proprio genocidio.
Con altri salesiani, e segnatamente con un gruppo missionario più illuminato, Carlo Crespi reagì al vecchio “eurocentrismo ed etnocentrismo che considerava la cultura europea il modello da imporre ai popoli di tutto il mondo, mentre classificava come barbari e, al limite selvaggi, i detentori di culture diverse. Tutt’altro spirito mosse invece da Mendez e da Gualaquiza i missionari salesiani”3.
Il nostro Crespi, più che pronunciarsi in teoria su tale linea, l’attestò con la prassi, con i suoi articoli sempre riguardosi verso gli indios, con le sue lettere e conversazioni, che ebbero sempre riferimenti espliciti a favore delle loro etnie. Tra le più nette prese di posizione, figura la presente: “L’opera dei missionari e, in particolare del Governo, dovrebbe – come non fece negli Stati Uniti ed in Argentina – preoccuparsi di limitare l’invasione bianca, in modo che restino agli indi territori sufficienti per il loro sviluppo ed il loro avvenire familiare (…) Il Kivaro è un vero re della foresta, padrone dei sentieri, delle acque, di tutti gli elementi che lo circondano (…) Egli intende mantenere rigorosamente tutte le proprie tradizioni familiari e razziali”4.
Egli amò fondere il calore dell’avventura al freddo resoconto scientifico. I reperti da lui raccolti ed esposti poi nelle mostre di Roma e Torino nascondevano, infatti, spessori di vita e di amore. I risultati furono presto tangibili: raccolse oltre 600 varietà di coleotteri alcuni dei quali, fino ad allora sconosciuti, oggi portano il nome scientifico di “crespiani”. Raccolse arboscelli, felci, licheni, muschi. Preparò 60 gabbie di magnifici uccelli. Scatto migliaia di foto. Trovò migliaia di oggetti di appartenenza indiana. Scavò anche alla ricerca di reperti archeologici. Infine poté disporre di un pronto repertorio di vegetali, animali e di oggetti vari, sia in originale che in riproduzione fotografica.
La gran parte di questi oggetti, prima di essere spedita in Italia, fu resa accessibile al pubblico in una simpatica Esposizione Orientalista sulla piazza della cattedrale di Guayaquil, nella casa del poeta Rendon, dove rimase per 40 giorni con oltre 30.000 visitatori, ai quali tenne 120 conferenze.Ma ormai don Carlo era lanciato, a fine ’24 condusse una campagna nella capitale in appoggio alla costruzione della strada Pan-Mendez, mentre nei ritagli di tempo scrisse a raffica una serie di memorabili articoli pubblicati sul Touring Club Italiano e dal “Bollettino Salesiano”, seguiti con molta attenzione e apprezzati dagli studiosi competenti.
A fine anno organizzò un’équipe cinematografica per realizzare nella selva ecuadoriana la prima pellicola sull’ambiente e sulla vita dei “Kivaros”.
Come abbiamo già accennato, per i suoi viaggi nell’oriente, partiva da Cuenca; raggiungeva in auto El Descanso, a 16 km dalla città. Quindi si proseguiva a cavallo, a dorso di mulo o a piedi sino a Paute, Guachapala, El Pan, Sevilla de Oro, Cerro Negro, Pailas, Santa Elena, Copal, Partideros, Mendez, che era una delle mete finali. Oltre a dover superare i numerosi ostacoli, già menzionati, ne n’erano degli altri: fango, freddo, steppe, foreste umide, tempeste tropicali, insetti e altre difficoltà. Un nuovo e difficile percorso era l’incamminarsi verso Macas, passando da Huambi, Sucua, Arapicos e altri insediamenti minori. Padre Crespi ricorda come uno dei suoi viaggi più ricco di avventure fu quello a Yaupi, Morona e Pongo de Manseriche, in compagnia di altri esploratori. Racconta con particolare enfasi le difficoltà riscontrate in quella ascese e discese in mezzo ad una natura stupenda. Il viaggio di andata e ritorno, durò 51 giorni. Il Pongo è una stretta gola in cui scorrono impetuose le acque di un fiume con mulinelli che non permettono la navigazione. In uno di questi gorghi, padre Crespi cadde in acqua con tutti gli occupanti di una piccola imbarcazione e ci vollero diverse ore superare questo ostacolo.
Lavorare nelle missioni era un lavoro difficile, soprattutto per la frammentazione della popolazione. Ogni abitazione familiare era costruita distante dalle altre. Per i missionari, non era facile accettare, l’evoluzione culturale degli shuar, con abitudini restie ad ogni cambiamento, soprattutto per l’usanza delle famiglie di vivere in una condizione di poligamia. Abituati al loro isolamento e ai propri antichi costumi, questi indigeni erano particolarmente diffidenti nei confronti degli stranieri. L’approccio ai nuclei familiari comportava molta pazienza per superare fallimenti e rifiuti, con atteggiamenti a volte aggressivi. Tuttavia, il desiderio di condurli alla fede cristiana e redentrice era un poderoso incentivo a proseguire con perseveranza. Le missioni resistettero e furono non solo buone per conseguire il fine principale dell’evangelizzazione, ma anche per sradicare abitudini offrire i mezzi per migliorare le condizioni di vita delle famiglie e delle comunità che abitano la regione orientale da migliaia di anni.
Per comprendere con quali occhi dello studioso e con quale cuore del missionario don Carlo guardava a questi indios, ci viene in aiuto la relazione che egli fece al più volte citato Rettore Maggiore, il beato Rinaldi, del 24 aprile 1924 (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza).
- l’inculturazione come «l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture». L’inculturazione si caratterizza dunque per un doppio movimento: da una parte un movimento dialogico diretto verso le culture, che passa per l’incarnazione del Vangelo e la trasmissione dei suoi valori; d’altra parte un movimento orientato verso la comunità ecclesiale che si traduce nell’introduzione al suo interno di valori presenti nella cultura che essa incontra. Si dà allora una fecondazione reciproca. [↩]
- Le isole meridionali dell’arcipelago della Tierra del Fuego, per esempio, erano abitate, da non meno di 6.000 anni, dagli Alakaluf e dagli Yámanas, che «osservarono impotenti lo sgretolarsi della propria cultura all’arrivo dei primi coloni, verso il 1880». Erano cercatori d’oro dall’Italia, dalla Croazia, dalla Spagna, dalla Francia e allevatori di pecore dall’Inghilterra, per riempire «di lana pregiata le industrie britanniche ». Soprattutto questi ultimi, non soffrendo la presenza degli indios – che rubavano gli ovini, prede molto più facili da cacciare degli abituali guanachi, del resto allontanati dalla presenza delle greggi –, decisero di sterminarli. Misero una taglia di una sterlina per ogni paio di orecchie, testicoli, seni, o testa che provassero la morte di un aborigeno. Inoltre, da tempo i navigatori europei che passavano sulle navi lo stretto di Magellano si divertivano ad ucciderli con «ejercicios de tiro». Nel giro di dieci anni, i circa 3.000 Yámanas che subirono l’impatto con i coloni, erano diventati 1.000, nel 1910 meno di cento. [↩]
- Presencia Salesiana en el Ecuador – Edibosco, Cuenca 1987, pag. 35. [↩]
- Entrevista con el P. Carlos Crespi, in “El Commercio” Quito16 aprile 1928 [↩]