Rev.mo Sig. Don Rinaldi,
Malgrado la tormentosa vita di movimento che mi impedisce il più delle volte di raccogliere le più fugaci impressioni di propaganda benefica, eccomi a continuare la narrazione di alcuni episodi più salienti dei miei viaggi missionari nella folta foresta amazzonica. Queste pagine riassumono una delle più proficue e più pericolose escursioni fatte nel paese dei Kivari.
Tra le dune del Chimborazo.
Il viaggio lo iniziai il marzo scorso dalla capitale della repubblica, Quito, ove con diversi colloqui col Presidente della Repubblica e coi suoi ministri, era riuscito a far conoscere l’importanza della nostra azione missionaria ed a far accettare e sostenere un forte programma di civilizzazione.
Il primo giorno in treno fino a Riobamba fu uno dei più deliziosi. In un bel cielo primaverile, un sole equatoriale illuminava lo splendido altipiano andino circondato nelle alte cime dai vulcani « Cotopasci, Cungurahua, Altar, Chimborazo » e nelle insenature delle valli da fertilissimi ripiani a prato, granoturco, erba medica ed alberi fruttiferi; Mackacki, Latacunga, Ambato passarono innanzi ai miei occhi più festevoli, più ricchi, più belli che mai nello splendore delle loro fertili pianure e nei pittoreschi costumi dei loro abitanti. Arrivati a Riobamba la notizia di una catastrofe: una colossale inondazione del fiume Ckanckar ha interrotta completamente la linea ferroviaria: centinaia di metri di rotaie asportati completamente, solidi ponti caduti, frane pericolosissime ovunque minacciavano la vita; alcuni milioni di danno, sei mesi di riparazione.
Consultai subito la carta geografica, alcune guide pratiche, la resistenza dei miei muscoli motori ed il giorno seguente con una fedele guida armato di un bastone ero sulla via di Palmira: settanta kilometri a piedi in un giorno era l’itinerario prescritto: la prima tappa a S. Luigi, la seconda a Guamote, la terza a Palmira. In tre ore vincemmo l’alta cordigliera, ci portammo quasi ai quattro mila metri, e ci gettammo a marcia forzata nella direzione di Guamote. Era la santa settimana di Passione. Forti masse di indii attraversavano la nostra via e si gettavano ai miei piedi domandando la santa benedizione, e sopratutto insistendo li preparassi alla Pasqua. Loro dissi che mi accompagnassero alla chiesa e difatti contenti e trionfanti mi guidarono alla chiesetta ove potei incontrare un venerando sacerdote parroco tutto intento nel sacro Ministero. La mia presenza non era urgente: rivolsi alcune parole cristiane, spiegai la necessità che avevo di raggiungere il campo di apostolato affidatomi dal Signore e con un forte strappo al cuore benedicendoli li lasciai. Molti piangevano: molti mi pigliavano per le mani baciandole tenerissimamente, volevano a tutti i costi impedirmi il passo: promisi che un’altra volta sarei andato a visitarli. Il sole di mezzogiorno ci raggiunse in Guamote dopo 6 ore di marcia forzata. Preso un boccone ci gettammo per la via di Palmira nel deserto Paramo. La stanchezza ormai si era impossessata delle nostre gambe e ci aspettavano ancora ore tristi e di gran dolore.
Il Chimborazo avvolto in un manto grigio e misterioso minacciosamente ci flagellava coi suoi venti innalzando nugoli di polvere, provocando nel triste deserto molini pericolosi di sabbia mobile: a un’ora da Guamote la terribile regione delle dune nell’ora, la più tragica, del tramonto.
Non sto a descriverle l’orribile passione: le gambe sprofondavano fino al ginocchio nella sabbia, un vento freddo, contrario ci lanciava nella bocca, nel naso, negli occhi una terribile polvere acceccatrice: più mi sforzavo di tenere il sentiero della ferrovia e più il vento mi spostava ove la sabbia era più alta, più profonda. L’indio che mi accompagnava, col fardello dei viveri malgrado non fosse la prima volta che fosse sorpreso dalla tormenta di sabbia, si dimostrava vinto, accasciato, addoloratissimo dei miei dolori. Finalmente dopo tre ore di orribile deserto sabbioso senza incontrare anima viva, si proiettò nel lontano orizzonte una macchia di Eucaliptus ed un piccolo campanile della chiesa. La meta sembrava vicina: un’altra ora di lotte inenarrabili e ci trovammo a bussare alla porta del parroco il quale ci accolse con una paternità veramente francescana offrendoci subito quanto di meglio aveva.
Nell’oscurità della notte.
Passammo quindi alla chiesa freddissima: durante il S. Rosario ebbi un principio di svenimento per l’orribile stanchezza: potei uscire sul sagrato e caddi a terra non visto da nessuno e sdraiato, quasi fuori dei sensi rimasi per circa mezz’ora. Quando rinvenni già suonava la campana della S. Benedizione: provai ad alzarmi per ricevere i carismi di Gesù Eucaristico. Il malore mi era passato: ero sano, sveglio, fresco, disposto a continuare la marcia. La notte la passai insonne agitatissimo per lo sforzo fatto nel superare la regione delle dune. Al mattino alle cinque ero in chiesa per celebrare la S. Messa ed attendere a decine di fedeli desiderosi di compiere il precetto pasquale. Alle 9 già ero sulla via di Achupalla attraverso l’altissima cordigliera che si appoggia al nodo del Azuay. Non una casa, non un albero: tutta una regione altissima deserta, percorsa da acque freschissime e da centinaia di armenti di pecore bianchissime i cui guardiani durante la notte si riparano in grotte e caverne. Verso sera dopo aver passato dei torrenti pericolosi e dopo essere stato flagellato dalle acque di un furioso temporale toccava Achupalla, un ridente paesello a circa 3000 metri sul livello del mare sull’antica via degli Incas.
Il parroco mi si mostrò di una gentilezza senza paragone; voleva a tutti i costi che mi fermassi alcun tempo per dettare gli esercizi al suo popolo: il giorno seguente volevo continuare il viaggio, ma un †empo orribile con neve ci sconsigliò assolutamente di avventurarci all’ascesa del Azuay. Riposai tutta la giornata attendendo fino alla tarda notte al ministero della confessione.
Tra i turbini del Azuay.
Al mattino seguente dopo una numerosa comunione, già mi trovavo sulla via del Tambo. Appena usciti da Achupalla un paesaggio fantastico: una via incassata tra due rupi altissime e colossali gran fortezza naturale ove diverse volte ai tempi preistorici americani le uniche armi del combatimento furono macigni rovesciati sul nemico che tentava forzare il passo. Verso le dieci mi sentiva mancare il respiro e l’ascesa a piedi farsi difficilissima: la mia guida si era fermata indietro: senza accorgermi ero arrivato sull’altissima cima del Azuay che raggiunge quasi i cinque mila metri. Soffocato quasi dalla mancanza di respirazione mi sedetti aspettando il cavallo, ed a cavallo mi avventurai alla terribile traversata che ha costato già tante vittime. Era già passato il mezzogiorno l’ora propizia per un facile passo: una tormenta spaventosa con nevischio, tuoni, lampi, e raffiche di vento ci avvolse completamente. Il sentiero sull’orlo di una voragine spaventosa era scomparso. Ogni passo della mula mi sembrava che fosse un passo verso l’abisso, ogni lampo un fulmine che mi incenerisse: la situazione era tragica e compassionevole. Nel mio cuore offriva la vita al Signore, in olocausto, per la conversione dei Kivari: o Signore diceva, se devo proprio morire qui su questa terribile altura lontano dalla patria, dei miei superiori, dai miei parenti, dai miei carissimi Kivari, ed essere pasto del condor vorace, sia fatta la tua volontà. Dopo un’ora circa di traversata orribile, sulla cresta del Paramo, grazie alla protezione del cielo ed all’abilità della mula paziente abbandonammo la pericolosa cima ed incominciammo la discesa in una stretta mulattiera a precipizio, sassosa, però riparata dai venti, ogni tanto mi voltava indietro ad osservare la cima della morte, e nel mio cuore rinnovavo il santo proposito di non avventurarmi giammai a simili passi se non in epoca meno pericolosa. Verso le tre eravamo al lago di Culebrilla che raccoglie la acque delle alte cime. Dopo Culebrilla il cammino era scomparso, una fitta nebbia ci avvolse, colle povere bestie andavamo a casaccio nella direzione Sud: per buona fortuna la deviazione non fu pericolosa e quando verso le cinque gli ultimi bagliori del sole illuminavano l’arida zona del Paramo, ci si proiettò in lontananza la bella conca del Tambo. Alle 8 mettevamo già piede nella chiesetta a ringraziare il Signore dello scampato pericolo, ed al giorno seguente già era a Cuenca nella casa centrale delle missioni ad organizzare il viaggio per le foreste amazzoniche. I preparativi durarono quasi una settimana dovendo la progettata escursione durare più di tre mesi, e verso i primi di aprile salutato il pittoresco paesello del Pan ove i Salesiani tengono una fiorente parrocchia, passata l’alta cordigliera mi inoltravo nelle foreste amazzoniche per la strada comoda, facile aperta dal Rev. Padre Albino Del Curto, Salesiano.
La mulattiera ideata da un Salesiano.
Già in altre corrispondenze potei annunciare le grandi difficoltà che presenta l’apertura di strade di comunicazione tra la zona civilizzata ed il paese dei Jibaros. Sono circa 100 km. di burroni, precipizi, foreste impenetrabili attraverso le quali con indicibili sofferenze ci si deve aprire un sentiero, come se lo apre l’orso ed il giaguaro. Arrampicandosi con corde, abbassandosi con rampicanti, incidendo nella durissima roccia un piccolissimo vano onde poggiare il piede sul profondissimo abisso, passare settimane intere sotto piogge torrenziali senza avere una casetta per dormire, e molte volte cibo con che sfamarsi, ecco la storia dura della mulattiera Pan-Mendez, dovuta all’iniziativa del Padre Albino del Curto e sempre sorretta dal venerando Vicario Monsignor Costamagna e dall’attuale Monsignor Comin. Il primo pericolosissimo sentiero che alcuni anni or sono si percorreva in quasi 8 giorni, ora si è già in parte convertito in solida mulattiera ed in comodo cammino a piedi che si può percorrere in due giorni, e molte decine di famiglie, mercé l’apertura della strada già hanno trovato nella vergine foresta fertili terre onde costituire la loro dimora e cooperare coi missionari salesiani alla grandiosa opera di redenzione e civilizzazione dei Kivari.
Nel regno delle scimmie.
Il viaggio a Mendez sempre bello, sempre vago nella magnificenza del paesaggio, nella infinita varietà della flora e della fauna, nell’orrida imponenza dei torrenti impetuosi e delle capricciose cascate, durò tre giorni. Al secondo giorno già ci era venuto incontro lo zelante missionario Don Corbellini con alcuni dei più fedeli indios. Veri re della foresta i Kivari hanno un fiuto curiosissimo per la caccia, e risalgono l’intricatissima cordigliera delle Ande per precipizi o burroni impossibili, sopratutto per la caccia alle scimmie. Uno dei selvaggetti venendo all’incontro prima ancora di salutarmi e di dirmi i convenevoli, tutto felice e fuori di sè dalla gioia, arrampicandosi sulle braccia per toccarmi la barba, mi diceva: oggi sì che mangeremo bene: maschio e femmina, grandi, grossi e due piccolini vivi: la pelle sarà per te, ma me la devi pagare bene. Vieni, corri a vederla, è di un bel color nero. E durante il percorso del cammino, felice andava ripetendo le gloriose e fortunate gesta della caccia. Dopo pochi minuti arrivai alla capanna e vidi il papà che stava abbrustolendo un grosso scimmiotto di un metro di altezza già spelato, ed in un canto una scena importantissima: una grossa scimmia femmina uccisa, con un piccolo scimmiotto vispo, direi quasi intelligente, che gemente si gettava sul corpo di lei, pigliandole le braccia, le mani, accarezzandola o baciandola nella bocca come se volesse ridarle la vita, procurando di sollevarle la testa, come per dirle: fuggiamo, fuggiamo da questi cattivi. Veramente la scena pietosa era una documentazione del vivissimo istinto amoroso che Dio ha posto anche negli animali. Dopo una mezz’ora di inutili tentativi e richiami alla vita della madre, lo scimmiotto si accoccolò sul suo seno, si chiuse in un profondo dolore e si lasciò morire. Il jivaro, al quale mi ero rivolto con parole severe perché non era stato capace di conservare la vita del grazioso animaletto, mi rispose che sempre così succede, è ben difficile che un piccolo possa vivere senza la compagnia della madre. E, senza tanti complimenti, incominciò a squartare i due morti per far abbrustolire le carni e preparare uno squisito boccone pel pranzo. Io pure mangiai della carne dello scimmiotto e la trovai eccellente e sana, malgrado fosse semplicemente abbrustolita e con un poco di sale.
Il paradiso dei Kivari.
Il resto della giornata passò senza gravi incidenti e verso sera arrivammo felici e contenti, malgrado l’enorme stanchezza e strapazzo del viaggio, alla casa missionaria di Mendez. Subito ci colpirono i grandi progressi della Missione, diversi ettari di terreno disboscati ridotti a fertili piantagioni di caffè, canna da zucchero, banani, prati, ecc., ed all’intorno decine di case di coloni e numerosi divari, amici del missionario. I miei amici jivaros, sopratutto i bambini, erano fuori di sè dalla gioia vedendo arrivare tante casse di tessuti, vestiti, schioppi, coltelli, specchi, medicinali, il vero paradiso terrestre dei kivari, perchè quasi solo nel possesso di queste cose devono sognare questi figli della foresta, quando la loro vista li riempie di una gioia chiassosa che erompe in risate sonore ed in altisonanti parole di commento. Arrivato a Mendez, e sviluppate le lastre fotografiche prese nel cammino, organizzai subito il mio piano di battaglia coi Kivari, per compiere le visite a tutte le kivarie del Chupianza e dell’Upano.
Sulla tomba dei Navicha.
Il fedel kivaro Sharupi mi sì propose subito come guida per le valli del Chupianza e il giorno seguente di buon mattino mi stava aspettando coi figli per iniziare l’escursione. Svelto, leggero, ciarlone, impegnatissimo nel farsi onore e nel mostrarsi guida eccellente, o come diceva egli caballero, cioè uomo di alto lignaggio, sempre pronto a sostenermi nei passi pericolosi, a rimuovere col machete gli alberi caduti, mi fu di una compagnia invidiabile, preziosissima. A due ore dalla Missione, passammo vicino alle tombe dei famosi stregoni del Navicha, assassinati or son due anni. A bella posta volli fermarmi, recitare una preghiera ed investigare i probabili autori di tanto delitto. Il kivaro Sharupi si fece triste, non voleva sapere di questi discorsi; andiamo Padre, ché l’ora si fa tarda e la notte ci coglierà nella foresta infestata da tigri e da serpenti velenosi. La storia dell’uccisione dei kivari del Navicha è una terribile storia di sangue organizzata da quasi tutti i kivari circostanti alla Missione; anche la mia guida se non aveva gettato pel primo la lancia assassina, aveva certamente partecipato alla congiura, ma da lui nulla potei sapere e dove prima esisteva una forte tribù amica dei padri s’incontrano alcuni pali caduti, scomposti, ed una croce posta dai missionari.
Travolti dall’onde.
Continuammo la via per circa un’ora in silenzio, e venne a distrarci dalle lugubri riflessioni il cupo rumore del rio Chupianza che serpeggia laggiù in basso nella profonda valle. Sharupi diede ordine ai figli che corressero a preparare la balza per il passaggio: affrettai il passo per raggiungere il fiume maestoso, dalle rive superbe, ricoperte da una vegetazione imponentissima; dopo aver raccolte le acque turbolenti di decine di torrenti; prima di unirsi al Paute si allarga in una valle con splendidi declivi e con terreni fertilissimi. Le sabbie del letto sono aurifere, e di tanto in tanto sono sfruttate dai coloni del Azuay. I terreni preziosi occupati nella parte superiore da alcune decine di Jivaros, amici dei missionari e disposti ad accogliere benevolmente fiorenti colonie straniere. I figli del Sharupi erano già discesi nel fiume, l’avevano già passato a nuoto e stavano da lontano risalendo colla balza intrecciata con quattro pali leggerissimi di un legno che abbonda nella foresta e che gettato in acqua sempre sta a galla. Remando con lena, veri emuli di “Carón demonio”, appena mi videro in lontananza vollero accelerare i movimenti, e pervasi da una gioia pazza, inconsci del pericolo si misero ad attraversare un punto assai critico, profondo, rapidissimo. Quando la barca stava nel punto culminante, si sfasciò completamente, la corrente impetuosa trasportò i due giovinetti come un fuscello, e li assorbì nei suoi gorghi profondi. La scena era tragica, ogni tanto i due eroi lottando come giganti, ricomparivano a galla dominando le acque, ma subito erano travolti. Tutti i kivaros presenti, addoloratissimi, come pazzi si misero a correre sulla riva per poter gettarsi, a tempo opportuno, al salvataggio. Nel mio cuore molto pregava la Vergine Ausiliatrice, che volesse risparmiare una disgrazia. Infatti dopo pochi minuti di incertezza i due nuotatori avevano ragione delle acque e riuscivano ad uscire dal circolo pericoloso della corrente per slanciarsi alla riva, ove venivano raccolti. « Entza, ti cajeu, entza ti cajeu » il fiume molto rabbioso, andavano ripetendo, impossibile vincerlo. Estrassi subito dal mio cassone un cordiale rinforzante, ma prima che io avessi il tempo, la sorella aveva preparato un’abbondante tazza di ciccia masticata e sputata la sera precedente, ed in un attimo la divorarono, rimedio infallibile contro tutti i mali.
Catechismo e gramofono.
Ormai il sole si avvicinava al tramonto, passare il fiume era impossibile, e deviammo alla kivaria del vecchio Chunchu, che ci accolse con una festa grandissima. Fino a tarda notte la casa risuonò di alte grida e di solenni discorsi sullo scampato pericolo e sulle circostanze della lotta. Io intanto avevo preparato il mio altarino, ed una buona pignatta di acqua zuccherata e me la intendevo coi kivaretti nell’insegnare un po’ di catechismo ed alcune delle più importanti verità eterne. Avevo pure promesso la musica e dopo cena estrassi il gramofono e fino alle alte ore della notte dovetti sollazzare la compagnia insaziabile nell’udire per la prima volta un istrumento tanto raro. Al mattino seguente all’aurora, prima ancora che mi preparassi alla S. Messa, Sharupi aveva mandato al fiume due giovanotti ad allestire una robusta balza. Terminata la S. Messa, il catechismo, accompagnato da tutta la famiglia discesi al Chupianza. Il passaggio di tutte le casse e persone durò più di un’ora: io fui l’ultimo ed uno dei hivaretti intelligenti volle farmi una improvvisata: alla riva opposta aprì il cassone del gramofono, lo montò e si mise a suonare allegramente tra le risa assordanti di tutti i compagni e tra la mia benevola compiacenza ed ammirazione per la sua intelligenza. Io pure passai il fiume pericoloso afferrandomi ben bene ai due bastoni e bagnato come un pulcino dopo mezz’ora eravamo già in viaggio per raggiungere le kivarie del Aiuiu grande. Un sole tropicale ardentissimo ci dardeggiava inesorabilmente, ed i jivaros, che già prima avevano preso un bagno forzato, vollero dare un altro saluto al fiume facendo quattro capriole per rinfrescarsi; mentre io andava raccogliendo alcuni ciottoli della riva per uno studio geologico del letto del fiume. Freschi, allegri come pasque dopo dieci minuti di toeletta, già erano in viaggio soffiando gagliardamente nei loro flauti a due buchi.
Nel regno della natura.
Nella flora ai lati del sentiero sempre novità e meraviglie botaniche. Questa erba, mi diceva il Sharupi, va bene contro il mal di testa, questa altra contro le dissenterie, quell’altra per conquistarsi l’affetto di una persona. E mentre io ero tutto intento ed appassionato nel raccogliere ecco che gli indios mandano un urlo d’allerta e poi ricadono in un profondo silenzio.Vedi, Padre, mi dice Sharupi, là, là, è molto rabbioso, molto velenoso.
Alzai gli occhi ed alla distanza di due metri un magnifico serpente verde attorcigliato sopra un ramoscello del camino, tranquillamente si pigliava il sole. Il giovane figlio di Sharupi senza tanta misericordia con un colpo di lancia l’atterrò e lo finì schiacciandogli miseramente la testa. La foresta dell’Oriente ecuatoriano è forse il luogo ove Iddio con la sua potenza creatrice ha maggiormente profuso la vivezza dei colori: uccelli dal piumaggio originalissimo, farfalle di tutti i disegni e di tutte le evanescenze della tavolozza pittorica, fiori i più finemente ed intensamente rossi, bianchi, scarlatto, giallo, e serpenti pure riproducenti i più vivi colori dell’iride. Appena ucciso il serpente, il giovane jivaro, sospendendolo con un laccio al collo, me lo presentò: lungo non più di un metro, di un vivissimo color verde vellutato, con un grazioso disegno sulla schiena, con due occhi cerulei sanguinei e con due denti velenosissimi al palato. Lo misi subito in formalina, mentre il vecchio Sharupi mi faceva la predica dicendomi: “Un’altra volta devi stare più attento, forse che sei kivaro per raccogliere tante erbe; forse che sei ammalato per portarle alla tua casa e perchè raccogliere i serpenti così cattivi, così velenosi? Il kivaro non fa così; il kivaro l’ammazza e poi lo getta via”. E continuava il poveretto con una eloquenza ciceroniana narrandomi minutamente tutto il processo interessantissimo della cura che fanno ì selvaggi contro la morsicatura dei serpenti, cura che io potei scrivere tutta e che a tempo opportuno potrà interessare la scienza ed il lettore.
Nella casa del grande Aiuiu.
Dopo circa due ore il canto del gallo ci annunciava la presenza della kivaria. Infatti al primo ruscello incontrato, tutti gli indios fecero sosta, si gettarono in acqua, si lavarono ben bene sopratutto le gambe ed i piedi, e fecero una toeletta da grande solennità con robusti pettini di legno, dipingendosi di rosso vivo la faccia coi disegni più grotteschi e primitivi. Dopo pochi minuti entrammo nell’orto dell’Aiuiu grande; un crocchio di bambini mi scorse e subito fuggirono precipitosamente nella casa. Certamente essi non avevano mai visto un missionario con la barba. L’Aiuiu, un pezzo di uomo tarchiato, vera stoffa da atleta ci accolse con una freddezza glaciale, come per dirci: che sei venuto a fare nella mia casa?
Come un loro stregone.
Incominciai subito a parlargli, a fargli intendere che ero venuto a salutarlo come amico, a conoscerlo e portargli le benedizioni di Dio sui suoi orti, sui suoi figli e sui suoi porci, e che per questo, alla sera, avremmo preparato un bell’altare, fatto catechismo ed al mattino seguente celebrata la S. Messa. Ormai il sole era caduto, ed il magnifico altipiano illuminato dal crepuscolo appariva in tutta la sua bellezza divinamente incantatore. Uscii all’aperto, nel gran tempio della Natura e pregai Dio piuttosto col cuore che colle labbra, affinché fosse fecondo il mio apostolato. L’ Aiuiu nerboruto mi stava spiando credendo che io facessi degli scongiuri come uno dei loro stregoni e malefiziassi la casa. Per buona fortuna gli si accostò il fedele Sharupi dicendogli che portavo molte cose, molte macchine, e subito dimenticando gli scongiuri e le superstizioni si accostò a me mostrando desiderio che a tutta la sua famiglia mostrassi le macchine. Non desideravo altro: in un minuto il gramofono era montato e spandeva le belle note della marcia reale italiana. Un’altra volta la musica aveva conquistato l’ambiente: i kivari erano insaziabili nell’udire la varietà dei suoni e dei canti, la gioia più viva traspariva dagli occhi, dalla bocca, da tutti i movimenti degli indi. Tra un disco e l’altro il segno di croce, qualche parola sul paradiso, sull’inferno, sulla passione e morte di Gesù Cristo, e sulla necessità di pregare.
Le vie della grazia.
L’orologio ormai segnava le dieci di notte, presi un poco di brodo e di yuca e mi sdraiai per terra a riparare le forze perdute. Mentre tranquillamente recitavo il mio rosario mi sento palpare la faccia e le braccia da una mano nerboruta, callosa. Attraverso la debole luce rossastra emanata da un tizzone intravidi l’ombra dell’Aiuiu grande. Fatti in là: amico sono, con te voglio bene conversare, e si sdraiò accanto a me mentre un silenzio sepolcrale interrotto solo dalla sinfonia degli insetti dominava nell’immenso caseggiato. L’Aiuiu grande si era riempito certamente la pancia con una decina di litri di ciccia, perché aveva un fiato micidiale. Avrei potuto fargli capire che non era quella l’ora di dar udienza, ma guai con un gran capo rifiutare la conversazione, sopratutto quando ancora non si conosce. Si corre rischio di perderne l’amicizia e di cadere nelle disgrazie per diversi anni. Le domande che mi fece furono molte ed alcune abbastanza sciocche. Perché era venuto, dov’era la mia terra nativa, se avevo una madre, dei fratelli, delle sorelle, se al mio paese ci sono molte guatuse e suini da cacciare, se gli schioppi costano poco o sono più a buon mercato che a Culuca, se ci sono molti specchi, coltelli, aghi, se ci sono serpenti, se avevo moglie… ed ogni tanto mi accarezzava colle sue mani ruvide la barba dicendomi che medicina avevo per farla crescere così lunga. Ogni tanto cercavo di condire la conversazione con qualche parola cristiana parlando di Torino, dell’Ausiliatrice, di Don Bosco. del grado di civiltà raggiunto nei nostri collegi e scuole professionali nell’arte meccanica, ecc. o nelle nostre scuole agricole colla produzione di generi alimentari, sforzandomi di convincerlo che la cosa più importante della vita dell’uomo è la bontà e l’amore a Gesù Cristo, la salvezza dell’anima, l’andare in Paradiso, ecc. Il gallo di mezzanotte col suo stridulo canto ormai ci avvisava che l’ora era tardissima. Colla promessa di un bel regalo persuasi l’Aiuiu a lasciarmi tranquillo, e dopo pochi minuti chiudevo la laboriosa giornata con una santa gioia nel cuore felicissimo d’avermi conquistato l’amicizia del più gran capo del Chupianza. Dopo tre ore già ero sveglio per preparare il mio altarino per la S. Messa. Il gran capo con parole forti come colpi d’acciaio sull’incudine raccomandò il massimo ordine ed il massimo rispetto sopratutto alle donne e quella mattina ebbi la dolcissima soddisfazione d’aver intorno a me ed all’altare della Redenzione una sessantina di jivaros, avidissimi dei misteri cristiani.
Amatissimo Padre, può immaginare con che amore, con che tenerezza loro parlai del gran mistero della Redenzione, della Passione e morte di Gesù Cristo: mi sembrava di averli tutti convertiti, di averli fatti cristiani, perché molti domandavano il battesimo!
Oh potessimo moltiplicare queste visite ardue e difficili alle case kivare sono sicuro che in breve avremmo il vicariato sparso di fiorenti comunità cristiane.