Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Seconda)

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Brutalità selvaggia.
Al mattino, presto, si riunirono tutti i Kibaros dei dintorni per la S. Messa. Un kibaro però della valle di Tzararabiza non partecipò, e quindi credei opportuno andarlo a trovare a casa sua. Mentre Don Plà s’intratteneva coi kibaretti del luogo, m’internai nella foresta, malgrado il tempo sempre piovoso ed i sentieri orribilmente sdrucciolevoli.
Dopo tre ore di marcia dolorosissima, arrivai alla kibaria prefissa, di Gioachino Ramón. E, questo uno dei kibari di Gualaquiza, superbo, feroce, cercato a morte nell’antica Missione. Mi accolse però cortesemente ad un mio desiderio radunò i 13 figli e figlie per un po’ di catechismo, almeno per imparare il segno della Santa Croce.
Dopo mezz’ora i vispi marmocchietti erano stanchi. Regalai a tutti degli aghi grossi da sacco, assai graditi, ed alle donne uno specchio. Li invitai, quindi, a posare innanzi alla macchina fotografica.
– Non voglio io, e neppure mia moglie – mi rispose seccamente; – i ragazzi però sì che poseranno volentieri.
Intanto la pioggia era cessata, e, usciti nel magnifico orto, indicai il luogo ove avrei desiderato che si mettessero prima i fanciulli e di poi le fanciulle. Coi ragazzi ce la passammo facilmente; le bambine si trovarono un po’ impacciate e non volevano uscir di casa. Senza tanti complimenti il barbaro, ripetute alcune parole come colpi di martello, afferrò per l’abbondante capigliatura le tenere creaturine e le trasportò, come fossero quattro pannocchie di granturco, al posto indicato, innalzandole da terra un mezzo metro.

All’atto inumano rabbrividii, ed avrei voluto reagire con una filippica; ma, appena accennai di parlare, mi troncò la parola:
– Tu non sei kibaro, tu non sai niente! I kibari fanno così! Piglia subito la fotografia, ché le bambine sono pronte.

La serpe avvelenatrice X, (echis).
Presa la fotografia ed invitati i ragazzi, di una bontà eccezionale, a passare alla Missione, m’indirizzai all’azienda del Tappia, ove verso notte giungevo con Don Plà. I coloni erano già stati avvisati alcuni giorni prima, e felicissimi si radunarono tutti per accogliere le grazia di Dio. Terminato il rosario e la predica, si confessarono colla massima divozione e, alloggiati alla bell’e meglio, passammo la notte. Al mattino, nella miserabile capanna di due piani celebrammo la S. Messa.
Tre giorni prima il giovanetto custode, tagliando le canne da zucchero, aveva ucciso un serpentaccio velenosissimo, chiamato echis, « X », dal disegno a forma di X, che porta sulla testa. L’avevo pregato di estrarre la pelle con la massima diligenza, e per porla a seccare l’aveva appesa alla bassissima soffitta della catapecchia.
La mattina seguente, all’aurora, nel miserabile tugurio si celebra la S. Messa e può immaginare, amatissimo Padre, l’impressione profonda, da me provata, quando alzando all’adorazione dei fedeli il Re del Ciel.., l’Ostia Santa, … il Santo Echis della Redenzione si incontrò coll’emblema del serpente infernale, coll’echis appeso all’umilissima soffitta sopra la mia testa con la bocca aperta in atto minaccioso. I due emblemi opposti, l’eterno nemico dei kibaros ed il mansueto Agnello della Redenzione!…
Un freddo gelido m’invase tutte le membra, ed inalzando il Sacro Calice del Sangue preziosissimo di Cristo, mentre due piccoli selvaggetti con profonda divozione s’inchinavano ad adorare, oh sì che, senza interrompere la soave liturgia delle parole liturgiche, non potei fare a meno d’invocare dalla potente Ausiliatrice la morte di tutti i serpenti demoniaci, che col loro mortifero veleno rendono impossibili i generosi sforzi degli operai dì Cristo. Terminate le due messe, impartiti gli ultimi ricordi, ci mettemmo in viaggio per giungere all’ultima azienda detta di Peña Blanca. Attraversammo la bella valle percorsa dal fiume S. Antonio, arricchendo la collezione botanica di alcune specie di felci singolarissime, assolutamente mai viste in tutto l’Oriente.

Consolazioni apostoliche.
Verso sera arrivammo al colossale macigno bianco di trachite, che s’innalza in mezzo alla valle verdeggiante: i fianchi scoscesi impediscono lo sviluppo di piante: per questo fu battezzata « pietra bianca » tutta la località. Qui, avendo avuta la fortuna di incontrare dei falegnami, che stavano tagliando assi alla foresta, in poco tempo si potè fabbricare ex novo una bella cappelletta con un divoto altare. Purtroppo, i coloni che vengono all’Oriente, non sono stabili, alcuni sono vagabondi, cercati dalla Polizia; non rechi quindi meraviglia che Dio ricompensi le incredibili fatiche missionarie con conversioni di Indios, che da 20, 30 anni non s’erano riconciliati col sacerdote. Terminate le messe, un giovinotto mi condusse nella foresta ai piedi di un albero gigantesco e: – Qui sotto ci sta il fratello di mio padre – mi disse – preghi per il riposo eterno dell’anima sua. Invano, dopo una fervorosa preghiera, potei tentare di strappargli il segreto della morte.
– È un orribile fatto di sangue; mi disse il giovane; e piangeva, e non potei sapere altro.
Intanto la nostra escursione ai cristiani del distretto di Indanza era terminata. In 15 giorni, a marcie forzate, sopportando disagi e pericoli non lievi potemmo riconciliare a Dio una cinquantina di cristiani! Frutto miserabile, impari ai sacrifici lo giudicherebbe un osservatore superficiale! Che importa? È la pecorella smarrita che Dio ci ha imposto di cercare e la cercammo nel folto della foresta, lacerandoci le vesti, insanguinandoci le membra, felici di spargere qualche goccia di sangue per la sublime causa di Cristo!

Le vie del Signore.
Non tutto il male però viene per nuocere; le piogge continuarono con tal violenza, che assolutamente mi sarebbe stato impossibile il ritorno ed avrei dovuto rimanere senza celerare la S. Messa per mancanza di vino. Risalendo il sentiero della Missione mi colpì il suono del tunduli, tronco di legno incavato che i Kibaros usano per dare i segnali e che si ode sino a 25 chilometri di distanza. Il suono monotono annunciava la presa del Natema; la mia visita quindi alle loro case sarebbe stata inutile, anzi pericolosa perchè in detta occasione si abbandonano alla più volgare ubriachezza. Passati, quindi, alcuni giorni con alcuni Kibaretti della casa nell’esplorazione delle foreste circostanti, in cerca sopratutto di legnami preziosi e di erbe médicinali, assoldati peones e guide meno timide, mi slanciai per la valle del Junganza, Chupianza, affluenti del Namangora.

Commovente incontro.
La prima notte .la passammo ancora tra i pochi coloni stabiliti alle origini del fiume tra le feste e la gioia più pura, preparando i loro animi alla divozione all’Ausiliatrice, la cui festa avremmo celebrata insieme, come ringraziamento, dopo l’escursione difficile alle Kibarie. La mattina seguente, detta la S. Messa di buon ora, accompagnato da due robusti Kibaros, arrivammo alla Kibaria del Charupi. Malgrado il tempo, perfido e piovoso, il venerando selvaggio si dimostrò di un’ospitalità veramente eccezionale.
– I Padri – diceva ai suoi figli – li manda Iddio. Essi sono come gli stregoni; gli stregoni però tengono nelle loro mani tutte le malattie, tutti i malefizi per gettarli sui poveri Kibaros e farli morire, mentre i Padri tengono tutte le benedizioni di Dio Quando essi vogliono, le malattie scappano; quando il tigre minaccia i porci, essi lo fanno fuggire; quando gli orti sono aridi, essi fanno nascere radici di mandioca grossissima; quando noi andiamo alla caccia, essi ci fanno incontrare molti porci selvatici. E rivolgendosi a me: – Per questo, Padre, io ho dichiarato guerra a tutti gli stregoni, e voglio molto, ma molto bene ai Missionari! Vedi quante bellissime terre! Se vieni qua tu, te le regalo tutte. Ti faccio una bella casa, le mie donne ti regaleranno molta ciccia, e tu insegnerai ai miei figli a conoscere la moneta, a leggere, a scrivere.

Troppa grazia Sant’Antonio!
Mentre continuava la sua fervida arringa, le donne felicissime si apprestavano a porgermi la ciccia, frutto delle loro ributtanti masticazioni. Infatti si presenta la più anziana e mi offre una tazza che poteva contenere 5 litri del bianco e saporito rinfresco. La stanchezza grande e la sete orribile mi fecero rompere il riserbo, che generalmente tengo nell’accettare una bevanda tanto discussa, perché tanto masticata, e feci un largo vuoto nell’ampia tazza. Non l’avessi mai fatto: dopo la prima donna si presenta la seconda con una tazza ancor più grande, quindi una terza ed una quarta. E qual fu la mia sorpresa, quando, terminata la prima processione, ne incomincia un’altra con tazze ancor più ampie e ripiene di un’altra ciccia fatta colle frutta della palma « chonta », ciccia assai più saporita, ma carica di alcool. Allora mi feci coraggio e dissi al Charupi:
– Io sono contento e mi congratulo con te che tieni cuciniere una più valente dell’altra, e le voglio premiare con un bello specchio.
All’idea dello specchio a malincuore deposero le tazze: ed io mi ero liberato dal pericolo inevitabile di un’ubbriacatura.

I Padri pregano colle mani!
Intanto diedi subito ordine di preparare un bell’altarino per le preghiere della notte e per esporre una bella immagine dell’Ausiliatrice per attirarli ad un culto, sia pur rudimentale della dolcissima Madre. Mentre alcuni si erano sparsi nella foresta per scegliere i più bei fiori, approfittai per cambiare le lastre della mia macchina fotografica. Raccolto in un angolo della capanna, e coperte le mani e le braccia colla veste e con alcuni indumenti, con la massima circospezione lavoravo per caricare i chassis. Appena il venerando Charupi mi vide in posizione, impose il più rigoroso silenzio alle donne ed ai fanciulli.
– Silenzio, io lo so, sono vecchio: il Padre sta conversando con il suo Dio, sta pregando perchè i nostri porci ingrassino! Non bisogna disturbarlo.
– No, gli risposi io, possono parlare: sto lavorando colla macchina.
– Forse che sono un ragazzo? – mi rispose seccato. Non preghi tu forse colle mani nascoste sotto la veste?
E quando udiva il rumore dei vetri che si battevano uno contro l’altro diceva:
– Ecco come prega il Padre!
Qualunque spiegazione fu inutile: avrei dovuto sprecare delle ore per persuaderlo che si può pregare anche così, ma che lavoravo colla macchina:
– No, no: io lo so; io sono vecchio; voialtri, Padri, pregate molto, e non volete farlo sapere, per questo nascondete le mani.
Intanto l’altarino stava pronto, ma stava pronta anche la loro cena. Parlare di religione ai Kibaros prima di mangiare, è come gettare un pezzo di carne ad un cane e pretendere che non lo divori.

Innanzi all’Ausiliatrice.
Quando i miei merlotti furono ben pasciuti e ben bevuti e le donne pure avevano terminata la fabbricazione della ciccia, furono accese le candele dell’altarino, ed, intorno ad esso come cagnolini si accovacciarono i poveri figli delle tenebre. Il primo catechismo nelle foreste ad una ventina di persone di tutte le età, di tutti i sessi, in una lingua non ancora scritta, rappresenta un arduo problema. Estrassi dal petto il Crocifisso che Lei stesso mi aveva dato ai piedi dell’Ausiliatrice di Torino, e con le lagrime agli occhi narrai l’orribile storia di sangue di quell’emblema. Ad ognuno di essi faceva toccare i chiodi con cui l’avevano ammazzato i ladroni.
Immagini Lei, amatissimo Padre, che difficoltà insuperabili molte volte si provano nel far penetrare le più semplici narrazioni bibliche od evangeliche. Qualche cosa, però, avevano compreso della spiegazione, e quando appesi all’altare il Crocifisso e li invitai a pregare con la massima devozione, tutti senza alcuna eccezione, mirando il Dio della Croce, si misero a ripetere quelle poche invocazioni che la Fede mi suggeriva.

Il segno della Croce.
L’insegnare il segno della Croce è qualche cosa di arduo. I Kibaros, così furbi e scaltri quando si tratta di ammazzare uomini e salvaggina, quando si tratta di religione si mostrano di una rudezza che pare impossibile. Coi bambini si conchiude qualche cosa: colle donne e con gli adulti poco più di nulla. Il Missionario fa il segno della croce, dieci, venti volte: lo fa ripetere ai catecumeni, ma le donne incominciano a ridere, gli uomini a parlar forte; uno lo fa colla destra, l’altro lo fa colla sinistra, uno incomincia dalle spalle, l’altro dal petto„ e molte volte si passano tre, quattro ore senza. neppur avere la soddisfazione di aver insegnato il più elementare atto di culto esterno. S’immagini poi Lei, amatissimo Padre, che cosa rimarrà di questa faticosissima Missione, quando il Missionario, ben difficilmente potrà passare e rinfrescarla prima di un anno! La grazia di Dio, però, ha operato qualche cosa; spente le candele dell’altare, nell’oscurità della notte, al lume roseo di brage ardenti, ai piedi dei singoli letti, nella penombra si vedevano dei fanciulletti che insegnavano alle loro madri il segno della Croce, commentando magari con larghe risate le parole del Padre dette al Catechismo.
Non c’è da offendersi: il Kibaro ride sempre di tutto e di tutti, sopratutto quando ha la pancia piena.

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( Il seguito della lettera continua in “Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Terza)

 

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