Amatissimo Padre,
Lo avevo promesso alla nostra cara Madonna che, mentre a Torino riceveva l’apoteosi solenne e grandiosa di centinaia di migliaia di fedeli devoti, a Lei avrei fatto pur giungere l’umile, l’umilissimo omaggio dei miei carissimi Kibaros così superbi, così materialisti, così refrattari a qualsiasi forma di culto esterno.
Appena, quindi, ritornato dall’esplorazione alle origini del Santiago e spedito il materiale per l’esposizione di Roma, accompagnato da due « Indios » della Sierra m’internai nell’epoca più impropizia e più pericolosa tra le foreste che fanno capo alla sede missionaria d’Indanza.
Sensazionale assalto di un toro infuriato.
Il viaggio di andata questa volta fu uno dei più disastrosi. Appena uscito da Gualaceo pacifico, tranquillo, nelle mani di Dio, come il magnifico sole che trionfante s’elevava nel vasto orizzonte, un boato spaventoso mi toglie dalla serena meditazione della prodiga natura. Non feci tempo a voltarmi indietro che un toro infuriato, dimenando spaventosamente le corna, per lo strettissimo cammino fu sopra la mia bestia paziente. Da una parte la roccia si elevava a picco, dall’altra l’abisso si sprofondava verso il fiume San Francisco. La morte era certa, inevitabile. Scendere a terra voleva dire o slanciarsi a capofitto nel burrone o gettarsi in balia alla furia del mostro; rimanere in sella voleva dire condividere le sorti della sanguinosa battaglia… La mia povera bestia impari alla lotta versava sangue da ogni parte. Innalzai il pensiero all’Ausiliatrice, offrii la mia vita in olocausto per la conversione del Kibaros, ed all’istante il mostro infuriato, data una terribile cornata alla pancia della mula salvatrice, sfiorando per un millimetro la mia gamba destra, alzandosi ferocemente sulle gambe posteriori ed emettendo boati spaventosissimi si voltò precipitosamente indietro, mentre robusti Indios che già avevano tesi robusti lacci riuscirono a farlo cadere ed a renderlo impotente. Levai gli occhi al Cielo, pensai alla grande parola di Don Bosco: « Abbiate fede e vedrete che cosa sono i miracoli », e continuai tranquillamente il cammino ripieno di una tenerezza, di una soavità, che credo solamente ai Missionari Iddio suole concedere.
La vergine foresta.
Lo spavento, però, prodotto nei miei poveri Indios che mi credevano schiacciato dalla orribile furia e «fatto polvere » secondo una loro frase, non mi permise di arrivare alla miserabile capanna, ove solevo risposare la notte. Una nebbia fittissima ed un nevischio ci accompagnò fino all’ultima cima della Cordigliera, e quando ci apprestavamo a discendere alla zona orientale, gli ultimi bagliori di un divino tramonto, fantasticamente colorato, ci annunciavano vicinissime le tenebre. Fu giocoforza innalzare la tenda militare in una spianata umidissima, freddissima, senza legna per accendere il fuoco, nella regione infestata dagli orsi.
Che fare? Per evitare la funesta umidità mi gettai colla corona in mano, con una diecina di camicie e panciotti che avrei dovuto regalare ai selvaggi, su due latte di petrolio e passai la notte. Verso le due un orribile temporale sembrava volerci annientare. Passò però presto, ed alla prima, bellissima aurora, celebrata la Santa Messa coll’altare rivolto al lontanissimo Oriente, potemmo riprendere la ripida discesa.
Amatissimo Padre, non sto a descriverle la prodigiosa forza vegetativa di questa regione. Ci sono boschi preziosissimi dell’albero della China, ci sono legnami pregiati; e sopratutto qui impera la forza delle acque. Oh! se vedesse amatissimo Padre, che cascate magnifiche, e per abbondanza d’acque e per spontaneità di disegni e per altezze favolose! Quanti milioni di cavalli di forza elettrica si potrebbero sviluppare! E pensare che siamo appena a 20o chilometri dal Pacifico! Qui sopratutto si ammirano le più svariate forme di muschi, di licheni, di felci nane ed arborescenti! Può, quindi, immaginarsi con che avidità ho potuto lungo il cammino saziare la fame scientifica, al punto da fare tutto il viaggio a piedi per permettere il trasporto di tante meraviglie sulla mia mula salvatrice. Ho visto poi per la prima volta altre specie di orchidee, superbe, magnifiche, di un vivissimo color giallo, slancianti, dagli altissimi alberi, sul l’orlo di precipizi, la preziosissima inflorescenza. Ma come fare a raccoglierle? Anche questa volta per puro peccato scientifico fummo sorpresi dalla notte nella foresta, ma non soffrimmo tanto come nella precedente ed il giorno appresso, con qualche incidente di cadute, arrivammo alla sede della Missione, attesi dai confratelli Don Falco e Don Plà, ma sopratutto dai Kibaros e dai coloni.
Magnifica visione di fede.
Riposai un poco alla domenica, visitatissimo dai selvaggi, curiosi di sapere se avevo portato molte cose, e combinai con lo zelante Don Plà il piano di azione per il lavoro apostolico.
Il primo giorno ci slanciammo al nord, a marcie forzate, a piedi, e verso sera arrivammo alla imboccatura della bella valle, incisa dal fiume Juinganza, ove si va sviluppando una colonia di Indios Quichua. Appena ci videro i primi coloni, s’innalzò una voce concorde di giubilo, di festa, come all’apparizione di una visione celeste: giovani, adulti, vecchi venerandi ci si gettarono ai piedi, baciandoci religiosamente le mani, visibilmente commossi. Quando, poi, seppero che ci saremmo fermati tre giorni, che Don Plà avrebbe celebrato un triduo di predicazione per prepararli al Precetto Pasquale e che avrebbero avute due Messe al giorno, fu una festa di paradiso. Subito baldi giovanotti si sparsero nella foresta ad avvisare gli altri coloni e nella notte oscura e piovigginosa, come anime doloranti e fantasmi di morte, per sentieri pericolosi ed impossibili, ci vedemmo giungere tutti i cristiani alla capanna di ritrovo, fatta di bambù. Causa la stagione piovosa, si dovette subito pensare al luogo più decente da convertirsi in cappella.
Un pollaio… convertito in cattedrale.
Non rimaneva che un porticato ricoperto di paglia e disputato da porci, buoi e galline. Ma un pollaio ci parve più imponente. Sloggiammo subito, quindi, i superbi volatili, pulimmo magnificamente il terreno, con quattro pali improvvisammo l’altare, adornandolo con sempreverdi forestali e con fiori olezzanti, e sul pavimento gettammo le tende militari come pomposo tappeto. Alla Celeste Ausiliatrice, sorridente dall’altare, due miserabili candele legate ad un palo facevano luce, ma ai suoi piedi ardevano d’amore circa 30 cuori di poveri Indios, spinti dalla miseria nella foresta, ed esuli, erranti, l’invocavano come stella consolatrice. Terminato il Santo Rosario e la predica, spenti i lumi, ci addormentammo nel Signore e all’indomani, al primo sorgere dell’aurora, celebrammo le Sante Messe. Che musica! che concerti! Ogni tanto le vacche muggivano, i porci grugnivano all’insolita novità, qualche gallina voleva ritornare al regno perduto. Profanazione dei sacri misteri, parrebbe a prima vista! Eppure, credo siano state poche le Sante Messe celebrate ed ascoltate con tanta divozione, con tanto fervore, con tanto strazio di cuore; e Gesù benedetto discese sull’umile altare, come discendeva tanti secoli or sono nell’umile capanna di Betlemme.
In cerca dei selvaggi.
Terminata la Santa Messa, Don Plà rimase ad instruire i coloni ed io mi slanciai nel profondo della foresta in cerca dei lontani Kibaros per far loro un po’ di catechismo, ma sopratutto per fare spargere in tutta la valle la voce che dopo pochi giorni un Missionario sarebbe andato a visitarli nelle loro case per celebrare per la prima volta la Santa Messa e per portare le sante benedizioni di Dio. Potei infatti, dopo sei ore di marcia forzata, sotto una pioggia infernale, trovare una famiglia Kibara dispostissima verso i Missionari. La permanenza non si potè prolungare di molto, e subito dovetti, a rotta di collo, rifare la via del ritorno. Verso notte, più morto che vivo, arrivai alla cattedrale pollaio. I coloni mi aspettavano ansiosamente e preoccupati del lungo ritardo. Recitato il Santo Rosario e fatta un’efficace esortazione, si poterono udire tutte le confessioni. Il mattino seguente commovente fu la cerimonia della Comunione Pasquale e della distribuzione di un’immagine di Maria Ausiliatrice. In pochi minuti si poté scegliere definitivamente il luogo ove fabbricare una bella cappelletta, e con la più profonda commozione ci separammo da tanti amici, intraprendendo il faticosissimo calvario del ritorno alla sede missionaria.
Il lunedì seguente ci preparammo a visitare i coloni e Kibari del Tzarambiza, Partidero, e Peña Bianca. Sono queste le incantevoli posizioni che, come gemme preziose, brillano nella bellissima valle d’Indanza. I coloni sono pochi, una ventina in tutto, divisi in quattro aziende, nel modo più barbaro ed irrazionale, mancando tra di loro qualsiasi stimolo di emulazione. Questa volta pure mi volle accompagnare Don Plà e con grande sorpresa cinque robusti Kibaros, in alta tenuta, con una Kibaretta, incaricata di portare la cesta della mandioca e del banano: tre di essi erano i famosi traditori che nell’ultima escursione ci avevano abbandonati nel più fitto della foresta con pericolo della vita. Ci raggiunsero lungo il cammino con la più innocente faccia tosta: come nulla fosse succeduto, belli nei loro ornamenti e nelle slanciate fattezze del corpo.
Quando il selvaggio vuole, ha le ali ai piedi, e non c’è europeo che possa tenergli dietro. Non volli trascurare l’occasione di fare loro un po’ di bene, e lasciando indietro il mio compagno coi peones, caricati del bagaglio, decisi di seguirli, tenendo vari discorsi sulla morale cristiana e sulla necessità di viver bene. Alle tre già eravamo alla Kibaria di Antonio e mentre gli adulti, gridando come ossessi, si intrattenevano nei loro saluti rituali, io avevo radunati tutti i bambini, in vestito adamitico, per il catechismo. Dopo due ore mi vedo giungere i Peones senza Don Plà. Conscio del grave pericolo, mando subito alcuni veloci Kibaretti ad incontrarlo, ma dopo un’ora, quando l’ultimo crepuscolo mestamente illuminava l’immensa foresta, ridendo, sghignazzando, ritornano dicendo che non avevano incontrato nessuno.
Sentiero errato.
La notte si era fatta oscurissima ed era incominciata l’incomposta sinfonia di insetti e di batraci. Che fare? Non rimaneva che raccomandarlo alla Vergine Ausiliatrice! Il povero confratello nella bella età di 5o anni, inconscio delle gravi difficoltà dei sentieri Kibari, aveva creduto di poter giungere alla casa selvaggia da solo; invece la varietà delle vie aperte per la caccia lo condusse nel cuore della foresta oscura ed impenetrabile, senza una coperta per ripararsi dal freddo, senza un zolfanello, senza un’arma per difendersi. Da buon Missionario, rassegnato a tutto, si appiattò ai piedi di un albero gigantesco, e pose al suolo una medaglia della potente Ausiliatrice come sentinella e custode della sua vita. A peggiorare le condizioni venne una pioggia noiosa; forse qualche serpente velenoso gli passò appresso, forse qualche puma o tigre affamato da lontano avrà spiata la preda, ma vegliava, invocata con la miracolosa medaglia, la Vergine. Se il povero Don Plà passò la notte vegliando con il Rosario, io pure non potei chiudere un occhio. Verso le 4 al primo canto del gallo inviai abili guide in cerca di lui, e ritornarono, dopo un’ora, sconsolate. Intanto avevo celebrata la Santa Messa con un fervore specialissimo e, fatto un po’ di catechismo, mi accingeva a continuare l’escursione ad altre Kibarie. Dopo un’ora un Kibaretto mi raggiunge:
– É arrivato il Padre! E arrivato il Padre!…
Felicissimo gli mando indietro l’altare portatile e il vino per la S. Messa, ben nascosto, affinchè il Kibaro, ghiottissimo, non se lo beva tutto, e alcuni metri di tela, affinchè le donne gli dessero tutto quello che era necessario per rifarsi dalla terribile nottata.
Circondato da 60 minacciosi selvaggi.
Continuai la difficile marcia sotto i dardi di una pioggia torrenziale noiosissima, e dopo 5 ore arrivai alla Kibaria di Raimondo, sulla via del Santiago. All’entrata un urlo furibondo mi accolse. Erano circa 6o selvaggi robustissimi, armati fino ai denti, venuti dal Pongo, sospettosi, guerrieri, pronti a far la festa a qualunque straniero. Con le mie buone maniere procuro di insinuarmi, e per tutta risposta non ho che parole insolenti o risate sgangherate. Mi avvicino ad uno di essi, che pareva dei migliori e teneva al collo un bell’ornamento.
– Che vuoi, gli dico, per regalarlo a me?
– Che hai, forestiero? – mi risponde con alterigia.
– Ho specchi, coltelli, aghi, machetes, polvere da schioppo, munizioni.
– Dammi la polvere!
– Quanta? – gli dico, mostrandogliene un pacco.
– Tutta…
Dalla risposta insolente capii che era impossibile qualunque trattativa. Estrassi la bellissima macchina fotografica da un cassone e tentai invitarli a posare innanzi alla medesima. Non l’avessi mai fatto! Un urlo compatto di protesta mi fece agghiacciare il sangue.
Può immaginare, amatissimo Padre, che sconforto, fare 12 ore di cammino a piedi, sotto un’acqua torrenziale, per poter portare la parola di pace e di amore ed essere ricevuti in un modo così brutale?
L’ora della morte
Quando però sembrava fallita la mia missione odo una voce tremula, dolorante!
– Padre, tu devi avere il rimedio infallibile!
Mi volto, mi accosto e vedo steso sopra un letto un povero Kibaro ischeletrito, con gli occhi infossati ed agonizzanti e col corpo negro come se fosse affetto da terribile malattia. Non lo riconoscevo più, però egli me lo disse chiaramente:
– Tu sei il Padre buono, che quando sono uscito a Gualaceo mi hai dati molti denari per comprare ciccia, grani e cibi per il viaggio. Ora sto per morire. Mi duole lo stomaco. Tu nel cassone devi avere il rimedio infallibile: tu lo hai perchè sei buono!
Esaminai lo stato di salute del povero infelice. Gli occhi annunciavano lo stato preagonico: una terribile febbre colerica lo aveva prostrato in un modo tale che sembrava un cadavere. Umanamente parlando, la morte era vicinissima, nessun rimedio avrebbe potuto salvarlo. Innanzi ad un fatto così tragico, e per dare ai terribili selvaggi che lo circondavano un esempio della potenza del Dio dei Missionari, avrei desiderato da Don Bosco un miracolo, strepitoso, di primissimo ordine. Giudicai invece, più prudente, raccomandargli l’anima, incoraggiarlo a pregare il buon Padre Iddio, affinchè non lo gettasse in braccio del demonio, ma l’accogliesse in paradiso. Il poveretto, ricaduto tra gli orrori dell’agonia, continuava a mormorare con gli occhi fuori dall’orbita:
– Il rimedio infallibile, il rimedio infallibile: alla Missione lo hai!
– Subito viene, mio fratello.
– Va’,… corri… portamelo per non morire!…
E così dicendo cadde altra volta come morto, mentre le donne innalzavano le lugubri e raccappriccianti note di un funebre canto.
Raccomandai per l’ultima volta l’anima a Dio; gli diedi l’assoluzione sub conditione, essendo battezzato, e tra le urla dei 60 Kibaros radunati, ripresi la via del ritorno con il fratello del moribondo. Dopo cinque ore di marcia forzata, ci raggiunsero nella foresta i cinque Kibaros amici, avvisandoci che il moribondo già si era spento. Li fermai e li invitai tutti a ripetere con me la preghiera a Dio, affinché l’accogliesse in paradiso. I loro discorsi, però, erano tutt’altro che di paradiso. Sembravano furie d’infermo, spiranti odio, vendetta, morte. Succede sempre così! Qualunque morte avvenga, questi selvaggi l’attribuiscono a stregoneria, e tutta la loro preoccupazione sta nello scoprire il preteso stregone per assassinarlo.
Al cadere del sole raggiungevo il carissimo Don Plà, che mi narrava la poco lieta avventura: e recitato il S. Rosario ed altre preghiere, ed ingoiati alcuni banani, ci gettammo in braccio a Morfeo.
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(Il seguito della lettera continua in “Lettera di Padre Crespi al Rettore Maggiore (Quaranta giorni di escursioni nella regione di Indanza – 24 aprile 1924 – Parte Seconda)