Amatissimo Padre,
Dopo una rapida rassegna su ciò che di più caratteristico colpisce nella meravigliosa natura ecuatoriana, alcuni cenni sui non meno carattetistici costumi degli Indios abitanti nelle campagne della Sierra, specialmente nei dintorni di Quito. E dico caratteristici, perché se le belle città di Guayaquil, Quito, Cuenca, ecc. hanno una popolazione prevalentemente bianca con una educazione ispano-americana, con uno squisitissimo senso di ospitalità e uno spirito di lavoro, di coltura artistica e letteraria, che può competere con qualunque città europea, molti paesetti sparsi sulle erte pendici delle Ande e nelle fertili vallate albergano le preziose reliquie della primitiva razza americana, che nel contatto colla civiltà cristiana molto ha perduto dei primitivi ed originali costumi, non poco però ancora conserva di interessante per uno studioso.
Un po’ di storia.
Donde vennero i primitivi indios, in quale epoca incominciarono a stabilirsi nelle fertili pendici dei giganteschi vulcani, è ancora un punto troppo oscuro ed indeciso nella interessantissima storia americana. I più remoti ricordi storici dei più civili popoli antichi del Messico e Perù risalgono al 1000 dopo Cristo e la preistoria dell’Equatore solo ora, grazie agli studi di una giovanissima e preparatissima scuola nazionale, va lentamente risplendendo in tutta la sua verità. In mezzo al caos delle ipotesi avanzate dai diversi studiosi è chiaro che pochi anni prima della scoperta dell’America, cioè verso il 1457, Tupac-Jupanqui, 12° re degli Incas, e suo figlio, Huaina-Capac, con fortunate spedizioni militari riuscivano a sottomettere le già organizzate tribù della Sierra ed incorporarle al grande impero degli Incas del Perù.
Nel 1534 Francesco Pizzarro, avventuriero spagnolo, diede ordine a Diego de Almayo e a Sebastano Benalcazar di invadere i territori ecuatoriani ed il 6 dicembre dello stesso anno cadeva Quito ed incominciava la dominazione spagnola e la evangelizzazione delle numerose tribù conquistate.
Il 24 maggio 1822 il generale Sucre vinceva la battaglia del Pichincha e rendeva libera ed indipendente la eroica nazione ecuatoriana, incorporandola, o meglio confederandola alla Grande Colombia del generale Bolivar: otto anni dopo, l’Equatore si staccò dalla Grande Colombia, ed incominciò a governarsi da sè.
La dominazione degli Incas influì assai poco nelle diverse tribù ecuatoriane, e non riuscì neppure a generalizzare il loro idioma. Nell’anno 1583 il primo sinodo diocesano ordinava che si componessero catechismi differenti per ogni tribù; solo più tardi la lingua Kichua, fu generalizzata dai missionari e proprietari di aziende, e s’impose talmente da far scomparire le antiche lingue.
Caratteri antropologici.
È ormai accertato dai dotti la provenienza di tutte le popolazioni indigene di America dall’Asia Orientale. Diverse furono le emigrazioni ed in diverse epoche e direzioni, prevalendo in generale quelle da nord a sud: asiatico è quindi il substrato antropologico e linguistico del Kichua della Sierra.
Di un bel color rame hanno il pelo lungo e lucido e lo sfoggiano specialmente gli uomini e giovanotti nella lunga e folta capigliatura spiovente alla Nazzarena sulle ben tarchiate spalle. La barba è ridotta od assente; ed hanno occhi negri, generalmente piccoli, pomelli prominenti, faccia larga, cranio brachicefalo, statura mediana con prevalenza del tipo basso, piede abbastanza piccolo.
L’indio della Sierra è di carattere malinconico, taciturno. All’arrivo del treno nei diversi paesetti voi li vedrete a centinaia, tutti rispettosi, tutti muti; parrebbero sempre sotto la minaccia di non so quale catastrofe, o sotto l’incubo di una delle così frequenti e poderose eruzioni vulcaniche, o mosse telluriche, che nell’andar dei secoli hanno cosparso di cenere le fertilissime campagne ed aperto nella squarciata roccia la voragine della morte. Sono muti, taciturni, specie innanzi allo straniero; ma buoni, educati, vigorosi, robusti nel trasportare sulle spalle i pesi più ingombranti.
La natura montagnosa dell’altipiano andino è tale che non permette un grande sviluppo di ferrovie e di strade mulattiere, e su per l’erte pendici dei monti va il povero Indio con un pesantissimo fardello sulle spalle, e cammina cammina per ore intiere, per giorni, per settimane. Al mercato di Quito è facile veder arrivare dalle più lontane valli, baldi giovanotti dalla magnifica capigliatura, uomini maturi, donne di tutte le età con carichi di raspadura o zucchero greggio, sacchi di frumento, orzo, mais, patate, erba medica, foglie di eucalipto, e persino con pietre da costruzione e mattoni. Non domandate a questi indios se sono stanchi, se sono malcontenti di questa vita randagia: fanciulletti di pochi anni, da una ereditaria tradizione familiare furono abituati a curvare le spalle al fardello; sulla strada polverosa, per il pericoloso sentiero andino, accanto al robusto indio, voi vedete il ragazzetto ancor tenero, che s’addestra a quella che sarà la dura vita del domani.
Vestito.
Il vestito dell’indio è semplice: un paio di calzoni corti, una camicia, una coperta caratteristica, detta poncho, con un foro nel mezzo e ricoprente la schiena, le spalle, il petto; sulla testa, un vecchio cappello di feltro. Le donne pure sono tradizionali nei loro indumenti: una sottana, un corpetto, con le braccia scoperte; e, sulle spalle, una specie di mantello che serve per involgere nelle marce i bambini o qualunque altro peso; e le vedrete nella costruzione dei palazzi governativi e civili, nella pavimentazione delle strade, accanto ai mariti e fratelli condividere le gioie del lavoro con badili, zappe, ecc.
L’india è un modello di attività e di amor materno: nella casa il suo lavoro intorno ai figli, nell’azienda il duro travaglio agricolo, ed in viaggio alla città per lo scambio dei prodotti, sempre col suo fardello sulle spalle, e nelle mani la rocca per filare la lana.
Cibo e bevande.
L’indio è di una parsimonia veramente patriarcale. Durante i lunghi viaggi attraverso le Ande pittoresche osservate l’indio che vi accompagna con una gentilezza ed attenzione ammirevole: è l’ora di un breve riposo, il sole perpendicolare alla vostra testa e certi gemiti della umana macchina locomotrice dicono la necessità di rifornimento. L’Indio si getta per terra: apre il sacchettino che porta a tracollo. Non cercate pane, polenta, carne, formaggio, uova, qualche bevanda, no; poche manate di grani di mais, cotti nell’acqua semplice, divorate senza coltello e cucchiaio, con un appetito da cacciatori, vi diranno la sorprendente parsimonia di questo vostro preziosissimo amico di viaggio.
Alla sera pure ed al mattino, pochi ettogrammi di grani basteranno a saziargli la fame. Dategli un pezzettino di carne, gli avanzi di qualche dolce, e sopratutto un bicchierino di acquavite, e voi ne avrete fatto l’uomo più felice di questo mondo, l’uomo che durante il pericoloso viaggio vi assisterà con una fedeltà e intelligenza sorprendente.
Anche in famiglia il mais è la base del nutrimento: dal mais sopratutto l’indio prepara una bevanda molto alcoolica: la così detta ciccia, da non confondersi colla famosa ciccia dei Kivari. I grani di mais sono posti in acqua per 3 giorni; estratti, si lasciano germogliare sotto una stuoia. Incominciato il germoglio, si pongono a seccare al sole; poi, triturati in un mortaio, la grossolana farina, che se ne forma, si pone a bollire per alcune ore con acqua, zucchero greggio e sostanze aromatiche. Il liquido che ne resta si lascia raffreddare, si imbottiglia e, dopo una settimana circa, può esser servito come uno spumante delizioso.
In questione di bevande l’indio non va troppo pel sottile; ha una tendenza spiccatissima per l’alcoolismo, e quando può avere qualche piccolo risparmio in denari, difficilmente sa vincere la pericolosa tentazione: l’odore dell’acquavite lo trascina alla bettola e beve, beve, colla più grande voluttà, la velenosa bevanda che lo esalterà e che gli darà una vivacità di linguaggio, così insolita nei tempi di calma.
Oltre al mais, le patate, il lupino, le lenticchie e l’orzo sono parte importante della nutrizione. La carne ben raramente arriva alla mensa del poverello: se si eccettua qualche buon pezzo di maiale ogni tanto, e sopratutto qualche gustosa porzione di porcellino d’India, che cammina in tutte le capanne.
L’abitazione.
L’Indio non ama i grandi palazzi, non ha bisogno d’architetti nè d’ingegneri per la sua capanna, sopratutto nell’aperta campagna. Pochi tronchi piantati per terra, ricoperti di paglia o di fango, e tutto è pronto. Finestre? Nessuna. Caminetto per il fumo? Neppure. Come letti, alcune pelli di pecora e stuoie gettate per terra: le lenzuola sono un ingombro, una buona coperta di lana o di tessuto grossolano è sufficiente per ripararsi dal freddo. Alcuni piatti ed alcune pentole, ecco il patrimonio dell’Indio che è felice e non desidera di più, e rifiuta assolutamente altre comodità. Entrate in una di queste capanne sopratutto durante una escursione, e vedrete il candido, spontaneo sorriso di questi poveri figli del campo: vedrete le mamme gettarsi in ginocchio ai vostri piedi, e chiedere la benedizione, vedrete gli uomini robusti levarsi il cappello e baciare con vero spirito di fede la mano sacerdotale. Oh la benedizione del sacerdote è preziosa e ricercata come una manna celeste! Oh quante volte passando anche per le vie delle città, sopratutto i cari bambini vanno a gara a gettarsi ai piedi del sacerdote con le mani giunte e con un’effusione di bontà sincera!
Religione.
La religione dell’Indio è veramente grande, veramente sentita. Entrate in una qualunque delle chiese della Sierra, in giorno di festa durante le sacre funzioni, e vi sorprenderà il profondo silenzio e la profonda divozione con cui si assiste ai sacri riti.
Nel maggio e giugno scorso ho visto l’entusiasmo religioso di un popolo minacciato dalle terribili scosse di terremoto e il vivo fervore con cui ci celebrarono le imponenti feste del Sacro Cuore di Gesù. Dalle più remote pendici dei monti vicini discesero questi figli del popolo con candele, con piatti d’incenso fumeggianti; e uniti al fior fiore dell’aristocrazia fecero echeggiare nella città per ore ed ore le più commoventi note d’invocazione alla Vergine Ausiliatrice. Scene indimenticabili, scene commoventi, che dicono lo sforzo magnifico operato dai Missionari nei secoli passati, e che dice sopratutto la grande Fede patriarcale, conservatasi fino a questi giorni, malgrado l’estrema scarsezza di operai evangelici, che li possano avvicinare con più frequenza.
A questa scarsezza è dovuta la permanenza di qualche superstizione, isolata a qualche paesetto remoto e rilevata dai missionari Lazzaristi e Redentoristi, che con immenso sacrificio cercano la pecorella smarrita nelle più inaccessibili contrade.
Dite a qualche indio che andrà all’inferno per suoi peccati e vi risponderà con sentimenti di fatalismo: – Se Iddio lo comanda che cosa dobbiamo fare? Il Signore disponga pure! – Oppure con tutta tranquillità si pacificherà, pensando che l’inferno è solamente per i bianchi!…
In qualche romita frazione non è difficile incontrare indios che raccolgano sassolini e li portino sulla cima del monte in onore dello spirito del monte, oppure altri che per impetrare da Dio la grazia di un felice viaggio pongano sassolini accanto ad un Crocifisso o un’immagine religiosa.
Resto del paganesimo è pure l’usanza, isolata, di dar da mangiare e da bere ai defunti; ed è ridicolo il costume vigente in qualche paese di castigare il Santo Patrono, interrandolo nell’arena, quando la siccità si prolunga, e di metterlo all’aperto, quando le piogge non cessano.
Cerimonie funebri.
Nella gran lotta per l’esistenza l’indio possiede ancora il mirabile e primitivo istinto preservatore, che purtroppo va perdendosi nei paesi civili. L’erba del campo, del prato, del bosco, ecco la farmacia del povero, che non ha medici e non vuole sapere delle loro cure. Con una memoria sorprendente, fanciulli di pochi anni già vi sanno dir il nome di moltissime erbe e sopratutto la loro efficacia curativa, ed effettivamente moltissime sono le guarigioni. Nel popolo esistono ancora degli anziani, detti curanderos, che molte volte possiedono specifici sorprendenti.
E quando la falce della morte entra in qualche capanna, unita alla rassegnazione cristiana, vi entra anche il tradizionale gemito di compassione. Vengono le donne piangenti, che con alte, disperate grida vanno esaltando le virtù dell’estinto, senza interruzione, cogli aggettivi i più affettuosi e soavi. In alcune parti, benché assai di rado, ancor vige l’antico costume di banchettare e ballare dopo la sepoltura, intorno alla tomba. Usanza generale obbliga tutti i parenti a radunarsi dopo il quinto giorno, a lavare tutta la roba dell’estinto e con un dado sorteggiare l’erede ed il pagatore delle spese funerarie. Il culto per i morti è commoventissimo e non c’è indio che il 2 di novembre non faccia recitare dal sacerdote un “Libera me Domine” e un “De profundis”.
Musica e balli.
L’indio è musico nato: la magnifica bellezza dei panorami andini, lo splendore dei tramonti, il clima soave della Sierra in eterna primavera, lo invitano al suono ed al canto. E con piccole cannucce perfettamente intonate, si fabbrica il suo Rondador ed all’alba e al tramonto, sulle pendici del Pichincha, del Cotopaxi, del Cimborazo, zuffola la mesta arietta, il suo simpatico San Juanito, che riflette l’animo triste e melanconico. Musica mesta, profondamente mesta in una scala incaica in re minore, colle sole note re, fa, sol, la, si, con sole 5 note in tempo forte. Anche nel sacro tempio è preferita la lode triste, che vien cantata a terze, con passione e dolore profondo, davvero commoventi.
Nelle occasioni più solenni l’indio ha pure la sua banda: pochi istrumenti gli bastano: una gran cassa, un cornetto, un trombone, un basso e un clarino costituiscono una musica facilmente mobile, di poca spesa e di pieno suo gradimento.
Le feste religiose sono celebrate con uno sfarzo esterno rumoroso: luminarie pittoresche, grandi colpi di mortaretti e di bombe, razzi esplodenti nel cielo e musica a gran forza, con prevalenza della gran cassa.
Non manca mai il ballo, eseguito con costumi più appariscenti e molte volte con una certa grazia e proprietà. Uno, gentile, è comune nei dintorni di Quito. Allegri giovanotti danzano intorno ad un tronco di verdeggiante albero, tenendo in mano un nastro colorato; a passo cadenzato e in un turno prescritto, ognuno va formando un leggiadrissimo disegno, attaccando ed intrecciando il nastro al tronco: in senso inverso e, sempre ballando, ognuno riprende il suo nastro, finché torna alla posizione primitiva. Balli, canti, feste religiose sono gli unici, innocenti divertimenti di un popolo che lontano dai sollazzi di una civiltà raffinata, non sa desiderare di più, e gode ed è felice di vivere così.
Amatissimo Padre, eccole alcune brevi notizie ed impressioni sull’indigeno e simpatico indio ecuatoriano, di quell’indio che tre secoli fa ancora non credeva in Dio, ed ora lo ama e lo adora con un profondissimo sentimento religioso, di quell’indio che tre secoli fa era immerso nelle più profonde tenebre del paganesimo ed ora si bea ai purissimi raggi del sole cristiano. Alcuni chilometri più abbasso del Tunguraghufa e Schangay altre tenebre, altre barbarie, altri dominii assoluti del demonio, i nostri carissimi Kivari. Quando spunterà per essi il giorno della Redenzione, quando la potente Ausiliatrice s’assiderà Regina e Sovrana in mezzo a queste impenetrabili foreste amazzoniche?
Amatissimo Padre, di loro e dell’eroico lavoro dei missionari, dirò in altra mia.
Prof. Don CARLO CRESPi Missionario Salesiano.